Fu Mina

di Laura Mancini

Un pomeriggio d’autunno del duemiladiciotto mio marito apparve sulla soglia a un orario insolito. Lo guardai storto dalla scrivania sperando entrasse e uscisse in rapidità senza pretese di interazione, non avevo ancora concluso il lavoro del giorno ed ero irritata dal suo aspetto squinternato e fuori asse. «Elio» sospirai come si constata «piove…», ma lui restò chiuso nel suo. Esitava trafficando intorno all’attaccapanni Shangai di cui mi sarei presto disfatta come se stesse cercando di ricordare che cosa fosse tornato a prendere. Non volli dare peso alla cosa avendo smarrito ogni interesse nei suoi confronti da quando avevo appreso che mi tradiva leggendo uno scambio whatsapp – erotico nei contenuti, scabroso a voler proprio infierire. Era stata una scoperta un po’ patetica, dovuta alla presbiopia e all’istinto alla lettura, una deformazione professionale di cui di norma ci si bea ma non in casi come questo. La schermata della chat resa gigantesca dalla scala aumentata dello schermo del nostro computer mi aveva trasformato all’istante nel genere di moglie che spia – ma piuttosto: vede suo malgrado – il marito in tutta la sua semi-demenza, segno che il degrado imperversava sul nostro comune destino macellando in un sol colpo i fasti del passato, o almeno “il suo dignitoso ricordo”. Ne era conseguito un disincanto radicale verso l’entità biologica ancor prima che storica, l’essere umano ancor prima che il compagno di una vita. Ma ventidue anni non fanno neanche mezza vita, mi ero detta, quindi chi se ne frega. Da settimane mentiva istericamente sulla sua routine, i suoi spostamenti, i suoi impegni di lavoro e i suoi appuntamenti ricreativi che definiva stressati da irrimediabili questioni accademiche ed erano invece solo esplosi per via di una relazione extraconiugale che non sapeva gestire. Trovavo quasi comico il suo sforzo di fornire precise e credibili descrizioni degli eventi immaginari che lo trattenevano fuori casa sebbene non gli chiedessi conto di nulla. Annuivo a ogni informazione guardando la parete verde salvia del soggiorno che ora mi ricordava un ospedale psichiatrico e non più il padiglione di un museo come quando l’architetto ci aveva presentato la palette con fare spocchioso. E più io annuivo più lui farneticava. Mentiva con un atteggiamento che gli doveva sembrare navigato ed esperto, degno del traditore seriale che dubito fosse stato, negli anni precedenti a quel gotico exploit fedifrago. La questione più divertente – sì, uno spasso. Che cosa stava cercando frugandosi in tasca, una prova da occultare sotto i miei occhi? Povero tonto, il solo ricordo è uno strazio – era che mi sapeva a conoscenza di tutto per essere irrotto nello studio proprio mentre leggevo la conversazione amorosa, ma inorridito e pietrificato dalla contro-scoperta si era astenuto dall’appurare la mia effettiva comprensione dei fatti e lo stato emotivo in cui versavo alla luce del nuovo grande segreto che ci divideva. O univa… eravamo entrambi stupiti dall’indifferenza che opponevo alla sua slealtà. Proprio io, Fu-Mina, come mi chiamavano le amiche anteponendo una sillaba al mio ultimo nome. Fumina era stato il personaggio iracondo che avevo interpretato fino a quel momento: presa consapevolezza del torto, il torto si era fatto piccolo, il reo miserabile. Fu Mina, ora non più.

Di slealtà non si sarebbe trattato in fondo se solo Elio avesse deciso di spiegarsi, o almeno di rivelarmi l’intenzione-tentazione di intraprendere un’avventura sensuale con un suo amico, una persona a entrambi familiare che io stimavo particolarmente, uno dei pochi scrittori che frequentavamo ancora. Avevo appena letto il suo ultimo romanzo tutto d’un fiato trovandolo superiore alle prove precedenti e sorprendente per l’atipicità. Non era ascrivibile ad alcun genere, rifuggiva le etichette e mi conquistava completamente nonostante le caratteristiche del tutto antitetiche al mio modo di sentire e leggere la realtà – la prosa scarnificata che in quel periodo riempiva la bocca di tanti era solo una delle caratteristiche del romanzo, non la più significativa. Ero rapita dalla natura onirica del testo, ma ancor più dalla caratura artistica dell’autore che traspariva in modo tutt’altro che compiaciuto dalla prosa, librandosi in aria e planando sulla pagina attraverso torrenziali ma sorvegliati sfoghi verbali compatti senza che si potesse davvero decifrare il senso della storia o sovraccaricarla di significati accessori. Non pretendeva di averne, né tantomeno di spiegare, istruire, sconvolgere o lasciare un segno. Eppure era un libro di idee: di idee e non di trama, di idee e non di personaggi, un lavoro distante da tutto ciò che avevo apprezzato nella narrativa contemporanea fino a un minuto prima di essere sedotta e tradita dalla stessa persona, Didier Slimani. In un certo senso avrei preferito chiedere ragione del misfatto solo a lui: lo ritenevo più degno e assennato. Elio avrebbe affogato il fatto nell’imbarazzo riducendolo al ridicolo accidentale e continuando a cercare qualcosa di immaginario nelle tasche dell’impermeabile. Mi ero risolta per lasciarli sguazzare in pace nel loro amorazzo da vecchi dedicandomi agli strascichi di una vita destinata a un unico compagno fedele: il lavoro.

Un anno prima avevo lasciato un incarico ventennale come editor in chief della narrativa straniera per una delle maggiori case editrici italiane dopo l’acquisizione indiscriminata di diverse case minori da parte della stessa al solo scopo di monetizzare forsennatamente pubblicando letteratura pornografica, manga coreani e libri demenziali per adolescenti – tutta l’immondizia che andava di moda in quegli anni. «Mina ma perché», aveva biascicato l’editore mentre ragionava soddisfatto su chi invitare a sostituirmi. Le dimissioni erano state liberatorie, non rimpiangevo lo stile ibrido del mio ufficio con le lampade tiffany e le poltroncine frau, né i personaggi che vi transitavano – topi ragno, uomini bassi, per lo più, con mani piccole e delicate da preti. Da qualche mese, nella nonchalance della libera professione senile, collaboravo con una rivista culturale internazionale che stava improvvisamente prendendo una piega molto meno indipendente di quando ero stata ingaggiata con una lusinghiera proposta vergata su vera carta con vera penna dalla direttrice in persona. Era un’amica di amici, snob ed eccentrica, un’esteta nomadica che si era formata nella scena artistica dell’Europa meridionale dove aveva consolidato un profilo militante raro a trovarsi nell’ambiente in cui sguazzava raccattando fondi a destra e a manca. Purtroppo il suo personaggio, al pari della mia superata caricatura collerica, era stato smontato dalla crudezza del quotidiano e non mi avrebbe stupito essere liquidata dall’oggi al domani per incompatibilità dei nostri reali ego che avevano iniziato a confliggere dal minuto zero della mia partecipazione al progetto. Io volevo una chiusura sofisticata a decenni di lavoro letterario, lei voleva fare soldi senza perdere la faccia. Questo era invecchiare male, cadere dai rami più alti come foglie prosciugate dal tempo e sgretolarsi a terra in una polvere qualsiasi, mi dicevo fissando la dirimpettaia che stendeva o ritirava i tappeti dal terrazzo ventiquattr’ore su ventiquattro con un aspetto tanto più sereno del mio. Tornando al quadro più piccolo, la delusione che mi opprimeva alle riunioni della rivista presiedute da individui ignari dei contenuti culturali, ma molto edotti sugli spazi pubblicitari a disposizione, era un chiaro segnale dell’imminente scadenza del mio sodalizio con l’astuta manager e con una certa epoca dell’editoria. Ero stanca di recitare e ascoltare recite, badavo solo ai fatti e i fatti erano squallidi.

Non sono sicura di aver chiesto a Elio come mai fosse tornato a casa prima del solito o a che cosa fosse dovuto l’atteggiamento cogitabondo che lo tratteneva sulla soglia con una manica del loden sfilata e l’altra ancora addosso, lo sguardo perso sulla presa del modem, un’aria stralunata per la quale in tempi di minore estraneità lo avrei deriso. Al contrario ricordo perfettamente che un allarme proveniente da un interno del palazzo suonava senza sosta da ore rendendomi impossibile conferire qualità narrativa al pezzo sulla ceramista inglese in consegna per il giorno successivo. Dal profilo esangue che mi era riuscito di comporre mentre l’emicrania pulsava all’unisono con l’allarme emergeva un’artista poco affascinante, il suo atelier, i pavoni, il riferimento a Virginia Woolf e all’Omega Workshop: era tutto molto noioso e le due cartelle che avevo composto meccanicamente non rivelavano nulla di inedito, non vantavano un guizzo stilistico né il minimo trasporto. Ciò che feci di certo fu rivolgere a Elio un saluto stringato e offrirgli una tazza di tè. A quel punto lui si riebbe e mi rese uno sguardo diffidente, quasi fosse incerto della mia identità e delle ragioni ultime della nostra convivenza. «È morto», disse, «ieri era vivo e oggi è morto». Comprendendo all’istante a chi si riferisse ne pronunciai il nome in modo interrogativo. Ma non può essere accaduto davvero, pensai, è giovane come ormai dicevamo di chiunque avesse meno di ottant’anni, ha ancora tanto da scrivere, libri che sarò io a leggere. Poi una freddezza immotivata mi pervase allontanandomi da quanto accadeva. Tacqui a lungo finché Elio non ripeté «Didier» e poi: «ha avuto un infarto, non c’è stato niente da fare, mi ha telefonato la figlia». Niente da fare, mi dissi, e ancora una volta: niente da fare. Fuori l’allarme continuava a suonare.

Avevo conosciuto la figlia di Didier a una presentazione di un libro del padre, anni prima. Mi era parsa una giovane donna dallo stile insolito, con voluminosi capelli rossi e un paltò vintage che doveva aver pescato a caso in qualche mercatino. Si chiamava Emma, abitava a Montpellier e veniva a trovare il padre per brevi e sporadici soggiorni dovendo dedicare l’altra parte delle ferie alla madre che dopo la separazione era tornata a vivere in Inghilterra. Una donna di gran classe, la madre, alla Jean Rhys, magra, pallida e squilibrata, dall’intelligenza spaventosa, spesso alterata e isolata, una protagonista involontaria nata con la camicia, ma di forza. Theresa. Pur avendola incontrata un milione di volte, non avevo il suo numero di telefono né il suo indirizzo e-mail, di lei non mi era rimasta che una specie di ombra sottile. Tutt’altra storia era la giovane Emma. Ci teneva a definirsi “naturalizzata” francese e spiccava per il suo studiato grigiore, era algida, concentrata sul lavoro – insegnava antropologia all’università – e fredda come le persone che crescono facendo a meno dell’aspetto sentimentale delle cose. Non aveva nulla del fascino dei suoi genitori, non sembrava interessarle la realtà poco terrena a cui loro avevano ispirato le rispettive disperazioni. Non seppi immaginare in che modo avesse accolto la notizia della morte del padre, forse la tragedia le aveva tolto di dosso quel rigore con cui doveva spaventare gli iscritti al seminario monografico su Lévi-Strauss. «Che palle» fu quanto mi uscì stranamente di bocca mentre Elio continuava a fissare l’attaccapanni come un totem o un crocifisso. Lottava con l’indecifrabilità del destino, vecchio, stolto amico mio. Qualcosa, forse l’amore, si dimenava in lui, impedendogli di piangere.

Mi lavai i denti, infilai l’impermeabile e presi le chiavi della macchina che Elio aveva cercato senza successo. «No», disse al muro salvia prima che uscissimo di casa, «non serve». Non parlava da solo da quando aveva consegnato il lavoro che lo aveva demolito prima del grande rilancio, come chiamavamo il suo ultimo decennio di attività. Si mise alla guida e mi augurai che non andassimo a sbattere, non perché avessi cara la pelle ma perché detestavo l’idea di morire in modo stupido e inconsapevole. Per distrarmi setacciai il web a caccia della notizia. La casa editrice aveva già annunciato la fine di Didier come l’esito improvviso di un male di cui l’autore era stato inconsapevole e che lo aveva dunque sorpreso nel fiore dell’attività strappandolo al piacere della vita e alla febbrile attività letteraria. Tra le righe del comunicato si intendeva qualcosa come un infarto silente, un tumore fulminante. Parcheggiammo la volvo a due passi dall’ospedale e mentre camminavamo verso la camera ardente notai che a Elio tremavano le mani. Quando parlava il mento subiva un lieve sussulto alla base, come per un’imminente ischemia.

Ci accolse Emma in persona, senza sorridere ma neppure piangendo o mostrandosi più scossa del dovuto. Ci fermò sulla soglia della camera ardente per esporre in modo rapido e chiaro l’accaduto. Dopo la premessa sulle cause ufficiali della morte, passò a descriverci in modo minuzioso il suicidio del padre – «Alle ore xx ha ingerito le pastiglie, alle ore yy ha scritto una lettera che leggerò alla commemorazione. Si rivolge anche a lei, Elio». Mio marito palleggiava gli occhi da destra a sinistra a velocità supersonica. Emma proseguì il resoconto secondo per secondo fino agli ultimi respiri esalati e agli spasmi post-mortem. Doveva essere carica di odio, per qualcosa o qualcuno. Studiandola a fondo mentre esponeva i fatti in modo implacabile, come una campana che col sole o con la tempesta, per un matrimonio o un funerale, a quell’ora rintoccherà la mezza punto e basta, compresi che era la consapevolezza di chi fosse stato mio marito per suo padre a ispirarla. Quanto a Elio, l’unico dei presenti sconvolto dalla perdita, prese a oscillare il corpo intero tenendosi aggrappato a una colonna di porfido e poi a me, come un ballerino perso nel ripasso della coreografia prima di entrare in scena.

Un anno prima di morire Didier aveva depositato testamento presso uno studio notarile di Nizza, il che è insolito per un uomo di sessantaquattro anni, ma del tutto sensato per un aspirante suicida avverso ai lasciti irrisolti. Di ritorno a Roma aveva mischiato grappa e benzodiazepine in una tazza danese come una di quelle poete americane afflitte da problemi psichici – sulla porcellana era poi stato trovato un fondo vischioso di miele scuro. In quell’occasione di cui né Elio né io eravamo a conoscenza che aveva preceduto di dieci mesi il secondo e più riuscito tentativo, Didier era stato salvato nonostante l’imperativo “non rianimatemi” scritto a penna sul petto. Nulla di quanto aveva compiuto corrispondeva all’idea di lui che avevo coltivato leggendo i suoi romanzi o ascoltandolo parlare di Londra Parigi e Algeri, la soluzione a cui era giunto contraddiceva il suo distacco dagli oggetti e dalle pulsioni oscure che avevo creduto poterlo agitare solo a livello cerebrale e tecnico-letterario, come capita a un uomo immune alle meschinità, un artista che risponde a una poetica e scava senza mai sprofondare. Mi ero lasciata ingannare dalla veste sociale senza cogliere la reale persona, avevo letto il manifesto ma non il testamento. Il coup de théâtre arrivava col lascito: Didier ci aveva donato – venivo menzionata per esteso, con tutti i nomi e i cognomi che i miei genitori per pura megalomania mi avevano attribuito – una villetta in Costa Azzurra, a Saint-Paul-de-Vence, dove James Baldwin aveva trascorso i suoi ultimi anni. James e Didier, annotai mentalmente per il memoir che fino a pochi minuti prima non avrei avuto ragione di scrivere e ora forse sì.

Quando apprendemmo tutto questo – che era molto anche per gente disinvolta come noi – ci trovavamo ancora all’ingresso della camera ardente, a pochi metri dalla salma e da una decina di persone che non riuscivo a mettere a fuoco. Il forte vento da nord muoveva a battito d’ali il rever del cappotto di Emma – quinte impazzite dopo uno spettacolo assurdo ideato per provocare il pubblico. L’episodio a cui partecipavo senza sapermi opporre era permeato dal cattivo gusto e dal cattivo auspicio. A troncarlo arrivò una donna microscopica spettinata dal maestrale che Emma chiamò «nonna» allontanandosi finalmente da noi. Elio sbavava lievemente e pareva rimpicciolire sotto il peso del cappotto. Per spezzare il suo silenzio dissi «non male» in riferimento alla notizia della casa. Fremevo sperando di poter concludere quanto prima l’immonda situazione, l’ondulazione di Elio, il libro degli ospiti, quel mostro con gli occhi asciutti e il ghigno trattenuto, i fiori, l’odore di disinfettante, i miei grotteschi «che palle» o «non male», quel vento malato, venuto a confondere le idee. Emma incrociando il mio sguardo ammiccò come chi avesse appena chiuso a proprio vantaggio una trattativa complicata e avvicinandosi nuovamente mi soffiò nell’orecchio: «la casetta è un incanto, si fa perdonare la sua umidità». Ogni cosa intorno a noi si scontornava fino a svanire svuotando la stanza dagli oggetti e la mente da ogni significato.

A Elio che camminava come se fossero il vento ghiacciato e l’uragano di foglie a spingerlo a pedate verso il parcheggio dissi «me la ricordavo meno agitata», ma non ebbi risposta. Accese il motore e zappò a caso sui pedali, ogni minuto meno in sé, vicino al suo inferno, solo nel suo privato abisso. Lasciò squillare più volte il cellulare – chi lo chiamava, ancora quell’aguzzina con le scarpette da tango o il rettore per fargli le condoglianze? Frusto come uno straccio bagnato, aspettava che a ogni verde ci strombazzassero contro prima di rimettere in marcia col fare di chi sia sbronzo e stremato, stufo di sé, non rianimatemi.

Presi a rimuginare su tutti i romanzi non scritti e su come avrei fatto meglio a prendere ad accettate la mia scrivania per poi farla ardere in un caminetto di Saint-Paul-de-Vence interrompendo una volta per tutte le passeggiate tra gli scaffali delle librerie intasati da robaccia e le riunioni con l’editrice mercenaria, non erano migliori di quelle coi topi ragno. «Chi?», mi chiese all’ennesimo colpo di clacson, «la figlia» replicai, «Emma? Non è agitata, solo un po’», ma non finì la frase. «È un po’ agitata?», «Dura» riprese piatto, «Emma è molto dura». Fu quanto di più intimo ci dicemmo sulla vicenda durante il viaggio in macchina a sbalzi e inchiodate. Poi piombammo in un concetto di perdita permanente fatto di silenzi, lunghe sessioni di lettura e pasti separati. Non ne parlammo più, non decidemmo nulla e non facemmo altro che aspettare, fino all’estate successiva quando partimmo per Saint-Paul-de-Vence con un’idea comune e complementare, di pentimento e redenzione.

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silvia contarini
silvia contarini
Vivo a Parigi e insegno all’Université Paris Nanterre. Ho pubblicato, anni fa, testi teatrali, racconti, romanzi (l’ultimo: I veri delinquenti, Fazi, 2005). Ho tradotto dal francese saggi e romanzi. In ambito accademico mi occupo di avanguardie/neoavanguardie, letteratura italiana ipercontemporanea, studi femminili e di genere, studi postcoloniali e della migrazione (ultima monografia: Scrivere al tempo della globalizzazione. Narrativa italiana dei primi anni Duemila, Cesati, 2019). Dirigo la rivista Narrativa (http://presses.parisnanterre.fr/?page_id=1301). Leggo i testi che ricevo via Nazione Indiana; se mi piacciono e intendo pubblicarli contatto l’autore, altrimenti no. Non me ne vogliate.
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