Alcune riflessioni estetiche e politiche su “Filosofia della letteratura” di Peter Lamarque

di Lorenzo Graziani

“Che cosa vuol dire vedere la letteratura come un’arte?” È con questa la domanda che si apre Filosofia della letteratura di Peter Lamarque (traduzione dall’inglese di M. Gozzi e L. Graziani, Mimesis, 2024). Si tratta sicuramente di una questione tecnica (che cosa – o quando – è arte e in che modo la letteratura si inserisce nel più ampio sistema delle arti?), ma possiede oggi delle sfumature quasi polemiche, se non addirittura politiche. Queste ultime – lo confesso – hanno giocato un ruolo non secondario nella mia scelta di presentare il volume al pubblico italiano: esplicitarle spero possa incoraggiare il lettore curioso a cimentarsi in una riflessione teorica sottile ma imprescindibile.

Mettiamolo in chiaro subito: l’implicita provocazione dell’interrogativo di Lamarque non nasce oggi dallo scontro con i fan dell’écriture o con quei Teorici che rifiutano il discorso estetico perché lo considerano ideologicamente compromesso. Quelle ormai sono posizioni marginali. Le analisi letterarie più aggiornate, come la biocritica e il darwinismo letterario, si concentrano su come i testi agiscono sul nostro cervello, valutando la letteratura in base alla sua utilità: sia per i vantaggi evolutivi legati all’invenzione di storie, sia per i benefici psicofisici del contatto con mondi immaginari. Ed è proprio in contrasto con queste tendenze che, secondo me, va letto il libro di Lamarque.

Nonostante gli indubbi buoni propositi, riscontro (almeno) un paio di aspetti problematici nei suddetti orientamenti critici: il primo di ordine estetico e il secondo di ordine politico.

Partiamo dall’estetica. Secondo un eminente filone di studi umanistici – tra i cui esponenti di spicco possiamo annoverare il neozelandese Brian Boyd, il francese Alexandre Gefen e l’italiano Michele Cometa – la letteratura ci aiuta a vivere, ad adattarci ai cambiamenti e a sentirci dalla parte giusta, vicini agli emarginati e ai sofferenti. Come scrive Gefen, è “una macchina per fabbricare rassicurazione”: un sostegno per la nostra fragilità di fronte alle crisi e, al tempo stesso, un atto di solidarietà verso chi è ancora più vulnerabile.

L’ammirevole nobiltà d’intenti di questi ricercatori, però, non deve mettere in soggezione al punto da scoraggiare qualsiasi critica. Non solo perché dimenticano che solo una piccola parte delle opere comunemente considerate letterarie possiede queste qualità (la letteratura occidentale non inizia forse con due maschi che si contendono una schiava?), ma soprattutto perché non sono queste qualità a definirne la letterarietà.

Walter Siti coglie il punto perfettamente: “se il criterio per giudicare la letteratura è il bene che fa, allora che cosa può importare se sia bella o brutta letteratura?” (Contro l’impegno). In altre parole, c’è una differenza fondamentale tra ciò che ha valore in sé (come ottenere conoscenza, superare l’angoscia o dire la verità) e ciò che ha valore letterario. È quest’ultimo che dovrebbe guidare la valutazione estetica perché, quando il primo prevale, si perde l’aspetto valutativo e onorifico del termine “letteratura”, riducendola a semplice fiction o, peggio ancora, a mero storytelling.

Passiamo alla questione politica. Non riesco a smettere di pensare che l’attuale enfasi sull’utilità della letteratura abbia motivazioni che i marxisti definirebbero “strutturali”. Viviamo in un’epoca in cui domina il principio dell’efficienza, motore essenziale del neoliberismo, perché promuove modi di agire e di pensare che si conformano a una logica incentrata sull’utile e sul raggiungimento di obiettivi pratici. Se le cose stanno così, viene quantomeno il sospetto che l’ossessione per i benefici della letteratura celi, dietro buone intenzioni, una sostanziale subalternità al sistema.

Non solo l’utilità, ma anche l’insistenza sui “benefici psicofisici” mi insospettisce. Porta la mia mente agli scaffali sempre più zeppi di farmaci da banco contro i disturbi psicosomatici dovuti allo stress: la stessa sofferenza generata dal sistema è stata mercificata e messa a profitto. Stare bene per lavorare meglio. Anche la letteratura potrebbe avere il suo ruolo nell’oliare gli ingranaggi.

Senz’altro esagero, e anch’io riconosco che le mie perplessità hanno – in parte – una natura idiosincratica. Ciononostante, ritengo siano spunti su cui vale la pena riflettere. E credo che il pensiero di Lamarque possa offrire, in questo senso, un contributo prezioso. Lungo tutta la sua carriera non si è mai stancato di rivendicare una certa “inutilità dell’arte”, particolarmente evidente nell’ultima raccolta di saggi, The Uselessness of Art, in cui sottolinea la necessità di valutare l’arte in quanto tale (for its own sake). Valutare un’opera d’arte in quanto tale significa riconoscerla come un artefatto profondamente radicato nella storia, ma capace di trascendere le sue origini, coinvolgendo mente, immaginazione e sensi con un fascino senza tempo. Il suo valore risiede nell’abilità dell’artista di modellare i materiali, risolvere problemi e dare forma a temi universali, senza necessità di ulteriori giustificazioni o benefici pratici.

Le opere d’arte possiedono dunque un valore intrinseco, che tuttavia non deriva da proprietà “naturali”, bensì “culturali”: un blocco di marmo lavorato ha una massa, una configurazione e una composizione chimico-fisica specifiche, ma Apollo e Dafne possiede qualità che il blocco di marmo non ha, come quella di raffigurare la metamorfosi della ninfa inseguita da Apollo. Poiché le opere d’arte non coincidono con i materiali di cui sono composte, ma sono oggetti culturali, Lamarque sottolinea l’importanza dell’educazione estetica: per poterle apprezzare è necessaria una certa competenza, accompagnata da specifiche conoscenze e aspettative.

Ora, sottolineare l’inutilità pratica dell’arte e il ruolo fondamentale dell’educazione estetica è tutt’altro che irrilevante nella società odierna. Per quanto siano importanti l’impegno ecologista o il contributo alla riduzione dell’ansia, potremmo scoprire che il vero valore dell’arte – e della letteratura in quanto arte – risiede nel ricordarci l’esistenza di una logica di fruizione radicalmente opposta a quella del consumo.

 

***

 

Segue un estratto dall’Introduzione all’edizione italiana di Peter Lamarque, Filosofia della letteratura, a cura di Lorenzo Graziani, Mimesis, Milano-Udine 2024.

 

Il dualismo di Lamarque nell’ambito dell’ontologia dell’arte ha molteplici conseguenze sull’esperienza estetica. Innanzitutto, se è vero che le opere d’arte sono degli oggetti culturali distinti dai loro supporti, nell’atto di apprezzarle e valutarle entrano in gioco anche processi cognitivi – e quindi non solo o semplicemente percettivi. Gli oggetti artistici non sono oggetti naturali, bensì istituzionali, e pertanto si avrebbe torto a considerare i fattori storici, contestuali e culturali come irrilevanti per la corretta fruizione. E se la risposta alle opere d’arte è mediata dalla nostra cultura, la capacità di apprezzarle non è una dote naturale, bensì un’abilità che va sviluppata attraverso l’educazione: per valutare un’opera d’arte è necessaria una certa “competenza” accompagnata da determinate credenze e aspettative.

Le facoltà intellettuali non agiscono esclusivamente in un secondo momento, sul materiale greggio fornito dai sensi, ma sono attive fin da subito poiché la percezione è “completamente permeata dal pensiero”. Ecco perché Lamarque può essere considerato un sostenitore dell’empirismo estetico, ossia della tesi secondo cui il valore estetico di un’opera d’arte è essenzialmente legato al modo in cui l’opera viene esperita. È questo un punto su cui Lamarque diverge notevolmente dalla posizione di Danto e Walton, filosofi che su di lui hanno avuto grande influenza. I loro noti esempi che coinvolgono coppie di oggetti percettivamente indiscernibili in cui soltanto uno dei due è classificabile come opera d’arte (per citarne uno: le Brillo Boxes di Andy Warhol) sono appunto volti a dimostrare come l’empirismo estetico sia falso. Secondo Lamarque, però, questo è vero solo se si considerano unicamente le proprietà fisiche del supporto, senza far riferimento alle proprietà estetiche di tipo relazionale, ma ciò significa esperire il materiale costitutivo e ignorare l’opera: un conto è dire che la percezione è insufficiente a distinguere due oggetti indiscernibili, un altro è sostenere che, una volta effettuata la distinzione, le qualità relazionali che permettono di distinguere, nel nostro caso, un’opera d’arte da un oggetto comune non influenzino la nostra percezione.

Per dirla in modo molto semplice: se io so – perché è esposta in un museo, perché mi è stato impartito qualche rudimento di storia dell’arte, perché il suo valore di mercato è molto più alto ecc. – che ho davanti Fontaine di Duchamp o le Brillo Boxes di Warhol e non un orinatoio parigino o delle scatole di spugne abrasive per piatti, la mia percezione è immediatamente diversa poiché, se riconosco l’opera, colgo una serie di proprietà estetiche che l’oggetto quotidiano non possiede.

In ambito più strettamente letterario, la distinzione tra opera e testo ha delle ripercussioni sulle modalità di assegnazione del valore. In particolare, se il valore di un’opera letteraria si fonda su quelle che sono le specifiche prassi di apprezzamento della letteratura, si dovrà distinguere tra valori intrinseci – ossia propri della fruizione delle opere letterarie in quanto tali – e strumentali. Tra questi ultimi figurano – a parere di Lamarque – il potere di suscitare emozioni e di essere veicolo di verità e virtù morali o politiche. Si tratta di valori che non di rado vengono oggi chiamati in causa per giustificare il nostro interesse nei confronti della letteratura. La ragione è di ordine “strutturale”, come direbbero i marxisti: in un’epoca in cui la reificazione capitalista ha raggiunto livelli estremi di pervasività, e il criterio dell’utilità e della ricaduta pratica (immediata) è divenuto il metro di valore assoluto, è ovvio che puntare sulla letteratura come palestra per l’empatia (Kidd e Castano), le buone pratiche (Murdoch) o – addirittura – l’imparzialità nel giudizio (Nussbaum) sia una buona idea, se non altro per ottenere finanziamenti alla ricerca umanistica, sempre più in difficoltà a giustificare la sua stessa esistenza.

Simili concezioni della letteratura non persuadono Lamarque, che dedica alcuni dei più interessanti e importanti capitoli del libro che avete tra le mani a smontarle pezzo per pezzo in favore di una visione umanistica della letteratura e del valore letterario: alle opere non viene richiesto di essere vere, moralmente giuste o di supportare visioni politiche progressiste, bensì di essere interessanti – in quanto sviluppano temi di universale interesse umano – e scritte bene. L’essere “scritto bene” non va però inteso come la proprietà di un testo di essere eloquente o un esempio di “bello stile”, bensì come la proprietà di un’opera letteraria di essere costruita in modo tale che gli artifici formali (stile, modalità d’intreccio, disposizione dei versi e tutte le altre strategie di organizzazione del materiale) siano adeguati al contenuto (l’interesse umano che viene portato allo scoperto) o, per dirla in breve, che vi sia consonanza tra mezzi e fini.

L’indivisibilità del contenuto dalla forma nel quale è espresso non vale solo per la poesia, ma anche per la prosa, ed è all’origine di quello che Lamarque chiama principio di opacità: a differenza del mondo reale, i mondi di invenzione, che formano il contenuto delle opere letterarie, sono costituiti dal modo in cui ci vengono dati attraverso il materiale linguistico e, pertanto, la loro identità – e quella degli elementi che li compongono (personaggi, oggetti, eventi ecc.) – dipende in maniera essenziale da come vengono presentati. Le entità finzionali sono essenzialmente prospettiche: poiché l’accesso alle informazioni che le riguardano è strettamente vincolato a enunciati che esprimono anche dei punti vista valutativi su di esse, non possiamo pensare ai testi finzionali come a delle finestre attraverso cui osservare un mondo: “dobbiamo accettare che non esiste siffatto vetro trasparente, ma solamente un vetro opaco, dipinto, per così dire, con delle figure che non vengono viste attraverso di esso ma in esso” (Lamarque, The Opacity of Narrative).

[…]

Se si fosse ancora in dubbio sul fatto che il valore di un’opera d’arte – letteraria o d’altro genere – non risiede nel suo contenuto edificante o nella sua capacità di veicolare empaticamente pressanti messaggi volti a orientare la condotta pratica delle persone, Lamarque suggerisce – sulla scorta di Hume – di ricorrere alla cosiddetta “prova del tempo”. Non si tratta solamente di constatare il fatto che opere molto apprezzate al momento della loro pubblicazione sono poi state dimenticate, bensì di notare come le vere opere d’arte acquistino il loro status di capolavori immortali proprio quando i motivi ideologici e politici che le hanno ispirate sono divenuti meno impellenti.

L’esempio addotto è il celebre dipinto di Jacques-Louis David, La morte di Marat, realizzato in piena Rivoluzione francese, su commissione dei giacobini, da un pittore profondamente coinvolto negli eventi del periodo. In tali circostanze, l’opera di David si presentava come uno strumento di propaganda. Dopo un breve periodo di celebrità, il dipinto cadde nell’oblio per poi essere “riscoperto” verso metà Ottocento sulla scia di una entusiastica recensione scritta da Baudelaire che ne lodava la potenza espressiva, in grado di commuovere anche un pubblico molto distante per epoca e sensibilità da quello del contesto d’origine del quadro. La diminuzione dell’urgenza ideologico-politica rivoluzionaria aveva quindi lasciato spazio per l’apprezzamento delle sue caratteristiche formali e stilistiche. Sotto la medesima luce andrebbero viste le opere d’arte contemporanee, sebbene sia più difficile a causa della perspicuità delle ragioni pratiche a cui sono legate: data la loro giovane età è difficile slegare il valore di romanzi come L’anno del diluvio di Atwood o Ecotopia di Callenbach – appartenenti al genere oggi piuttosto in voga dell’ecofiction – dall’impegno sul fronte ecologista, ma il loro valore in quanto letteratura sarà evidente solamente quando tali motivazioni diverranno meno cogenti.

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andrea inglese
andrea inglese
Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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