La grassa signora
di Rosa Blasetti
Il profumo di crostata si diffondeva nel vano scala e raggiungeva l’androne del palazzo e le mie narici di bambina. Lo seguivo, rincorrendolo fino al terzo piano, dove la dolcezza annusata si sarebbe mischiata alle braccia burrose di mia zia che ci aspettava sulla soglia per la nostra solita domenica di giochi e merende. Erano gli anni ‘90: le case si aprivano nel weekend per ospitare i familiari più prossimi. I locali per bambini non esistevano ancora e quel pomeriggio io, mio cugino e mia sorella inventavamo i modi più divertenti e disparati per stare insieme. I grandi si intrattenevano in sala nelle loro chiacchiere, salvo sporadicamente farci visita per controllare se avessimo bisogni primari da soddisfare: fame, sete, pipì, caldo o freddo; mia zia avvitava la moka per il caffè e spolverava il dolce con un po’ di zucchero a velo.
La nostra stanza si inspessiva dell’odore di chiuso, figlio di un tempo infinito a scambiarci figurine e inscenare situazioni di viaggi improbabili dove io, mamma di due piccolini, partivo per sempre alla ricerca di fortuna. Il silenzioso aprirsi della porta scoppiava la bolla d’infanzia in cui eravamo immersi e accompagnava l’ingresso di un adulto che, rapido, entrava chiudendosela alle spalle.
“Facciamo un gioco!” dice mio zio. Lui è fortissimo: spalle larghe, bicipiti gonfi, petto possente. Ci invita a mettere le braccia tese lungo i fianchi, a rimanere rigidi come pezzi di legno e stringere i pugni. Per primo tocca a mio cugino: gli racchiude i pugni piccoli nelle sue mani consapevoli, lo solleva il più possibile e poi, dal punto più alto, lo fa cadere giù…una roba pazzesca…da morire dal ridere! Poi, passa a mia sorella: la vedo salire in aria come un razzo e, di schianto, andare nuovamente a terra. Infine, arriva il mio turno. Mi solleva veloce, sono altissima, carica dell’adrenalina che precede il salto. E, invece, non vengo lasciata più. Le sue braccia mi cingono le ginocchia da dietro e piano piano, lentamente, il mio corpo scende appiccicato al suo. Provo a ridere. La sua stretta fangosa è spiacevole e quell’attrito indesiderato diventa spiraglio per la vergogna che entra indisturbata e va a spargersi nel mio corpo di bambina. Cerco allora di tirarmi indietro: “lasciami zio”. Provo a districarmi. Lui scherza. Ma il mio corpo struscia il suo e mi è insopportabile. E’ quell’appiccicaticcio, quella prossimità, ad essermi rimasta incollata addosso. Cerca di baciarmi. Scherza, mi scanso. Alla fine, mi lascia andare. Che ridere questo gioco! Che schifo questo gioco! Che bello questo gioco! Che brutto questo gioco! Che figo questo gioco! Che paura questo gioco! Le sensazioni che precedono questi pensieri viaggiano alla velocità della luce. Un millisecondo dopo l’altro le vedo alternarsi dentro di me: immagini tremanti che mi fanno piombare in una confusione tale da farmi avvertire la possibilità concreta di impazzire. “Sei solo una stupida! Una cretina, un’idiota che non sa distinguere cosa è un gioco e cosa no”. E così, a nove anni circa, faccio conoscenza diretta della mia salvatrice. E’ una signora grassa, corpulenta, dalla voce greve e lo sguardo deciso, pronuncia frasi nette e severe nei miei confronti, non ha parole gentili, ma è sempre molto chiara: “tu sei un’idiota! Non capisci niente! Non è successo niente di che…stava solo giocando! Cosa diavolo sei andata a pensare?!”. Arriva con il suo vestito morbido nero, i capelli ondulati di permanente appena fatta e tutti gioielli d’oro a ornarle le braccia, le mani, le orecchie e il collo, ad appesantire una figura già di per sè gravosa, anche solo nello sguardo. Mi dice che sono io ad essere sbagliata e mi toglie d’impaccio, strappandomi via dal caos di percezioni contrastanti che mi lottano dentro. Nei suoi occhi ci sono solo certezze. Grazie a questa signora imbellettata riesco a non impazzire, la confusione si dipana, la sua voce altisonante spazza via come un vento fortissimo tutti i dubbi, le domande, le ambiguità, le sensazioni strane. E, così facendo, mi permette, per quel pomeriggio, di rimanere bambina, di tornare a giocare, di mangiare un bel pezzo di crostata alla nutella, la mia preferita del resto, e dirmi che siamo una bellissima famiglia.
I ricordi, quei ricordi, erano arrivati tutti, tutti insieme, come una valanga di ghiaccio rovente addosso. La mia pelle di giovane liceale ne era rimasta ustionata per sempre.
Gli amori, la politica, le versioni di greco, gli amici, le canne, i voti, le risate erano finiti tutti sul fondo della mia esistenza; in figura, campeggiavano le ustioni, eppure io, disperata, mi guardavo nuda, mi scrutavo ogni centimetro di pelle, ma non le vedevo. Sapevo solo che le lacrime mi sconquassavano le pareti interne del corpo, le erodevano come gocce d’acqua sulla pietra, e io mi stavo sgretolando.
“Oggi parlerò con Giulia”, mi dicevo. La mia insostituibile compagna di banco. Lei, che le molestie le raccontava con il sorriso e, in ogni increspatura delle labbra, dichiarava la sua granitica incapacità di dire di no. Quella mattina, pioveva.
“Giù, hai visto che tempo di merda?”
“Ci tocca stare a casa pure stasera!”
“Devo raccontarti una cosa Giù, ma non so se ha troppo senso…”
“Spara…”
L’ho vista entrare all’improvviso, spaccando la porta, gridava impazzita, furiosa. La grassa signora era piombata in velocità dentro l’aula, aveva ribaltato sedie, banchi, zaini e, ricolma di sudore, ansimante, mi aveva messo le mani al collo.
“Ma che sei scema forse?” mi urla in faccia.
“Voglio solo dire quello che ho ricordato” sibilo.
“Quello che hai ricordato?! Perchè adesso va a finire che sei stata in grado di formulare un pensiero compiuto, fermo, sulla cosa? Tu? Che ti confondi anche rispetto a che gusto di gelato ti piace o no?” La sua risata gonfia di violenza è insopportabile nelle orecchie, sento il bisogno di chiuderle, ma è tutto bloccato, le mani, le braccia sono diventate marmo. E lei continua.
“Comunque vai, fai pure…la cretina del villaggio, la stupida della classe, la ragazzina imbecille che non sa controllarsi, che si spaventa come cappuccetto rosso del lupo cattivo.”
E’ irriverente la sua voce. Mi sfotte e mi va a pungolare lì dove sento che le ossa potrebbero frantumarsi e decretare la mia inesistenza per sempre. La vergogna mi tappa la bocca.
“Hai ragione” sussurro “non voglio passare per la stupida bambina spaventata, non voglio!”
“Vedi che se ti fermi poi qualcosa di giusto lo riesci a dire?”, mi allenta la presa. Si ricompone. Tira fuori dal suo vestito un fazzoletto damascato per asciugarsi il volto. Prende il rossetto e lo passa con ferocia sulle labbra carnose. Aggiusta veloce i capelli per renderli nuovamente voluminosi. Prende in mano il mio non senso, lo guarda soddisfatta, gioca con la mia confusione, infine la piega e la mette in tasca. Tutto a posto, tutto chiaro. Non saluta. Sa che tornerà.
Giulia aspetta il mio racconto. Arrivano parole su un’improbabile serata con Andrea, quello della terza D che mi piace da sempre. Vedo la mia bocca robotizzata aprirsi per far uscire suoni falsi e lontani, racconto quello che è facile ascoltare e mi salvo dal ribollire che sento dentro.
La grassa signora, a quei tempi, mi inceneriva continuamente con lo sguardo e, attraverso quegli stessi occhi, faceva penetrare la vergogna nelle mie vene mischiandola al sangue che, arrivato al cervello, mi rendeva muta e, in quanto muta, per sempre sola. Da lì, la vergogna divenne una dolorosa abitudine, una scossa continua che sentivo irradiarsi dalla cima dei capelli e entrare nelle viscere, nei muscoli, affondando nei genitali senza scaricarsi mai.
Quasi ogni giorno, vedevo quella figura allo specchio interporsi tra me e la mia immagine riflessa. Il suo sedere largo strabordava dallo sgabello di legno su cui poggiava, le spalle nude erano circondate dalle sottili bretelline dell’abito che aveva indosso, quei miseri pezzi di stoffa scomparivano tra le pieghe del suo corpo come i miei vissuti. Sporgendomi al lato della sua schiena potevo scorgere il seno voluminoso e imponente farsi spazio nella scollatura, a ricordarmi tutto il suo potere. Gli occhi, contornati di nero, fornivano allo sguardo la durezza necessaria a redarguirmi. Il suo corpo enorme oscurava il mio, fino a farlo sparire, e si trascinava dentro tutte le emozioni di cui era attraversata la mia carne, portandosi via tutta me stessa. E così, improvvisamente, non esistevo più, c’era solo lei ad occupare, risoluta e soddisfatta, tutto lo spazio e il tempo del mio vivere.
Intanto, le domeniche continuavano a vedermi preda delle tradizioni di famiglia. Mia zia e mia madre passavano la giornata a cucinare, l’una a fianco all’altra. Io le osservavo. I loro maglioni mettevano in risalto la familiarità dei loro corpi, pensavo a me e mia sorella e ai nostri corpi anch’essi così uguali nella forma, come a sancire il legame ancestrale al di là delle parole, al di là della vita, al di là del tempo. Non riuscivo a togliere di dosso i miei occhi dalle loro schiene, mi ripetevo che anche solo per la differenza di età che ci separava, non potevano essere ignare di quello che avevano intorno. E non riuscivo a capacitarmi di quanto amore provassi, tanto di quell’amore da sentire lo stomaco svuotarsi di tutto il mio vissuto, di tutta la mia storia. Seduti intorno alla tavola, la stanza si riempiva di chiassose parole vuote, mia sorella e mio cugino si scambiavano squilli sul telefono. Mio zio, sul balcone, chiacchierava e fumava con mio padre, incurante del cibo che arrivava. Il suo sguardo mi toccava e seguiva indisturbato ogni mio movimento. Fu in uno di quei pranzi che decisi di far sedere la grassa signora al mio fianco.
Ogni piatto che arrivava lo destinavo a lei, che lo divorava puntuale.
Lei ingrassava, io sparivo.
Mi dissi che avrei resistito a tutto, a tutti, per sempre, fino a non sentire più nulla, neanche la fame.
Furono anni silenziosi, a denti stretti, fatti di una tensione sorda che mi permetteva di annullare il mio sentire e far spazio alla praticità della vita. Tutta la mia resistenza non mi aveva comunque impedito di crescere e diventare una donna. Trovai un lavoro e un compagno pronti a riempire le mie giornate.
La grassa signora era sempre lì che ingurgitava, nervosa, le mie emozioni. L’idea di farla fuori, ogni tanto, prendeva piede nelle mie sedute di psicoterapia. Ma poi, una volta tornata sulla strada della mia vita, sbattevo contro il suo corpo prepotente che mi rimetteva a posto, mi ricentrava e, seppur violentemente, mi toglieva dalla possibilità terrifica di spezzarmi dentro. Un’unica volta sentii davvero di averla persa. Ricordo con esattezza quei giorni di maggio in cui mi ritrovai sola in ospedale a fare i conti con il mio utero che sanguinava. Lei sembrava la grande assente, per seconda mia madre che nascondeva il suo non esserci dietro un raffreddore insignificante. Sul lettino operatorio eravamo io e il mio cuore spaccato, aperto, da cui fuoriusciva la vita. Le parole accusatorie della grassa signora erano mute, rimanevano sorprendentemente incastrate nella sua bocca, provava ad addossarmi colpe, significati, possibili distrazioni, imputava inadeguatezze al mio corpo di donna che aveva portato avanti un compito senza concluderlo. Ma il dolore non aveva lasciato fessure da cui poter entrare. il flusso era solo in uscita. Sentivo che la testa era pronta a dimostrarmi che sì, si può impazzire di dolore. L’ultima immagine che ho è quella del medico che si fa spazio tra le mie gambe.
Tornai a casa sbandando. Nella mia cucina, trovai mia madre che stava friggendo le polpette. Era venuta a trovarci. Io sanguinavo. Lei friggeva. La grassa signora si stagliava imponente sulla parete arancione.
“Stai facendo un gran casino per tre centimetri di cellule che andavano tolte via! Sei la solita esagerata!”. Le sue parole, questa volta, rientrarono, crude, sotto la mia pelle.
“Avrei voluto mia madre accanto. E poi quelle cellule sono state la mia vita in questi tre mesi”, risposi.
“Esageri, esageri, esageri…come se a te accadesse sempre il peggio! Ti lamenti, ti riempi la bocca di giustificazioni e, come al solito, dai la colpa agli altri per la tua incapacità di fronteggiare la vita. Ti riconosco ora: sei la solita idiota!”.
Era tornata per ridimensionare me, il mio dolore folle, le mie emozioni che, improvvise, dopo una vita intera tenute sotto chiave, erano esplose insieme al mio utero.
“In fondo, ha ragione”, mi dissi. Tutto quel dolore doveva essere solo un mio solito, stupido errore.
Io sanguinavo. Mia madre friggeva. Non avevo capito niente. Il suo amore era racchiuso in quelle polpette, proprio in quelle polpette che io non avrei mai mangiato. Le avrei condite con il mio dolore eccessivo e le avrei date in pasto alla grassa signora. Ero di nuovo in piedi. Lei ingrassava. Io sanguinavo.
In qualche modo, il Natale era arrivato. Ero di nuovo io. Il sangue era tornato a posto, come me, si era inglobato di nuovo nel fluire delle mie vene. Il lavoro procedeva. Con il mio compagno avevamo preso un cane per sentire appagato il nostro bisogno di essere genitori. Tante cene fuori, ottimi piatti sulla tavola, qualche progetto per il futuro insieme. Tutto rientrava nel quadro perfetto di una vita normale. La vigilia di Natale ci avrebbe visti in famiglia per il primo anno nella nuova casa. Mi ritrovai completamente sola a preparare il cenone per accontentare tutti. Ognuno aveva di meglio da fare. In particolare il mio compagno che, invece di aiutarmi, aveva lavorato instancabile fino a tardi. Ero furiosa. Sentivo la rabbia accompagnarmi tra i fornelli e contrarre il mio corpo esausto. Lo avrei ucciso. Al momento del brindisi, però, lui dice: “Voglio ringraziare Sara, senza la quale tutto questo non sarebbe stato possibile!”. In quel momento, mi si è affacciata dentro la signora con la sua espressione accigliata e mi ha urlato forte nelle orecchie: “Vedi com’è carino? Stai sempre a lamentarti e a incazzarti per niente!”. Tutto chiaro. In un attimo, la rabbia si ridimensiona. Mi si scioglie dentro, fino a diventare acqua ed evaporare.
E così, per questa sera, almeno per questa vigilia di Natale, faccio accomodare la gran signora a capotavola, a guardia del mio sentire per non farlo strabordare sulla tavola apparecchiata, le mangio a fianco, le verso da bere i vini più profumati e brindo a lei che tante volte mi ha salvata dal precipizio e che, almeno per oggi, mi permette di scattare una foto in cui siamo tutti insieme, in accordo, salvi, proprio come una famiglia felice.
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