Leòn – Anna Voltaggio

Leòn

racconto inedito di Anna Voltaggio

Leòn si era svegliato con un terribile mal di denti e con la testa umida per il freddo. Era da circa un anno che prima uno, poi un altro, i denti avevano iniziato a guastarsi.

Non avendo medici di riferimento, un giorno aveva cercato su google “dentisti economici Milano” e trovato il numero del dott. Cognetti che alla prima visita gli era sembrato affidabile, così aveva iniziato con lui la cura.

Il termostato di casa segnava 13 gradi, e mentre tirava il piumone fino al mento e si alitava addosso, pensò che il mal di denti doveva essere iniziato durante la notte perché sentiva tutto un malessere depositato e ricordava un sogno veramente inquietante.

Nel sogno, una donna molto bella, con i capelli raccolti e un seno grande lo accarezzava con la dolcezza di una madre e gli parlava in un orecchio con una lingua sconosciuta e indecifrabile. Quelle carezze che in un primo momento lo avevano intorpidito diventavano poi più misteriose e intime, tanto da eccitarlo e accorciargli il respiro. A un certo punto la donna scioglieva i suoi capelli rossi, capelli folti e morbidi che gli erano sembrati una cascata di miele, tanto lunghi che finivano a toccare il pavimento, così che lui, sdraiato sulla chaise longue, cercava di non rimanerci impigliato mentre tentava di trovare la cerniera del vestito. Poi le braccia e anche le gambe di quella donna fatata diventavano sempre più lunghe, lunghe come i capelli, e l’abbraccio che lo eccitava si trasformava in una morsa dolorosa e insopportabile, lo avvinghiava fino a immobilizzarlo stringendo così violentemente che Leòn sentiva i suoi organi comprimersi e infine, il respiro fermarsi.

Si mise a cercare una bustina di oki nel fondo della borsa, sciolse il medicinale sotto la lingua e ripiombò sul letto pensando che avrebbe voluto chiamare Rachele e pregarla di tornare. Subito dopo avvertì in quell’idea un senso di catastrofe definitiva, e lasciò stare.

Alle 10 del mattino, a pancia sotto e con la guancia schiacciata sul cuscino per alleviare il dolore, Leòn non aveva ancora aperto le persiane e il freddo trattenuto dai muri della sua casa a piano terra e senza riscaldamento lo faceva sentire terribilmente solo.

Quella tana in cui viveva era il meglio che poteva permettersi. A Leòn, che si adattava bene, non dispiaceva neanche troppo, se non fosse stato per il freddo aguzzo.

Nei giorni in cui si metteva a fare bilanci si sentiva più vittima che colpevole. Si era occupato della sua vita semplicemente vivendola, senza essere rapace ma anche senza essere, in fin dei conti, uno sprovveduto.

Non era nato nella povertà e non era stato neanche particolarmente maldestro nella gestione economica,

Aveva studiato per un po’, frequentato i centri sociali e poi gli ambienti stimolanti della media borghesia colta. Non aveva preso la laurea ma aveva seguito i corsi di una scuola di scrittura con la vaga idea di voler diventare scrittore.

Alla fine aveva trovato uno spazio onorevole come collaboratore di diverse testate giornalistiche. I suoi pezzi venivano pagati puntualmente e apprezzati dai direttori. Da un certo momento qualcosa era cambiato senza che si potesse fare niente; gli articoli che proponeva rimanevano senza risposta, le riviste con cui era più assiduo rimandavano alla prossima volta, le testate più piccole fallivano e si portavano nel fallimento pure i soldi di Leòn.

Dopo qualche mese che le risorse erano esaurite aveva smesso di pagare l’affitto del suo appartamento al terzo piano in via dei Transiti, accampando una scusa dopo l’altra e chiedendo prestiti alle agenzie di credito, finché un giorno era arrivato esecutivo l’ordine di sfratto.

Per attutire il colpo sua madre pagò gli arretrati ma gli aveva sottolineato, educatamente, che la pensione non avrebbe sostentato entrambi.

Leòn cominciò a vivere di lavoretti saltuari che spaziavano dalla correzione di bozze al montaggio dei palchi per i concerti, quando lo chiamava qualche amico che bazzicava l’ambiente.

Il fatto più penoso era stato vedere i suoi colleghi rimanere a galla, tanto da non capire se il problema fosse la crisi economica, i tempi nuovi, oppure se, semplicemente, non scriveva più niente di interessante.

Per qualche ragione Leòn faceva coincidere il momento in cui aveva iniziato a precipitare all’arrivo di Rachele nella sua vita. Per lui Rachele rappresentava la linea tra un prima e un dopo.

– Buongiorno, scusi l’urgenza. Ho un dolore fortissimo, credo a un molare. Ha modo di inserirmi in giornata?

– Buongiorno Leòn, venga a mezzogiorno.

Fece un respiro profondo per trovare la forza di tirarsi su.

Usò il solito trucco e si fece venire in mente Henry Miller che per metà della sua vita aveva arrancato senza un soldo, Edgar Allan Poe morto di stenti nella solitudine più cupa. Così in compagnia si sollevava l’umore.

Come chiunque scrive Leòn aveva il vizio dello sguardo e sul tram numero 3 che lo portava verso lo studio del dentista osservava due ragazze che avevano marinato la scuola e consultavano il cellulare. Non c’era neanche una traccia di sofferenza nei loro occhi, avevano le unghie colorate e appuntite per gioco.

Avrebbe voluto dire loro di stare attente, di non perdersi di vista, che basta un attimo e tutto evapora.

Dopo questo pensiero si era sentito davvero patetico, così aveva spostato lo sguardo e trovato un vecchio signore dall’aspetto stravagante seduto da solo in fondo al tram. Indossava un completo bianco con il fazzoletto damascato che sporgeva dal taschino, una mano reggeva il bastone di legno col pomello in argento. Pensò che fosse talmente fuori contesto che gli venne il dubbio di vederlo solo lui.

Arrivò in via dei Caroncelli 66.

Davanti al portone accese una sigaretta e seguì la spirale di fumo nell’aria, fin dove si vedeva. Lo sguardo rivolto verso l’alto si accorse di un gatto nero appollaiato sul davanzale della finestra con la coda che dondolava lenta nel vuoto, il gatto schiuse per un attimo gli occhi e fissò Leòn.

Il dentista, Miro Cognetti, lavorava ai piani bassi di un palazzo signorile. Una volta entrati dal portone, anziché prendere l’ascensore, si dovevano scendere due rampe delle scale collocate dietro il gabbiotto della portiera. La portiera era la signora Corvino e in effetti ricordava un corvo, con i capelli lisci e molto unti, tinti di un nero innaturale, il naso aquilino e lo sguardo sempre sospettoso, come se chiunque varcasse la soglia potesse essere un potenziale pericolo.

Leòn sperava sempre di non incontrarla, ma la signora Corvino se anche non era seduta oltre il vetro del gabbiotto, spuntava da dietro una colonna o se ne stava in cima alle scale come di vedetta.

– Buongiorno

– Dove deve andare?

– Dal dottor Cognetti, ci vediamo ogni mese – disse Leòn sorridendo nel tentativo di instaurare un rapporto più rassicurante

– Deve scendere di sotto, per due rampe, poi in fondo al corridoio

– A destra? – chiese con stizza

– A sinistra.

Mentre scendeva le scale si liberò della giacca perché lo sbalzo di temperatura tra l’esterno e l’interno era quasi insopportabile. La targhetta sulla porta riportava la scritta secca dott. Miro Cognetti

Leòn suonò il campanello.

Si era fatto l’idea che Cognetti avesse pressappoco la sua stessa età o comunque non sopra i cinquanta. Lo aveva sempre visto in camice e con la mascherina chirurgica tanto che per strada non lo avrebbe riconosciuto, ma la sua voce nitida, quasi vellutata, a Leòn suonava sempre confortante e familiare.

L’odore di disinfettante prendeva tutto il corridoio.

Nonostante non provasse un piacere particolare nell’andare dal dentista doveva ammettere che lì si sentiva al riparo dal resto della sua vita. Una specie di sottomondo in cui il tempo era sospeso per un’ora o due, che in certi casi secondo Leòn, era sufficiente.

Ancora sul pianerottolo gli venne in mente un ricordo sollecitato da quell’esalazione di medicinale intensa e probabilmente a base di chiodi di garofano. Nel suo ricordo, Rachele sta preparando una zuppa. Lui è in piedi nel salotto e cerca un cd dei velvet underground perché gli piace sentirla cantare con la voce di Nico. A un certo punto Rachele gli fa una domanda strana:

– Se ti chiedessero di vendere l’anima per ottenere quello che vuoi nella vita, lo faresti?

– Vendere l’anima a chi? Al diavolo?

– Eh, al diavolo.

– Non sono sicuro che la mia anima varrebbe tanto

– Dico davvero. Lo faresti?

– Direi di no.

– Se ti chiedessi di venire in un posto con me, un posto dove c’è gente che venderebbe l’anima al diavolo, ci verresti?

– Che posto?

– Un posto di perdizione.

– Perché vorresti andare in un posto del genere?

– Ho paura che altrimenti non riusciremo ad essere felici – dice. E poi si avvicina finché i loro corpi non combaciano.

Leòn fa una risatina nervosa.

– Ma poi ne usciremmo vivi e con l’anima?

– Dipende da noi.

Leòn capisce con chiarezza quello che Rachele sta dicendo. Le prende una mano e intreccia le dita alle sue.

– Con te potrei fare qualsiasi cosa – dice.

Il dottor Cognetti aprì la porta.

Era nella sua solita divisa bianca, i guanti in lattice e la mascherina che gli copriva metà del viso, i suoi occhi piccoli e allungati di un colore indefinito tra il marrone e il grigio, le sopracciglia che sembravano disegnate da un pittore fiammingo.

– Mi dia dieci minuti Leòn e la faccio entrare.

Leòn lo guardò percorrere il corridoio e sparire nella stanza in fondo.

La sala d’attesa era piccola e i termosifoni sovradimensionati, il caldo gli sembrò malsano e gli fece sentire il bisogno di acqua fresca. Aveva sempre trovato bizzarro che al posto delle pubblicità sui denti sani o i dentifrici, nello studio di Miro Cognetti erano appese stampe di fumetti storici degli anni ’70 e ’80.

Valentina di Guido Crepax occupava lo spazio maggiore, in primo piano nei riquadri, dettagli di lei, le labbra, i capelli, un ginocchio. Di fronte, un manifesto di Ranxerox che tiene stretta al fianco la sua piccola e tossica, Lubna. Da quella posizione non si vedeva ma verso la fine del corridoio c’era anche una tavola di Moebius.

Il cellulare, due piani sottoterra, non prendeva e non c’era nessuna rivista da sfogliare.

Leòn si alzò dalla poltroncina e cominciò a passeggiare nei pochi metri quadri a disposizione. Nessun altro paziente in attesa, nessuna segretaria al telefono. Leòn fece caso, per la prima volta, che nello studio dentistico di Cognetti non aveva mai incrociato anima viva a parte Cognetti stesso.

Pensò che probabilmente era per questo che le sue tariffe restavano tanto economiche.

Continuò a camminare avanti e indietro fino a spingersi, dopo un po’, all’inizio del corridoio dove a destra era piazzata una libreria semivuota, con qualche bigliettino da visita su uno scaffale e alcuni raccoglitori che riportavano l’etichetta con l’anno in corso.

Leòn fissò l’attenzione su un particolare che non aveva mai notato prima, una piccola teca incastonata in fondo a uno dei ripiani che incorniciava il primo numero di un vecchio fumetto di Milo Manara, Il gioco, che lui comprava quando era un ragazzo.

Il dente stava ricominciando a pulsare e Leòn sentiva il dolore arrivare fino all’orecchio e all’occhio sinistro. Pensò alla notte in cui andarono alla festa. Aveva lo stesso identico dolore ai denti e per smorzarlo, prima di uscire, aveva bevuto troppa vodka.

La guardò salire in macchina, il vestito era elegante e così corto che si vedeva il pizzo delle autoreggenti quando era seduta, lo eccitava vederla accanto a sé, preparata per un’iniziazione.

In macchina si erano baciati a lungo, carichi di un’euforia luminosa e ferina, lei disse che quell’esperienza li avrebbe uniti definitivamente, e poi aggiunse:

– È un gioco molto serio.

– Sei la donna che aspettavo da sempre – aveva detto lui.

Aprì la porta un uomo alto, che doveva essere il padrone di casa perché disse che era felice che avessero accettato l’invito. Indossava un completo bianco e una maschera nera che copriva metà del viso. Leòn lo trovò eccessivo ma non ebbe il tempo di pensarci troppo.

Rachele era entrata come se non fosse particolarmente intimidita e sulla porta si erano guardati con un sorriso pieno d’amore e d’intesa.

L’aveva seguita senza capire esattamente dentro quali incognite si stava muovendo e il dolore al dente combinato alla vodka gli faceva vedere leggermente sfocato.

Guidato da un’esaltazione nuova, che controllava a fatica, prese una delle maschere nere a disposizione degli ospiti incolonnate su un mobiletto déco.

Non c’era molta gente, almeno gli sembrava. Le tre donne nella stanza erano eccentriche e quasi nude se non per qualche accessorio. Una di loro indossava un collare di velluto e sandali dai tacchi così alti da superare l’altezza di Leòn. Si avvicinò a lui con confidenza, sistemandogli la maschera che aveva messo storta e non gli lasciava vedere bene da un occhio. Rise con una certa tenerezza a un centimetro dalla sua bocca e poi lo baciò.

Avvertì un senso di vertigine e la stanza gli sembrò grande in modo smisurato, il profumo zuccherato di lei lo portò d’istinto a trattenerla quando quel bacio si era interrotto. Sentì il suo seno nudo schiacciarsi sul petto.

Si lasciò condurre per mano in una stanza piccola e laterale. Solo dopo diversi minuti, non avrebbe saputo dire quanti tanto era sopraffatto dall’alcol, Leòn si fermò di colpo chiedendosi dove poteva essere Rachele, e con chi.

Sentì un vuoto comprimere lo stomaco immaginando il suo vestito sollevato. Tornò nella stanza principale lasciando la donna sul divano senza dire una parola.

Nella stanza fissò la coppia distesa sulla chaise longue e poi girò lo sguardo più volte. Non la trovava.

S’addentrò nella casa che adesso gli sembrava piena di insidie.

Guardò dentro una camera da letto e aspettò fuori dal bagno chiuso a chiave ma pochi istanti dopo uscì un uomo scusandosi per l’attesa. Non era da nessuna parte.

Tornò ancora nella prima stanza con l’aria persa e affannata, si tolse la mascherina e la lasciò cadere per terra. Rimase sospeso in un punto qualsiasi e ripercorse con lo sguardo ogni angolo, finché l’uomo con il completo bianco seduto su una poltrona, con le gambe accavallate e una sigaretta accesa, gli afferrò il polso.

– È andata via – disse.

– Chi?

– La donna che sta cercando.

Intanto era passato un quarto d’ora e Leòn, stanco di aspettare Cognetti, cercava di carpire qualche rumore ma non sentiva nulla.

Le tre porte che davano sul corridoio, due a destra e una a sinistra erano come sempre chiuse. Non sapendo più cosa fare si avvicinò alla prima e accostò l’orecchio per sentire se c’era qualcuno. Poi lentamente abbassò la maniglia e mise il viso nello spiraglio aperto. Rimase sconcertato nel vedere un ambiente che non aveva niente a che fare con lo studio medico di un dentista.

Aprì completamente la porta e mosse alcuni passi dentro la stanza.

L’unica spiegazione plausibile di ritrovarsi in un comune appartamento era pensare che Cognetti, come usano fare gli psicologi, aveva deciso di allestire lo studio medico in una parte della casa in cui abitava. Ci volle qualche momento prima che cominciasse a riconoscere alcuni elementi e dettagli dell’arredo.

Non appena mise a fuoco, il suo sconcerto aumentò fino a farlo agitare e il cuore prese a battere così violentemente da farlo indietreggiare come davanti a un fantasma.

Quando fu seduto sulla poltrona, mentre Miro Cognetti era di spalle impegnato a spacchettare gli strumenti sterilizzati, Leòn si sentiva molto debole e con un filo di voce chiese:

– Ha sempre saputo chi ero?

– Sì – disse lui.

Poi Leòn aprì la bocca e si lasciò curare.


Anna Voltaggio è nata a Palermo nel 1980. Si occupa di promozione e formazione per l’editoria. È co-fondatrice del collettivo editoriale Clementine. Vive a Roma.

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