Giudici (Letteratura e diritto #3)
di Pasquale Vitagliano
È davvero un giudice. Ritengo sia il complimento migliore che si possa fare a un giudice. Terzo per vocazione rispetto alle parti, voce della legge. Nell’immaginario dovrebbe concentrare le migliori qualità umane dell’equilibrio, della sobrietà e di una magnanimità non lassista. Ci sarà un giudice a Berlino? È l’ultima speranza per un mugnaio di sottrarsi alle angherie dell’imperatore di Prussia. La frase erroneamente viene attribuita a Bertold Brecht di Vita di Galileo. In realtà, si è trattato di una attribuzione giocosa del drammaturgo tedesco Peter Hacks nella sua opera Il mugnaio di Potsdam: una commedia borghese. Resta la contraddizione di un tale affidamento con una concezione marxista della storia, secondo cui la magistratura è una sovrastruttura funzionale al sistema di potere. Più coerente con questa realtà è il giudice di Pinocchio per Carlo Collodi, cioè uno scimmione della razza dei gorilla. Anche Fabrizio De André diffida dei giudici la cui altezza – allusivamente – non supera un metro e mezzo. Anche George Simenon non aveva una grande stima dei giudici. Infatti, l’alter-ego dell’ispettore Maigret è il giudice istruttore Ernest Coméliau, che si distingue per la sua ristrettezza di visione. Eppure, in uno dei libri più intimi e crudeli, Lettera al mio giudice, il protagonista, condannato a morte per l’uccisione dell’amante, si rivolge ad un giudice che porta quello stesso cognome. “Vorrei tanto che un uomo, un uomo solo mi capisse. E desidererei che quell’uomo fosse lei”. Mi sono domandato se questa lettera sia stata un effetto, in qualche modo, della sindrome di Stoccolma.
All’angustia dei giudici di Maigret si aggiunge il loro carattere minaccioso in due autori molto sensibili al tema, Dostoevskij e Kafka. La figura del giudice assume un’immagine tetra e per niente rassicurante. La terzietà scompare. Il giudice svetta con la sua forza accusatrice rispetto all’imputato che si sente già colpevole e condannato. Il giudice diventa un persecutore. Con uno scritto del 1981, I burocrati del Male, Leonardo Sciascia, commentando la manzoniana Storia della colonna infame, mette in guardia dal pericolo anti-illuminista e totalitario di utilizzare la funzione giudiziaria come strumento etico. Punto di riferimento di una pura visione garantista, è stato, però, brandito, postumo, essendo lui morto nel 1989 prima della stagione delle stragi mafiose e dello scontro su Tangentopoli, come un’arma culturale contro la magistratura politicizzata. Eppure, con Porte aperte, proprio lo scrittore siciliano disegna una delle più lusinghiere figure di giudice. Il ‘piccolo giudice’, compromettendo la sua carriera, in un ambiente in cui tutti, popolo e regime, si aspettano che l’assassino sia giustiziato, si assume la responsabilità di non comminare la pena di morte, sorretto dalla sua cultura giuridica e letteraria.
Per orientarsi nella polemica attuale che ha portato il governo allo scontro con i giudici a causa della separazione delle carriere tra giudicanti e inquirenti, suggerisco la lettura di un’opera teatrale, Corruzione a Palazzo di Giustizia di Ugo Betti, che tutto sintetizza su questo tema. Il potere di sentenziare ha come vizio inerente la corruzione: la verità giudiziaria “corrompe” sempre la verità storica; quasi mai coincidono, della seconda la prima dà sempre una versione fattuale ma microscopica, parziale ma socialmente accettabile. Solo la virtù può legittimare l’autorità. Alla fine del dramma, solo il grande corruttore, il giudice Cust, lo comprende per il peso che si porta sulla coscienza. Dunque, qualsiasi riforma deve essere una auto-riforma per essere efficace. Una conclusione (etica) che non vale solo per i giudici e la giustizia.
⇨ Le lettere scarlatte (Letteratura e diritto #1)
⇨ Un genere anglosassone (Letteratura e diritto #2)