Mariano Prosperi: “tremor amoris”

 

È stata recentemente pubblicata da Vydia Editore un’edizione ampliata di S’AGLI OCCHI CREDI. Le Marche dell’arte nello sguardo dei poeti, antologia a cura di Cristina Babino  dedicata ai capolavori dell’arte visiva delle Marche interpretati da voci poetiche marchigiane. La prefazione è di Massimo Raffaeli. Tra tra le opere d’arte che hanno ispirato gli scritti dei poeti: La Muta di Raffaello, la Madonna di Senigallia di Piero della Francesca, la Pala Gozzi del Tiziano, la Crocefissione di Lorenzo Lotto a Monte San Giusto, La nascita di Corrado Cagli, L’Angelo di San Domingo di Osvaldo Licini, una fotografia dalla serie Presa di Coscienza sulla Natura di Mario Giacomelli, la scultura Il volo frenato di Valeriano Trubbiani, e opere meno note ma di rara bellezza come il Ritratto di Giovanna Garzoni di Carlo Maratti e un ritratto maschile realizzato da Pericle Fazzini.

Ospito qui un estratto dal mio intervento, dedicato all’arte di Mariano Prosperi.

 

La santa Senza Titolo, che vediamo aureolata di colore e come sfigurata, è – proprio per questo – figura-emblema della produzione di Mariano Prosperi, luogo dove l’immagine si sfalda in rilievi ritmici, in rivoli e segni di celeste rotazione. Qualcosa accade nel mezzo dell’opera, un turbamento spalanca la contrada pittorica per farvi entrare altre luci attenebrate, che scontornano il volto incarnando il Mistero: è tutto «uno sgomento fatto di rispetto, un tremore fatto d’amore», come dice Sant’Agostino della Scrittura (horror honoris et tremor amoris). E dove nel volto santo molti hanno saputo trovare soltanto una cella di umana rassomiglianza, Prosperi non ha esitato a incorporarvi un’evasione da ogni quieta natura, quasi ad accogliere l’infigurabile.

Che dire di questo artista di cui poco si parla nelle Marche – già traboccanti e sempre troppo taciute – dei Lotto e dei Licini, dei Crivelli e dei Mussio? Egli è «una piccola storia dell’Arte che arriva e rimane». A scriverlo è Giovanni Prosperi, suo fratello poeta: non mi è possibile altrettanta leggerezza. Solo qualche appunto, allora, partendo dalla nota che l’altro fratello gemello, don Felice Prosperi, ha inserito nell’introduzione a una delle sue mostre: «con grande entusiasmo frequentò e terminò gli studi accademici, licenziato con 30 e lode in Decorazione pittorica all’Accademia delle Belle Arti di Macerata, come risulta dal diploma dell’11 giugno 1976. […] Entrò in Convento, seguendo tutto l’iter comunitario formativo, religioso e intellettuale, che lo ha portato alla professione religiosa temporanea e alla promozione nel primo grado di Studi teologici, che saranno molto importanti per la sua Arte e la sua Fede. […] Però, nel frattempo, qualcosa si è rotto nel suo organismo e soprattutto nella mente. Forse è qui la genesi della malattia mentale, diagnosticata come schizofrenia, che infine è stata la vera causa della sua morte, nel togliersi la vita, a 44 anni, il giorno 20 aprile 1995».

L’arte di Prosperi (5000 pezzi, fra schizzi, opere minute, centinaia di disegni e pitture, sparsi ovunque, molti in Argentina, dove Mariano passò un anno con i parenti e con Don Felice, missionario nella periferia di Buenos Aires) è la rosa senza perché: fiorisce perché fiorisce. Del resto, il suo Vasetto di fiori potrebbe essere considerato un’altra opera-emblema, fatta di stupori implosi: offerta della mano al fuoco, e viceversa.

Le mani di Mariano mi sembrano, almeno per quanto ho potuto vedere dalle sue foto, un compendio del disarmo, e ancora più sono le sue figure senza titolo, senza certa nominazione, come quella che siamo qui chiamati a osservare: bellezza ignota a se stessa, precipitata in voto di sospensione aerea, concentrata, votiva adunanza di asimmetrie e colori, pittura pluviale e senza appartenenza – noi non amammo una singola cosa, ma l’immenso fermento, come al margine di una elegia di Rilke.

E sembra che non ci sia verso di spiegarsi che la pittura qui vada intesa come pensiero sulle mani nella stessa maniera in cui andrebbe inteso il pensiero ai piedi del funambolo; è tutto lì, nella piccola veglia reciproca degli strati: leggerissima manovalanza che sa della carta come terra spirituale, e disegna un volto o un paesaggio come composto di soli ictus e cadute, isole screpolate di colore.

A chi dirà che il segno è goffo, senza presa, che esso è consegnato a un caso frettoloso, che insomma ci troviamo di fronte a un’opera priva di grazia nonostante il “soggetto”, si dovrà rispondere con le parole di Henri Focillon: «l’artista riceve con gratitudine il dono del caso, e lo mette rispettosamente in evidenza. Gli proviene da un dio, e così è anche per la casualità che è frutto della sua mano. Se ne appropria senza esitare, e ne fa nascere qualche nuovo sogno. È un prestidigitatore capace di trarre partito dai suoi errori, dalle sue prese mancate, per farne giochi nuovi: e nulla ha più grazia dell’eleganza che si produce a partire da una goffaggine» (Elogio della mano).

Osserviamo, a tal proposito, l’attento disaccordo degli occhi nella figura Senza Titolo: Prosperi le fa piangere da un lato una cascata di terriccio che dal marrone trasmigra nel nero, si seppellisce in un buio già tramato di oro: è questo – malgrado tutto – l’occhio che vede, mentre l’altro, integro, sembra sbarrato da una cecità che attende ancora la rivelazione della lacrima. Cosmogonia dell’occhio storto, maldestro, allo stesso modo della storia di Lourdes di cui parla Deleuze in Sovrapposizioni: «fai che la mia mano ridiventi l’altra… ma Dio sceglie sempre la mano sbagliata». Santificazione perpetua della materia pittorica, a cui obbediscono movimenti e sembianze che sono qui senza essere di questo mondo, non gli somigliano affatto pur rivendicando il proprio mescolamento con la terra, con la cera e l’inchiostro.

Senza bisogno di evasioni, tutto parla di questo altrove, tutto lo annuncia proprio qui, anche se la bocca della santa è per metà nascosta e serrata – ma ve ne è un’altra aperta in un tenero grido, appoggiata di profilo sopra la fronte. Non è raro trovare nelle opere di Mariano il precipitare di una cosa nell’altra: paragonabili a quasi nulla dell’attorno artistico, questi volti solo apparentemente accidentati tramutano il foglio in una sintesi agiografica, parabola di forze che continuano a modellare sulla carta il proprio paesaggio spirituale.

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Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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