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Pasqua

di Maria Noemi Grandi

Nel recinto gli animali di zio non sono divisi per specie, ognuno trova il suo posto un po’ dove gli pare. Le galline e le oche beccano senza paura in mezzo ai cani, sanno dove ritirarsi a covare le uova e a nessuno degli altri verrebbe mai in mente di disturbarle. I conigli corrono per i fatti loro tra una fossa e l’altra del terreno. Le due pecore, Pasqua e Pasquetta, dormono nella grande cuccia di pietra del cane senza nome che quando serve chiamiamo Cane, che tiene tutto a bada e caccia le volpi quando provano ad attaccare. Mi avvicino all’angolo in ombra dove sta la cuccia. Zio ancora non si vede ma mi ha raccomandato alle cinque in punto e io alle cinque in punto sono pronta, che a scuola la maestra ci dice in orario è già in ritardo e io non lo dimentico. Mi accovaccio, batto sulla rete del recinto, i musi delle pecore e del cane sbucano fuori per il buongiorno. Infilo qualche dita tra le maglie di ferro e li accarezzo come posso.

– Sicura? – mi fa zio alle mie spalle, annuisco e mi rialzo – Vedi che t’impressioni.

– Non mi impressiono – aprile sembra già estate eppure in pantaloncini e canotta ho freddo. Non mi sono mai alzata prima a quest’ora, non la conoscevo la temperatura dell’alba, mi rannicchio per poco tra le mie braccia. Zio mi allunga una pila di ciotole e un mazzo di coltelli.

Che le nostre due pecore si dovessero chiamare Pasqua e Pasquetta io e i miei cugini lo abbiamo deciso il giorno stesso in cui sono arrivate in campagna, durante le vacanze di Natale.

– Queste tra qualche mese sono perfette – ci aveva detto zio – Quando tornate a Pasqua sono grandi il giusto e le ammazziamo – e allora era stata facile quella trovata. Un nome: un destino.

Zio apre il recinto e chiama Pasqua a sé – Andiamo, bella. Andiamo – quella si avvicina placida, pensa le abbia portato da mangiare i soliti resti. Pure Pasquetta si accoda ma zio la spinge indietro e chiude il cancello. Insieme ci allontaniamo di qualche passo sul prato. Pasqua si agita e zio allora la afferra per il collo, le serra il muso, cerca di trovare la posizione migliore per bloccarla e procedere ma Pasqua è forte, scalcia. Zio le sale in groppa, la stringe tra le cosce. I polpacci da vecchio pugile si tendono e tremano. Ora la tiene per le orecchie avvinghiate in un solo pugno. Chino sul suo corpo incredulo, zio mi tende una mano e con le dita veloci mi chiede il coltello stretto e corto. Pasqua si dimena, prova a disarcionarsi di dosso il suo padrone. Zio tira il muso verso di sé, le dispone comoda la gola. Pasqua cerca i suoi occhi, bela stridula in quella posizione innaturale, sembra interrogarlo e poi capire, cercare la sorella che intanto piange chiusa nel recinto – il muso appiccicato alla rete nell’angolo da cui può osservarci fino alla fine. Qualunque sia la lingua o il verso, un pianto lo riconosci. E oggi io so come piange una pecora: come mio fratello piccolo appena arrivato a casa dall’ospedale. Quelle urla acute, scattose, lunghe fino a svuotargli i polmoni e stridergli in gola, come se fuori dalle braccia di mamma ci fosse solo la paura dei boschi neri, la certezza di essere soli e morti.

Zio impugna sicuro il suo coltello – Buona – le dice – Buona! – da sinistra a destra, la sgozza. È stanco ma sorride. Resta curvo sul corpo di Pasqua, la scrolla leggermente per aiutarla a morire. Il sangue sgorga dalla gola spezzata sugli ultimi rantoli. La vita se ne scappa per le zampe che scalciano ancora qualche volta prima di cedere.

– Avanti, è finita, buona. È finita – la consola – Andiamo – mi dice con la voce rotta dallo sforzo mentre se la carica su una spalla e fa strada davanti a me. Lo seguo in silenzio con in braccio gli attrezzi che mi ha affidato. Giriamo l’angolo, ci fermiamo all’ulivo più anziano, bitorzoluto e spoglio ma resistente, appena dietro il recinto da cui ancora la sorella riesce a osservarci. Da uno dei rami più alti, pende già pronta una corda con un arpione. Zio prende Pasqua per una zampa, infilza l’arpione nel tendine del tallone che nonostante il peso non si strappa. Sparisce nella casetta degli attrezzi e io resto sola a fissare Pasqua dondolare nel vuoto a testa in giù. Quando torna zio ha con sé un compressore. Incide la pelle della schiena e appena sotto, nel piccolo taglio, ci infila la bocchetta del tubo. Lo accende, l’aria scuote violenta il silenzio dell’alba e il corpo di Pasqua. La sua pelle si gonfia come una zampogna, si scolla senza fatica dalla carcassa. E Pasqua, come una zampogna, suona. Suona e io mi spavento.

Zio ride – I fantasmi! – rido anche io ma non rispondo – Che fai, ti spaventi? È solo l’aria che passa nel taglio della gola – rido meglio.

– Tipo flauto – faccio. La risata comune ci assolve. Pasqua, tutta gonfia, ridicola, continua a dondolare mentre noi ridiamo.

Spento il compressore viene scuoiata in fretta – Togliamo il vestitino – le dice zio divertito di se stesso. Gli passo quello che chiama coltellaccio e lui si fa deciso, primitivo, le apre la pancia per il lungo. Mi fa cenno e mi avvicino pronta con le ciotole. Fingo, mi tolgo dalla faccia la tensione dello schifo. L’odore vivo del sangue mi punge le narici e la gola.

Zio mi sa e mi richiama – Sbrighiamoci. Arrivano le api – e allora torno vigile e veloce nel disporre ciotole, stracci e coltelli. Per prima cosa estraiamo l’intestino. Zio lo lascia scivolare, viscido e caldo, nella ciotola che tengo sugli avambracci per raddoppiare la mia forza. Scaccio le api attorno a me agitando la testa come una mucca. Passiamo alla sacca dello stomaco, poi ai reni, al fegato. Al secondo giro ho capito come coordinare il respiro. Trattengo quando mi avvicino al corpo, respiro veloce quando mi giro a cambiare la ciotola. Tocca al cuore. Zio si fa più lento, lo estrae con cura a due mani – Trifolato è magnifico. Oppure semplice: arrostito, olio e sale – annuisco, mi perdo da qualche parte e il peso del cuore buttato nella ciotola mi sorprende. In ultimo, i polmoni.

Mentre mi avvio verso casa con le prime ciotole piene di organi, budella e coltelli, lui rifinisce il lavoro. Mozza la testa di Pasqua, la aggiunge in una delle mie ciotole, fa cadere in un secchio i rimasugli che non servono. Poi sgancia Pasqua dall’ulivo, mi cerca lì attorno per mostrarmi fiero tra le sue braccia spalancate in aria sopra la testa, la carcassa nuda e vuota, tenuta per i piedi e per il collo. In casa intanto solo zia è scesa per la sua parte del lavoro. Il tavolo vuoto al centro della cucina è pronto, coperto di traverse e taglieri. Seguo zio al lavandino, lui si sciacqua velocemente le mani, io proseguo su per le braccia, sfrego bene tutte le macchie di sangue, salgo fino alle spalle che mi prudono, mi sciacquo anche le narici.

La carcassa scomposta di Pasqua è sul tavolo. Dai buchi della mandibola sguscia fuori la lingua e si abbandona. I fasci di muscoli e tendini che avvolgono il cranio, gli occhi lucidi e ora esposti, appena pinzati alle orbite, resistono a comporre il suo volto. Mi sembra sorridere, sto sotto la pelle e il pelo e ancora la riconosco. Zio pizzica la lingua tra indice e pollice – Questa al sugo è la morte sua – sorrido. Buona, penso.

Zia intanto prende i sacchetti Cuki e me li porge. Passo a zio l’accetta per separare le zampe dal busto, gli stinchi dalle cosce. Lui conosce le fibre della carne, la loro direzione e resistenza, tra le coste ci entra con la punta del coltello grande e lungo ben affilato. Pare il rumore della seta accarezzata di nascosto nell’armadio di mamma quando giochiamo a le signore del mercato. O no, il rumore dei fogli di pelle che ci stacchiamo a vicenda dalla schiena dopo esserci bruciati al mare. I colpi secchi e decisi dell’accetta tranciano le ossa con pulizia e cura. Nessuna scheggia finisce nella polpa. L’indecisione fa mangiare carne scarsa.

– A Pasqua quanti siamo? – ci contiamo e poi contiamo i pezzi di carne. Immaginiamo quanta fame potremo avere da lì a tre giorni. Zia mi passa i sacchetti e io li arrotolo come so, per aiutare l’imbustamento e far sì che i bordi non si sporchino di sangue. Mi appollaio nell’angolo di tavolo sgombro, gambe ripiegate sotto il sedere per arrivare meglio con i sacchetti alle sue mani piene. L’odore del sangue di Pasqua non lo sento più. Posso stare vicina senza trattenere il respiro. Appoggiata sui gomiti continuo ad arrotolare sacchetti. Sono stanca e gobba. Ma era giusto scendere presto, aiutare zio. Vedere tutto, cosa c’era nel corpo di Pasqua, infilare gli occhi tra gli organi e guardare finalmente da vicino come quelli se ne stanno lì accrocchiati, scoprire come sono fatti, quanto pesano un cuore, un paio di polmoni, lo stomaco lungo lungo di una pecora. Mi drizzo, ho in testa la voce di mamma che mi dice Stai dritta. La pancia fa le pieghe. Pure le cosce premono sull’orlo dei pantaloncini. Mamma li chiama i suoi prosciuttini. Saltare in camera per tutto il mese, tutti i pomeriggi, non è bastato. Quando in oratorio mi siedo devo fare attenzione alla maglia che se ne resta infilata nelle pieghe. Con questa pancia la canotta blu e rosa non la potrò mettere. La canotta blu e rosa però sarebbe stata importante. Il primo giorno di campo è importante. In oratorio tornano quelli di terza media, che ormai è un anno che non si vedono più, e fanno le squadre. Le vacanze di Pasqua non durano niente, ho poco tempo per farmi piacere da Luca. A quelli di prima oggi facciamo i gavettoni di acqua e pipì. Mi tiro i pantaloncini sulle cosce come a slabbrarli e illudermi di avere meno carne attaccata, meno grasso. Un filo di sangue mi è colato su tutto il polpaccio destro. Deve essermi sfuggito. Lecco due dita e lo sfrego ma quello è già secco. Corro su per le scale, busso e ribusso alla porta del bagno ma Chiara, mia cugina, è chiusa dentro e non apre – Mi devo lavare.

– Usa il lavandino di giù – ma nel lavandino di giù c’è l’intestino di Pasqua. Zia già lo sta lavando per bene con il sale, andrà avvolto attorno a tritato, uova, prezzemolo. Buono. Allora cerco di portarmi avanti, lecco le dita e sfrego ancora. Busso.

– Devo usare il bagno. Arriviamo tardi. Non so che mettermi – il sangue di Pasqua è duro a levarsi.

Fuori sua sorella Pasquetta piange. Piangerà senza pace per giorni e notti a cui ci abitueremo e che smetteremo di contare.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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