Di Caterina, che balenò per un istante dalle tenebre del tempo

Hans Clemer [Fiandre, ante 1480 – Piemonte, post 1512]
Madonna del coniglio [1490- 1510]

Josquin Desprez [1450-1521] La Bernardina
Carmen strumentale a 3 voci, 1500 ca.

di Greta Bienati

Nell’anno del Signore mille cinquecento dodici, il giorno dodici del mese di maggio, davanti a Francesco Stanga, notaro in Revello, si presentò per sottoscrivere un contratto dotale la saluzzese Caterina Milaneti, accompagnata dal padre Bartolomeo e dal fratello Giovanni Pietro. Caterina non aveva ancora toccato la maggiore età, ma già era vedova di mastro Giovanni Clemer, detto Ans, pittore venuto di Provenza ma nato in Allemagna, donde era partito insieme al cugino, per far fortuna nelle terre del meridione.

Si dice che a chiamarlo al di qua delle Alpi fu la stima della marchesa di Saluzzo; ma forse a guidare i suoi passi fu solo il vento d’occidente, che sospingeva i pittori erranti di corte in corte e di convento in convento, dalla terra di Francia a quella d’Italia.

È sepolto con il suo cuore il ricordo di quando vide per la prima volta Caterina, tanto più giovane di lui, e venne preso d’amore per lei: dev’essere stato in chiesa, mentre assisteva alla funzione della domenica, o forse lo colpì la danza dei ricci color del miele, nella carola di una festa di maggio. Nelle madonne e nelle sante che dipinse tra Saluzzo ed Elva, mastro Ans ne ripeté infinite volte anche il mento rotondo, la bocca disegnata a cuore e gli occhi grandi e miti, che curvavano melanconici verso il basso.

Hans Clemer Crocefissione [Chiesa Parrochiale di Elva. CUNEO]

Ancora più nascosto è quel che innamorò Caterina. La famiglia non era povera, e non dovevano mancarle i pretendenti. Quei pochi tratti che l’umidità e il tempo hanno risparmiato del ritratto che mastro Ans fece di se stesso ai piedi della croce, dicono che
aveva gli occhi celesti e che passava in altezza i saluzzesi di tutta la testa. Se anche il suo parlare conservava le consonanti dure del nord e i suoi lineamenti erano quelli degli uomini d’Allemagna, così rudi da parere intagliati nel legno, le sue maniere dovevano essere quelle cortesi di Provenza, dove aveva trascorso la giovinezza.

Di certo, il pittore venuto da lontano piacque al futuro suocero, che lo accolse come un figliolo, un po’ per buon cuore e un po’ perché aveva l’aria di un buon investimento. Ma fu Bartolomeo a spingere la figlia a maritare il promettente artista, o fu piuttosto lei a convincerlo ad aiutare il dipintore vagabondo, ricco solo della propria arte?

L’occhio attento di Bartolomeo dovette anche accorgersi che il talento di mastro Ans era troppo grande per il piccolo marchesato. Si saranno tenuti in famiglia lunghi consigli se fosse il caso di trasferirsi a Milano o a Mantova, dove brillavano le grandi corti d’Italia. Ma al turbine dei palazzi degli Sforza e dei Gonzaga, mastro Ans finì col preferire la quiete della sua bottega in ruata da Draperiis, la contrada degli artigiani, dove Caterina si affacciava di tanto in tanto, mentre lui terminava una madonna che le somigliava.

Così, invece delle affollate vie di Mantova e di Milano, mastro Ans percorse in lungo e in largo i sentieri delle valli che si diramano dal Monviso, risalendo il Po e l’Infernotto, per lasciare nelle cappelle sperdute tra i monti affreschi degni di papi e imperatori. Fin nel borgo più remoto, il suo pennello portò il volto di Caterina, infondendo nelle sue madonne tanto amore e tanta maestria che la gente di montagna le vide capaci di grazie e di miracoli.

Piuttosto che in pianura, mastro Ans si spingeva volentieri in Provenza, dove ritrovava i ricordi di giovinezza e l’abbraccio del cugino, che lì aveva preso moglie, e che spesso lo raccomandava per incarichi di prestigio. La via era veloce e comoda: il marchese aveva fatto scavare giusto qualche anno avanti il Përtus dël Viso, per passare in Francia attraverso il ventre della montagna anche quando i Savoia sbarravano il passo e al colle delle Traversette cadeva la neve. Alto com’era, mastro Ans doveva piegarsi quasi in ginocchio nei punti più bassi del lungo budello di roccia. Avrà cercato di scacciare la malinconia della partenza scambiando qualche parola con i mercanti che portavano in Provenza canapa e olio di noce. Al ritorno, invece, si sarà accodato impaziente agli uomini con le gerle cariche di broccato e di sale estratto alle Acque Morte, accarezzando a ogni
momento la tasca in cui serbava il gioiello che aveva acquistato per Caterina.

Nella casa in ruata de Draperiis, lei doveva ingannare l’attesa riordinando le terre colorate e i pennelli di scoiattolo. E forse misurando trepidante i suoi tempi di donna, nella speranza di poter accogliere il marito con la notizia che la notte d’amore prima della partenza le aveva lasciato in grembo i suoi frutti.

Figli, però, non ve ne furono. O, comunque, nessuno che sopravvisse. Eppure, più volte mastro Ans la dipinse madre, nel mantello blu bordato d’oro della santa Vergine, con in braccio il Bambino, incoronato dagli stessi ricci d’oro rosso di Caterina. Al polso del neonato, si premurò di mettere i grani rossi di un braccialetto di corallo, che riuscirono a stornare il malocchio, se non dai figli in carne e ossa, almeno dal bambino dipinto.

Della morte di mastro Ans, si sa che fu improvvisa e che lo colse nel fiore degli anni e della sua arte. Una febbre gli arse il cerebro, oppure cadde da un’impalcatura, mentre attendeva a un affresco per la marchesa, e i garzoni di bottega lo portarono a casa da Caterina, sdraiato su una lettiga improvvisata con una scala a pioli. Lei avrà pianto per lo spavento e, con l’ultimo fiato, lui avrà sorriso che non era niente. Poi, però, avrà chiamato in disparte il suocero Bartolomeo, per mostrargli che non era uomo che dimenticava il bene ricevuto: casa e bottega in ruata de Draperiis sarebbero andate a Caterina, mentre a lui e al cognato Giovanni Pietro, che lo aveva accolto come un fratello, lasciava parte del denaro che la sua arte gli aveva procurato. Dopo la morte del marito, Caterina vi avrebbe aggiunto anche quello che le spettava: l’unica cosa che volle tutta per sé furono i gioielli
ricevuti in dono, ché le importavano di più degli immobili e dei crediti da riscuotere.

Non passò molto tempo dalla morte di mastro Ans che Caterina accettò di rimaritarsi con Giovanni di Enrico, dei Ferrariis di Pralormo, portando in dote tremila fiorini, seicento dei quali le vennero restituiti come dono nuziale. Insieme al padre, doveva aver ragionato che non era cosa buona che una donna sana e fiorente rimanesse sola: se anche aveva sofferto per la morte del marito, la giovinezza richiedeva che le lacrime venissero asciugate e che la vita riprendesse il suo corso.

Se il nuovo matrimonio fu felice e se, questa volta, arrivarono dei figli ad allietarlo, è cosa nascosta nel buio dei secoli. Nessuno sa per quanti anni, sentendo messa nel duomo di Saluzzo, tra il fumo azzurro dell’incenso, Caterina alzò gli occhi alla Madonna fatta a sua immagine, immobile nella sua giovinezza. E nemmeno se rimpianse la gentilezza e l’affetto del pittore venuto da lontano.

Nel giorno dodici del mese di maggio dell’anno del Signore mille cinquecento dodici, alla presenza del reverendo domino Gastone de Bearnio, protonotario apostolico della diocesi di Saragozza, del nobile Giovanni Agostino Gambaudi, segretario marchionale, e di Iacopo Crava, aromatario in Saluzzo, Caterina giurò sul Vangelo di Nostro Signore, e il notaro appose il proprio sigillo. Poi la vedova di mastro Ans uscì con passo leggero dalla stanza, e svanì nell’ombra dei giorni.

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6 Commenti

  1. Una ricostruzione storica eccellente e meravigliosamente poetica. I nomi dei luoghi sono incredibili e anche gli altisonanti nomi degli attori in gioco comprese le descrizioni dei loro incarichi ci rendono familiare quel periodo storico. Sembra di essere presenti e testimoni della vicenda. Il dettaglio storico del traforo nella montagna per passare in Francia anche quando i Savoia chiudevano quello principale e’ molto interessante, ma lo e’ ancora di piu’ quando si capisce che e’ una specie di cunicolo visto che il pittore era alto e doveva genuflettersi per attraversarlo. Questi dati storici arricchiscono i nostri sensi a 360 gradi. Immagino che vi siano degli scritti, delle memorie del pittore, invece Caterina dopo Mastro Ans “svani’ nell’ombra dei giorni”. Con la mia sensibilita’ di donna moderna devo fare astrazione circa l’eta’ della fanciulla che era poco piu’ che una bambina quando sposo’ Ans, ma i tempi erano quelli e esistevano ancora i Savoia a imporre la loro volonta’ sulle vite degli altri. Nonostante l’abuso della giovane eta’ e la gentilezza ( forse immaginata ?) dell’uomo dall’occhio ceruleo, Caterina si sara’ certo sentita onorata e felice di essere raffiguarata come una Madonna e ci piace pensare che forse fu veramente amata. Quanto abbia amato piu’ se stessa che suo marito non ci e’ dato sapere.

    • La ringrazio moltissimo per il suo lungo e gentile commento. Di Mastro Ans, in realtà, non sappiamo molto altro: gli unici altri documenti riguardano i contratti relativi ad alcune opere che gli vennero commissionate. Non lasciò memorie né altri scritti, e l’atto notarile legato al nuovo matrimonio di Caterina è una delle fonti principali sulla sua vita.
      Il fatto che Caterina fosse affezionata ai doni che le aveva fatto Mastro Ans (mentre rinunciò sia al denaro che alle proprietà) mi ha fatto pensare che volesse conservare il ricordo di un uomo gentile. Nonostante gli usi del tempo, che non vedevano un ostacolo nella grande differenza d’eta tra gli sposi, l’impressione che traspare tra le righe di quel poco che ci è rimasto è senza dubbio quella di una grande tenerezza reciproca, che si può ritrovare anche nei dipinti che ritraggono Caterina.

  2. Prego si figuri, il piacere e’ tutto mio. Per la dolcezza con cui tratta i suoi personaggi li potrei paragonare a Renzo e Lucia dei Promessi Sposi. Mi piacerebbe davvero leggere un romanzo storico coi suoi personaggi ma il tipo di storia narrata vista la nuova consapevolezza che abbiamo nei confronti dell’infanzia mi porta piu’ ad associarla ai personaggi di Leon, il film di Besson, dove l’amore tra Mathilda e Leon e’ di tipo platonico. E forse dal momento che non hanno avuto figli Mastro Frans e Caterina potrebbe essere una tesi suffragata dal dato storico. Ma poi la si vede ritratta con un bimbo in grembo e a volte col pancione e quindi anche questa pista e’ incerta. Il problema narrativo consiste secondo me nell’approfondire la psicologia dei personaggi cercando proprio di rispettarne la differenza di eta’. E’ ritrarre la non infanzia di questa bambina le cui scelte siano state fatte presumibilmente dagli adulti. Tenendo in conto la famigerata laboriosita’ e intraprendenza del contesto produttivo di quelle zone, benche’ ancora rurale, mi pare che il padre acconsenta, se non spinga al matrimonio per fare un buon investimento. Caterina non e’ una povera contadina, ha una dote, e’ avvenente e potrebbe in teoria scegliersi il marito, ma invece e’ il padre che decide per lei. Di sicuro come minimo sara’ piaciuto almeno al padre Mastro Ans. Mi e’ difficile pensare a un uomo adulto venuto dalla Germania che sapesse cosa fosse la gentilezza o la tenerezza nei confronti delle donne a meno che fosse un uomo sui generis come Leon appunto, con grande talento artistico e un’ ipersensibilita’ interiore che lo annoverava tra gli innocui e non belligeranti eunuchi. Ma anche ai nostri giorni un uomo tedesco a volte non cede nemmeno il passo a una donna, non si cura della gentilezza nei rapporti con l’altro sesso perche’ solo in Italia abbiamo avuto un ingentilimento dei costumi grazie alla Chiesa e a romanzi come quelli del Manzoni. In Nord Europa anche adesso l’infanzia non riceve tutte quelle attenzioni e quella cura necessaria delle mamme italiane e dei papa’ dei nostri giorni purtroppo, che una volta adulti si e’ in grado di restituire al genere amato. Il secondo impasse narrativo e’ la scelta dei gioielli e questa usanza della dote, che commercio il matrimonio! Veda io penso male purtroppo, poiche’ ritengo che se a una bambina non sia stata data la possibilita’ di maturare emotivamente difficilmente sapra’ restituire amore. M’immagino invece che sia cresciuta molto civettuola e piena di capricci infine molto scontenta di se stessa proprio come una gallina, poiche’ di fatto veniva trattata allo stesso modo. Lo so e’ brutto pensarlo e scriverlo ma qui stiamo parlando di romanzo storico e alla luce di una sensibilita’ moderna va raccontata una storia credibile, come fece Manzoni. Ma poi siamo sicuri che Mastro Ans sia morto di morte naturale, e qui il romanzo d’appendice diventa un thriller del Medioevo. Il secondo matrimonio di Caterina e’ stato l’ultimo? I gioielli li tenne perche’ il nuovo genero aveva bisogno dei terreni e delle liquidita’ o veramente per il ricordo affettivo che rappresentavano? Mi scuso, ho lasciato galoppare l’immaginazione e anziche’ un romanzo rosa sta diventando un dark di Chi l’ha visto. Ma se per ipotesi le fossero di qualsiasi utilita’ i miei pensieri le chiedo solo un atto di fedelta’ al Manzoni: non peschi nel lumbard o nel piemuntes il suo linguaggio. L’italiano della sua prosa e’ piacevolissimo.

    • La ringrazio molto per le sue considerazioni e per i suoi complimenti. Lei ha colto benissimo come il lavoro di questo racconto sia essenzialmente lo stesso che si fa in preparazione di un romanzo storico: si leggono e rileggono i documenti e poi si cerca di ascoltare le voci che in essi parlano. Da principio sono sussurri, poi diventano sempre più forti e definiti, finché (almeno nella mia esperienza) finiscono per imporsi persino alla volontà del narratore.
      In questo racconto, in realtà, mi piaceva molto l’idea di fermarmi a questo stadio embrionale di semplice evocazione: la storia originale mi sembrava talmente delicata, che qualunque pennellata in più rischiava di storpiarla. Non so se a suggerirmelo sia stata la voce di Caterina o quella di Mastro Ans. Di sicuro era una voce gentile, che ha portato la mia attenzione su alcuni dettagli piuttosto che su altri, come per esempio il fatto che il pittore tedesco si fosse trovato molto bene in Italia e in Provenza (luoghi certo più caldi e gentili della sua terra natia), al punto da sceglierli come patrie d’elezione.
      Quella stessa voce mi ha imposto anche lo stile, che riecheggia i testi dell’epoca. Sono convinta, in effetti, che ogni storia abbia una propria voce, a volte in italiano alto e ricercato, a volte in una forte commistione con il dialetto. Anche nei miei romanzi, storici e no, non ho mai fatto scelte a tavolino su questo aspetto. Al contrario: riesco a iniziare la stesura solo quando ho trovato la voce propria di quella storia. Mi capita spesso di pensare che il narratore dovrebbe comportarsi come un medium, mettendo da parte il più possibile le proprie convinzioni, le proprie idee, persino il proprio io, per mettersi al servizio dei personaggi (veri o verosimili) che gli chiedono di essere raccontati.
      Ma mi rendo conto che qui il discorso porterebbe molto lontano…

  3. Mi piace moltissimo il suo metedo e’ veramente rispettoso dei materiali e delle persone, vive di intuizioni e cerca di distanziare il suo ego dai personaggi per renderli nella loro oggettivita’ personale. Non avrei mai immaginato che si potesse lavorare a un testo in una maniera simile. Sembra che prima di scrivere consulti tutti quanti gli elementi in gioco e che facciate insieme quasi una riunione evocativa. Questo e’ il tatto che ho percepito leggendo il racconto che ha scritto, ecco svelato il mistero. La tenerezza che traspare e il pudore che lei ha usato nei confronti di questa storia sono quelli dell’autrice. Visto che lei ha questa magia tra le dita e il suo orecchio allenato all’ascolto del Passato mi sono resa conto che i miei commenti volevano rompere l’incantesimo. La voce di questa non bambina Caterina cosa dice?

    • In effetti mi rendo conto che si tratta di un metodo che si avvicina alle sedute spiritiche… Però, pensandoci, la narrativa degli albori era indissolubilmente alle pratiche sciamaniche, in cui si evocava un fantasma perché raccontasse le proprie imprese e le proprie sventure. Lo facevano i bardi dei Celti, che dormivano sulle tombe degli eroi, e lo fa ancora il teatro Nō giapponese, in cui il fantasma entra direttamente in scena per raccontare la propria storia.
      Tornando a Caterina, mi è sembrato di cogliere intimità, tenerezza, gentilezza. Sussurri che mi sono sembrati tanto più intensi quanto più in apparente contrasto con le condizioni oggettive del tempo, come lei ha ben messo in luce.
      È anche vero che la vita può permettersi di essere meno verosimile della narrativa, dato che è sempre costituita di casi singoli e particolari, complessi e sfaccettati, che non rientrano mai negli schemi.
      Proprio per questo le sue osservazioni non erano affatto fuori luogo: il racconto non aveva in alcun modo l’intenzione di “dire la verità” su Caterina, ma solo di evocarne la presenza, afferrandola in quei brevi attimi strappati alle tenebre del tempo. Quindi era naturale che suscitasse nel lettore ulteriori riflessioni e ipotesi su ciò che, della sua vita, ci rimane oscuro.
      Ecco, l’altro aspetto che mi è sembrato “chiamare” era proprio l’apparizione istantanea, il balenare di un momento: di quel che successe a Caterina prima di quei pochi minuti in uno studio notarile sappiamo pochissimo, di quel che fu di lei in seguito non sappiamo nulla. La sua voce arriva fino a noi solo per quei brevi istanti, in cui emerge sulla pergamena di un notaio, insieme al suo volto, che il marito ha dipinto con amore nelle sue madonne. Un lampo, e una vita: anche solo questo aspetto è davvero emozionante, e mi sembrava che meritasse di essere condiviso in un racconto.

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,\\' Nasce [ in un giorno di rose e bandiere ] Scrive. [ con molta calma ] Nulla ha maggior fascino dei documenti antichi sepolti per centinaia d’anni negli archivi. Nella corrispondenza epistolare, negli scritti vergati tanto tempo addietro, forse, sono le sole voci che da evi lontani possono tornare a farsi vive, a parlare, più di ogni altra cosa, più di ogni racconto. Perché ciò ch’era in loro, la sostanza segreta e cristallina dell’umano è anche e ancora profondamente sepolta in noi nell’oggi. E nulla più della verità agogna alla finzione dell’immaginazione, all’intuizione, che ne estragga frammenti di visioni. Il pensiero cammina a ritroso lungo le parole scritte nel momento in cui i fatti avvenivano, accendendosi di supposizioni, di scene probabilmente accadute. Le immagini traboccano di suggestioni sempre diverse, di particolari inquieti che accendono percorsi non lineari, come se nel passato ci fossero scordati sprazzi di futuro anteriore ancora da decodificare, ansiosi di essere narrati. Cosa avrà provato… che cosa avrà detto… avrà sofferto… pensato. Si affollano fatti ancora in cerca di un palcoscenico, di dialoghi, luoghi e personaggi che tornano in rilievo dalla carta muta, miracolosamente, per piccoli indizi e molliche di Pollicino nel bosco.
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