Cûr

di Giulia Zoratti
Oggi faccio guidare te. Passo le ore di autostrada a contare quanti chilometri mancano al nostro arrivo. Non voglio scendere. Gli interni di questa macchina sono un frammento di stabilità. Il nostro continuo cambiare case ha spezzato i confini dell’intimità domestica. Ci distendiamo in letti dove fino a poco fa dormiva qualcun altro, abbiamo finestre affacciate sempre su città diverse. L’unico posto dove possiamo sempre tornare, è in viaggio.
Senti il bisogno di riempire il mio silenzio di rassicurazioni.
«Se la pioggia è troppo forte ci possiamo sempre fermare».
La tua previsione è giusta. La notte si sporca di un nero più intenso, e siamo in un buio che i fari della macchina tagliano come lame.
Le strade che ci portano a casa scivolano nella campagna delle colline ma la pioggia sempre più forte rende il percorso incerto. I rilievi morbidi diventano ostili e noi siamo silenziosi. L’asfalto è indistinguibile dalla terra dei campi. Spegni la radio. I canali di scolo invadono la carreggiata dandoci l’impressione di navigare in un mare basso.
Cerco di anticipare un nostro incidente. Io e te insieme, sarebbe stato bello. I movimenti dei nostri corpi, sbalzati fuori, avrebbero ricordato un volo.
Non ho mai immaginato la morte come qualcosa di spaventoso, è solo un’attesa.
Accostiamo appena vediamo una tettoia.
«Finché non smette», mi dici mentre ti accendi una sigaretta. Con il motore spento l’unica luce che vedo è quel punto rosso che brucia.
Continuo a abbassare lo sguardo sul cellulare. Una chiamata persa.
Quando arriviamo nella mia stradina, Nives, la vecchia vicina, si accorge di noi. Esce di casa nonostante sia sera. Ti viene incontro appena scendi dalla macchina.
«Di cui sês tu?», di chi sei?, ti chiede, pensando a qualche cugino arrivato per il funerale. Una domanda che può esistere solo in quei posti dove tutti si conoscono.
Resti interdetto per quella lingua che non ti è familiare. Appena vede me, Nives capisce.
«Ah, le so frute…» dice toccandosi il viso, mortificata.
Frut è una parola che ti ha sempre incuriosito, non essendo cresciuto ascoltando questa lingua. Significa bambino, ma significa anche frutto.
Frute, dulà ise tô mari?, dov’è tua madre? mi chiedevano spesso, e io mi sentivo una pesca gonfia di succo. Una delle tante more di un gelso, che appena la tocchi ti sporchi le dita.
Nives mi dà un abbraccio.
«Farò tante preghiere», dice, come se mi dovesse rassicurare.
Mentre mi parla mi fermo sul suo viso.
Le facce del mio paese sembrano quelle di animali selvatici.
Entriamo in casa.
Mia madre ha fatto dei cambiamenti. Un nuovo colore per una parete, una cassettiera in più, l’ennesimo mobile invaso dai libri. Anche il tavolo della cucina è pieno di carte, appunti. Ogni angolo è un tentativo di fuga. Raccolgo tutto ma non trovo dove appoggiarlo.
Improvviso una pasta mentre tu accendi il camino.
Dopo cena rimaniamo seduti a tavola, una cosa che di solito non facciamo mai. In questo ambiente improvvisamente estraneo i nostri tempi si dilatano. Ci rilassiamo. Inizio a raccontarti la storia dell’incidente di mia madre. La chiamo storia, perché non sappiamo davvero come sia andata. Ogni volta cerco di aggiungere nuovi dettagli, immaginandoli e poi chiedendoti qualche conferma.
I suoi amici non ricordavano bene quando era partita, era una giornata festiva, nessuno badava all’orologio. Lei aveva portato il pane fatto in casa e le verdure del suo orto. Era una lunga tavolata di gente della sua età. Ognuno aveva raccontato dei propri figli andati lontano. Ho cercato di capire se fosse stata una serata allegra, con calici di vino scuro sempre pieni. L’ho chiesto alle sue amiche, ma loro, chiuse in un silenzio abbottonato, mi restituivano solo poche parole in lingua. Una lingua maledetta, dove il lessico non permette di divagare. O jerin ben, stavamo bene.
«Volevo solo capire perché mi avesse chiamata. Magari alla cena le era venuto in mente di dirmi qualcosa».
Mi guardi con aria stanca. Non hai mai compreso il rapporto che avevo con mia madre. Sei stato accolto con calore. Con te vicino tutto diventava più semplice. Si imbastivano discorsi, si apparecchiava la tavola, si passava la serata insieme accanto al fuoco. Tu facevi in modo che non si spegnesse, curando quella fiamma tormentata dal vento nella canna fumaria. E io di contorno vi ascoltavo, stupita dell’intreccio delle vostre voci. Quando ero sola in quella casa, invece, mia madre si muoveva come se io non ci fossi. Mangiavamo separate, non per volontà di allontanarci ma per abitudine. La sua indipendenza da tutti, il bisogno di prendersi i suoi spazi, di mangiare appena sentiva la fame, di dormire solo quando si era stufata di leggere. Un ritmo costruito per essere sola.
Una chiamata persa. Non cancello la notifica, così ho sempre la sensazione che mi stia cercando.
Era quasi arrivata a casa.
Una volpe era passata per strada.
Penso di aver trascorso talmente tanto tempo a osservarla, a indovinare i suoi movimenti, a interpretare i suoi sospiri, da poter prevedere ogni sua reazione di quella sera.
Lei aveva provato a sterzare, era stato inutile. Sono venuta a sapere che la sua auto era finita contro un albero, mentre il corpo dell’animale era stato trovato poco più in là. Mia madre era riuscita a liberarsi dalla macchina in fiamme, aveva mosso qualche passo, si era accasciata vicina alla volpe. Mi chiedo se le abbia fatto piacere non morire da sola ma vicino a quel corpo. Se ne abbia potuto ammirare la bellezza. Mi immagino il sangue di mia madre che si mescola a quello di un animale selvatico.
Quando ero bambina non era raro che la volpe venisse nei nostri campi. Spesso riusciva a intrufolarsi nel pollaio di Nives. Mamma mi svegliava all’alba per mostrarmi quella volpe nel nostro prato. Mi portava in braccio davanti alla finestra, e io con gli occhi fragili per la luce la guardavo, seguita dai cuccioli.
«È una mamma», mi diceva sussurrando piano come se l’animale ci potesse sentire, «è per sfamare i suoi cuccioli che rischia tanto avvicinandosi alle case».
Aveva ragione. Qualche tempo dopo quella vicinanza si era rivelata fatale. La volpe giaceva nell’erba. La si poteva vedere anche dalla finestra della mia camera, un punto rosso che si stagliava nel verde. Non c’era modo di nascondersi in quei campi. Mia mamma mi ci ha accompagnato, tenendomi per mano. Era raro poter vedere così da vicino un animale tanto bello, non voleva perdere quell’occasione.
La volpe aveva gli occhi spalancati. Le iridi verdi erano ancora lucide, ma già coperte di polvere e sterpaglie. Il suo sguardo sporcato mi sembrava una bestemmia scritta sul muro di una chiesa. Il pelo rosso, folto, mi dava la sensazione di volerlo accarezzare. Riparare con le carezze la pancia rotta, la pelliccia intrisa dal sangue, le viscere brillanti che i corvi avevano iniziato a rubare poco prima che arrivassimo noi.
Mamma si era stupita quando aveva visto che io, invece di rimanere affascinata, piangevo fino a farmi mancare il respiro. Pensavo ai cuccioli.
Togliamo le lenzuola dal letto di mamma. Letto rifatto da lei, con i bordi sempre piegati accuratamente e adagiati sotto al materasso.
Mi allontano mentre tu leggi qualche pagina di un libro trovato sul comodino.
Faccio una doccia. Indosso la maglietta di un vecchio concerto. Noto il profumo di mamma accanto allo specchio e me lo metto sulla t-shirt.
Torno da te. Invece di aprire la porta della camera da letto mi chino e provo a guardare dal buco della serratura. Lo facevo spesso quando arrivavo a malapena alla maniglia. Non osservo te ma questa casa.
«Ti piace il mio profumo?», ti chiedo appena entro.
È di una marca che era di moda molti anni fa ma che ora si trova nei piccoli supermercati. Lei lo ha sempre usato. Ricordo come mi appoggiavo sui suoi cappotti per sentirlo. Era mancanza. A volte lei viaggiava per lavoro. Altre volte diceva che andava da amici e io e papà restavamo a casa ad aspettarla. Non diceva bene quando sarebbe tornata. Certe volte passava un mese. Le telefonavamo.
Mi avvicino per farti sentire il suo profumo sulla mia pelle.
«Mi piace molto», rispondi.
Mia madre aveva un’eleganza misurata, intellettuale. Sempre essenziale, mai semplice. Difficile da dimenticare. Aveva sempre qualcosa da ridire su come mi vestivo. Chi te lo fa fare di andare in giro con quei tacchi? Tanto lei non capiva, era bella anche con le scarpe basse.
Non ce lo diciamo ad alta voce ma sappiamo entrambi perché sei il suo preferito. Quando mi hai sposata hai sfumato la mia presenza. Mi hai allontanata da questa casa. Lei te ne era grata.
Prima di addormentarci apro la finestra. La tenda trema. Entra l’aria fresca del temporale appena passato.
Non era un segreto che mia madre non mi avesse voluta. Anche quando era incinta non mi desiderava. Non provava a immaginare insieme a mio padre che aspetto avrei potuto avere. L’attesa stava solo nel potersi liberare del mio peso. Forse è stato per quello che si era trovata impreparata quando aveva scoperto che ero identica a lei.
Mentre mi sto addormentando sento che il mio corpo dimentica le sensazioni del giorno. Si rilassa con il tocco della tua pelle. Ti rigiri su di me e mi stringi. Era lì di fronte a noi, il telefono che squillava e tu che mi hai detto di non rispondere: “non roviniamo una bella serata”. E io che ti ho ascoltato.
Ti devo ringraziare.
Ci svegliamo che è il mattino del funerale. Ora che è estate la messa si celebrerà nella chiesa in cima alla collina. Più antica, più fredda, inghiottita da alberi sottili. E tra quegli alberi vedrò spuntare i musi allungati dei miei parenti, mutati nel dolore di chi ha perso una sorella, di chi una figlia.
Appena apro gli scuri noto che il bucato steso da mia madre è stato portato via dal temporale di ieri. Corro fuori. Pezzi di lei sono su tutto il giardino. Sembrano quelle chiazze di neve che faticano a sciogliersi nelle zone d’ombra. I suoi vestiti sono gelidi di quella pioggia fredda e rovinati dalla terra che li inabissa.
Tu mi raggiungi.
«Non ti trovavo», mi dici, affannato, «pensavo che fossi sparita».
Mi accorgo che nella fretta di arrivare non ho messo nemmeno un abito nero in valigia.
Trovo un vestito dall’armadio di mamma.
Mi guardo allo specchio. Sputade, ci diceva Nives quando ci vedeva insieme.
Sputate, una somiglianza violenta.
Sempre una certezza la scrittura di Zoratti. Gran bel pezzo.