Francesca Canobbio – La legge del buio – Skoto-gnosis

di Daniele Ventre

La dimensione ontologica enucleata dalla nuova raccolta di Francesca Canobbio, La legge del buio, uscita quest’anno per i tipi di Oèdipus, è un luogo esistenziale liminare. Il buio e la sua legge evocano i passaggi e le figure teoretiche di una tradizione antichissima, che appartiene ovviamente non solo alla poesia, ma anche all’evoluzione del pensiero occidentale, sin dai tempi della cosmogonia della luce e del buio, doxa plausibile che Parmenide, nel suo poema metafisico sull’essere, pone a corollario della sua arcaica fondazione del logos.

In modo a volte deliberato, a volte semiconscio, i versi atonali e le prose ritmiche de La legge del buio elicitano ed esplicitano momento per momento un descensus averni che è nello stesso tempo un’ascesa sciamanica, oscillando fra i due poli dell’esistente che luce e buio rappresentano nella loro immediatezza metaforica. Si viene così tramando un ordito analogico i cui momenti più alti richiamano le forme espressive più aspre e sottili di una tradizione mistica alla Meister Eckhart. Della complessa struttura tematica che la legge del buio in tal modo sottende leggeremo, con trasceglimento forse arbitario, ma necessitato da esigenze di sintesi e di spazio, tre momenti, allo scopo di cogliere uno intuitu, le tappe di questo percorso di descensus/ascesa.

Anzitutto, per ovvia e inerziale dinamica di impatto con l’opera, la lassa incipitaria di versi atonali. In essa la legge del buio, nella sua ambiguità, mostra anzitutto una precisa intenzione cognitiva: il buio è a tutta prima il non essere per come l’occhio, il più intellettuale dei sensi, può (ci si perdoni il paradosso) percepirlo. E tuttavia Francesca Canobbio precisa sin dall’inizio che il buio con la sua legge “non… dettata da notte alcuna”, ha forse sede in un sensorio ontologico-esitenziale interno, in cui la rinuncia a vedere, quel “riposo” che “non è paura degli occhi”, prelude a una “vista così vasta che il buio vince la notte”. Il gioco paronomasico “vista/vasta” chiarisce dunque che la contemplazione/non-contemplazione del buio è effetto di una mente che si circoscrive di fronte alla vastità/devastazione dell’essere. Il “primitivo nero”, questa primalità di un nulla superessente primordiale, “si fa percossa di sguardi” prosegue l’autrice, “e non posso dirmi cieca/ se leggo fra le righe del tempo/ ciò che sono stata, ciò che sono,/ quando arriva ciò che sarò”, si mostra come ambigua evidenza, e nel suo grembo di nulla apparente si rivela invece gravido, portatore di una futurizione implicita. Il tempo, col suo copione di statue, di istantanee, di autostati fissi secondo per secondo in una sequenza di “adesso”, è la trama di questo senso interno del buio gravido di tutto. La prodigiosa sinestesia multipla luce/oscuro/silenzio/parola/pagina/scrittura (“Non c’è copista che mi legga intera/sin da quando sono venuta alla Luce/ ci sono bozze e brogliacci da recitare a braccio/ ed ecco che io perdo la tua mano./ Li ho visti sulle scale a bestemmiare su tornei/ di lancia, a tirarmi i dadi dell’esistere,/fino a moltiplicarmi i punti sui dadi affinché non avessi pace./Le finestre parlano chiaro./Le finestre parlano scuro.”) conclude questo exhordium con un vortice concettuale in cui senso, esistenza, voce, scrittura si compattano in una singolarità concettuale da cui il tutto sprigiona, come da un fiat. Un fiat obscuritas che è nel contempo un fiat lux.

La lingua con cui l’ambigua legge del buio si articola appare sin dall’inizio tramata da un’analoga ambiguità comunicativa, fatta di bisticci, figurae etymologicae e paronomasie, accompagnate da meno appariscenti e più comuni decostruzioni delle trame semantico-sintattiche del linguaggio ordinario: così nella lassa incipitaria che abbiamo appena sommariamente investigata, troviamo “vista/vasta” con tutte le sue implicazioni e connotazioni e sovrasensi, osserviamo giochi e immagini argute sui nessi cristallizzati e gli idiom (“il riflesso … nel vetro di un quadro” o l’esplosione semantica del tema dell’iride, dall’occhio riflettente all’occhio della piuma di pavone), soprattutto reperiamo catene di etimologie (“ritornello… ritorna”; “legge/leggo/legga/leggenda”) in cui la trama di morfi lessicali ricorsivi e di poliptoti crea un sottofondo ossessivo di gemmazioni segniche, paragonabili a quelle che connotano le forme della poesia oracolare sciamanica o rapsodica. Questo tratto specifico dello stile di Francesca Canobbio, già affiorante nel suo precedente libro, Asfalto Rosa, nelle parti centrali de La legge del buio viene accentuandosi e complessificandosi. Ne fa fede ad esempio la lassa IV, sempre in versi atonali, in cui il rampollare delle figurae etymologicae e dei giochi di ambiguità omofonica si accentra sul nucleo tematico del buio che è esso stesso luce, e pone in evidenza un ipogramma di tradizione antica, riecheggiante, in modo semi-conscio, l’invocazione alla tenebra dell’Aiace di Sofocle. Su questo ipogramma si annodano la legge del buio e il buio che legge l’interiorità di quello che per comodità chiameremo il soggetto lirico. Si tratta, appunto della legge di un buio che è più luminoso della luce del sole; ma qui l’omofonia fra il sostantivo “sole” e l’aggettivo “sole” fa affiorare alla razionalizzazione sintattica la dimensione ossimorica originaria del testo (“Il buio è più luminoso della luce del sole, per quanto siano sole tutte le presenze che distano più dal Sole che dal Buio”). Il successivo passaggio logico, “siamo figli del buio e ci brillano gli occhi al pensiero”, è teso fra l’antica inclinazione dell’uomo a preferire alla luce le tenebre, e nello stesso tempo il rimando biblico si intreccia, stavolta in un ossimoro intertestuale, con la constatazione ilarotragica, alla Giorgio Manganelli, della natura discenditiva dell’uomo, del suo clinamen verso il basso (“Il buio mi legge quando sto per cadere./Basterebbe una spinta e giù,/ perderei ogni luce che abita i miei occhi scavati nel grembo buio/ di ogni madre,/che mi precede nel buio e che nel buio trova rifugio”). E tuttavia, nel procedere per associazioni e dissociazioni verbali e concettuali, l’immaginazione dell’autrice, ancora una volta spinta al limite della dimensione mistica, trova in questa natura discenditiva materiata di oscurità, proprio in virtù della sua trama oscura, l’embrione di un’ascesa: “Il buio mi morde, ma il buio mi dona./ Mi dona alla luce che non mi morde come il buio,/ ma che mi scava una porta per rifugio./ Siamo i profughi del buio, alla luce, e combattiamo la nostra guerra/ da illuminati, se conosciamo la legge del morso del buio. […] Se spengo la luce sono certa di ritornare alla luce,/attraverso il buio./ Attraverso buio./ Sono di buio se tu mi leggi la notte in pieno giorno/ ed io mi accendo di fuoco vivo per cibarci,/ Mangiastelle, occhi grandi,/pupille.” In particolare la chiusa della lassa IV, “Mangiastelle/ occhi grandi/ pupille”, addensa, nel potere di evocazione del composto, dal tono di fiaba o di canzone per bambini, e dei sintagmi nominali cumulati, il tema dello sgranarsi della luce nel buio, del buio nella luce, dell’essere che si fa notturno nel non essere: siamo di fronte in apparenza a una climax del buio e a un’anticlimax della luce: occhi sempre più grandi, pupille oscure divoratrici di luce; ma al contempo siamo di fronte a un fenomeno specularmente simmetrico, climax della luce e anticlimax del buio, bagliore puntorio e sporadico di stelle che dilata gli occhi, le luci, si riflette nello specchio delle pupille.

La parte conclusiva della raccolta si connota per un progressivo abbandono della struttura cosiddetta versale, a vantaggio del collasso ritmico e grafico dello stico atonale nella lassa di prosa. Sul piano tematico, il buio come intenzione cognitiva delle lasse versali incipitarie, o la legge del buio come natura interna dell’esistenza, viene a maturare la visione dell’effetto della parabola, e del paradosso, che oppone intrecca descensus e ascensione. La trama stilistica delle figurae etymologicae, degli Sprachspiele, si fa più soffusa, messa in sordina. Basti pensare a un testo clou come la prosa del capitolo XII, che è emblematica dei connotati espressivi e tematici della sezione finale dell’opera. I versi e i periodi spezzati, nominali, appaiono in fine agglutinati in periodi-flusso, vi si disciolgono, vi annegano, e a segnare il limite e il ritmo appaiono occasionali alliterazioni, poliptoti, ancora una volta rimandi di radici affini, attorno a grumi di parole-chiave (nella prosa XII, basti pensare a situazioni come “sogno di CONFine entro CONFortevole guscio a noi Familiare e COModo”, “in lui si spegne ONirica in OGNi leTTO disFATTO e riFATTO per la PACE del CORPO fino a che PACE non lo sePAri dal CORPO” “a tutti i periodi che STRUccano in un assolo magnifico ed unico di STRUggente abito STonato…”). Protagonista della lassa prosastica è poi un Icaro che “perde le ali” e il cui volo di falena si conclude in un rogo sulla “candela di elio sovrano”; la sua vicenda e parabola si intreccia con la forma pensiero dell’anima che abita il buio, e che si chiude, ad anello come la vicenda di icaro, nell’aforisma finale, “Nel buio la luce. Sia”, in cui la benedizione mistica del buio (“Sia”) e il richiamo a una fiat di creazione primordiale si intersecano, a concludere un discorso che sfiora i momenti di abbandono più vertiginoso di una poesia mistica al limite della gnosi.

D.V.

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I PARTE

La legge del buio non è dettata da notte alcuna.
Il riposo non è paura degli occhi,
ma spesso la vista è così vasta che il buio vince la notte.
Ecco che l’eco di una o più voci, un ritornello che ritorna
richiama alla memoria quel tanto di nero che ebbero le pupille
sganciate dagli occhi, senza colore, o, se si vuole
temporale d’iride, tutte le iridi non fanno una pupilla
quando il riflesso è solo nel vetro di un quadro,
sia esso l’universo di un pavone come un poeta
che stacca una piuma a favore dello sguardo animale
che soprassiede ogni cosa che siamo
ed il primitivo nero si fa percossa agli sguardi
e non posso dirmi cieca
se leggo fra le righe del tempo
ciò che sono stata, ciò che sono,
quando arriva ciò che sarò
nella tempesta delle statue che portano i copioni
a svolgersi come deve svolgersi un copione
anche dietro ai cori più alti, non sarà che commedia
una cosa ridicola, sempre più imbarazzante per quanto semplice
nel proprio orrore perpetuandosi.
Dite a colui che mi ha scritta che ogni verso si ripiega e torna.
Dite che le lettere non trovano più spazio nel foglio:
è caduto l’inchiostro sulla parola “Amore”.
Non c’è copista che mi legga intera
sin da quando sono venuta alla Luce
ci sono bozze e brogliacci da recitare a braccio
ed ecco che io perdo la tua mano.
Li ho visti sulle scale a bestemmiare su tornei
di lancia, a tirarmi i dadi dell’esistere,
fino a moltiplicarmi i punti sui dadi affinché non avessi pace.
Le finestre parlano chiaro.
Le finestre parlano scuro.
Se mi ritiro per un giorno di dadi forse non cadrà nessun punto.
Se la macchia sul foglio ha consumato ogni favola, non ha cancellato la leggenda.

* * *

IV PARTE

Come ringraziare la legge del buio se il buio mi legge?
Diremo che al buio io sono una presenza, un fantasma.
Il buio è più luminoso della luce del sole,
per quanto siano sole tutte le presenze che distano più dal
Sole che dal Buio.
E’ questione di statistica.
Siamo i figli del buio e ci brillano gli occhi, al Pensiero.
Nel buio il pensiero è fantasia, inesauribile.
Nella fantasia il buio si colora di ricami di originale fantasia.
Nei miei occhi brillano le stelle che cadranno al buio.
Il buio mi legge quando sto per cadere.
Basterebbe una spinta e giù,
perderei ogni luce che abita i miei occhi scavati nel grembo buio
di ogni madre,
che mi precede nel buio e che nel buio trova rifugio.
Chi fotografa il buio una volta
lo porta nel cuore per sempre.
Il buio mi morde, ma il buio mi dona.
Mi dona alla luce che non mi morde come il buio,
ma che mi scava una porta per rifugio.
Siamo i profughi del buio, alla luce, e combattiamo la nostra guerra
da illuminati, se conosciamo la legge del morso del buio.
Ho un capo buio addosso, quando mi parla l’Amore
Ho una corona di stelle sul capo del buio quando sono Amore.
Se spengo la luce sono certa di ritornare alla luce,
attraverso il buio.
Attraverso buio.
Sono di buio se tu mi leggi la notte in pieno giorno
ed io mi accendo di fuoco vivo per cibarci,
Mangiastelle, occhi grandi,
pupille.

* * *

CAPITOLO XII

Icaro perde le ali e la piuma per lasciare il suo segno nel mondo col fuoco del sole dei giorni a venire di lente prodezze della fatica del tempo che si indaga nell’esperienza di un inchiostro che non è che la vita al largo dell’antico sogno di confine entro un confortevole guscio a noi familiare e comodo ad ogni risveglio. Io cerco la pace nei giorni sereni di un mattino ma la mia anima abita il buio e con lui si spegne onirica in ogni letto disfatto e rifatto per la pace del corpo fino a che pace non lo separi dal corpo e gli tenga la morsa serrata sino al crocchiare delle ossa dimenticate sul marciapiede che abbiamo trovato ultimo giaciglio in nostro potere d’uomo con Icaro battuto per terra che lascia per sempre cio’ che lo colpisce a morte e lo divorerà per tutto il percorso della sua vita con chiaro coraggio trascorsa nel tempo di un viaggio che riporta a tutte le fasi della storia umana, a tutti i periodi che struccano in un assolo magnifico ed unico di struggente abito stonato e per persona di maschera in maschera sempre più antica e smodata nei toni, sino al pargolo del proprio figlio, di una prole di cuccioli impegnati a restituire il calore mancante da una vita, quella fiamma del focolare non per ragioni di forza costituiti consanguineamente, ma in virtù del proprio odore e della sostanza che è vera linfa di vita per l’uomo.
Il fuoco sacro dell’affetto è scarso sul suolo terrestre abituale al nostro sentire diurno e abbiamo un sonno per abituarci alla morte che sboccia ogni sera sul cronografo dei giorni e della sfera di spicchi di arancia amara del sole e della fatica umana dell’individuo spremuto in un cocktail stratificato dal ghiaccio dei simulacri della propria anima sempre in una coltre più fitta di lame che squarciano fredde le ali di Icaro al sapore di libertà al podio soffiato sulla candela di elio sovrano che ci infiamma le membra di un colore che solo il bambino può riscoprire nei giochi del mare di un ulisse che guida la nave della avventura ai confini della cromatizzazione terrena.
Nel buio la luce. Sia.

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La legge del buio – Rebstein

La legge del buio – Perigeion

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3 Commenti

  1. Ammirevole codesta presentazione, curata da D. Ventre, circa il nuovo lavoro poetico di Francesca Canobbio, libro ancora non letto, ma la cui poesia conosco da tempo! E c’è un passaggio vergato dal Ventre che mi ha colpito laddove scrive: “… il buio è a tutta prima il non essere per come l’occhio, il più intellettuale dei sensi, può (ci si perdoni il paradosso) percepirlo …”, ed è possibile prodomo agli Ex Libris che elaborerò per “La Legge del Buio” e “… Nel buio la luce. Sia.”, un saluto all’amica F. C., e i miei complimenti al Dott. Daniele Ventre, che non ho il piacere di conoscere, per Sua preziosa analisi testuale,
    R.M.

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Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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