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Les nouveaux réalistes: Fabrizio Pelli

Soul Kitchen

di

Fabrizio Pelli

Quando il medico gli prescrisse per la prima volta l’acido valproico, F., paziente bipolare, non aveva programmato di sentirsi così sereno. Grazie a una sgangherata epifania, si era convinto di non essere altro che un malato come un altro; ché se esisteva un farmaco per curarsi, allora una malattia della mente non era diversa da quelle della pelle, dei reni o del fegato.

«Dotto’, mi sento già meglio, sa? M’è bastato che mi dicesse che una cura esiste per farmi rinvenire: non credo di aver più bisogno delle med-».

«Come un fiore appena annaffiato», il dottore lo aveva interrotto, «Ma questa a me pare tanto una malcelata paura. Ne abbiamo già parlato, e le ho detto che non ha nessun bisogno di affidarsi a quel che legge su internet. Questi farmaci non sempre hanno effetti collaterali gravi».

Il suono croccante dello strappo del modulo prestampato aveva ricordato a F. il rumore degli schiaffi che il padre gli recapitava sulla guancia tutte le volte che aveva paura.

«Forza», gli sembrava di sentirlo anche in quel momento, «Che non possiamo far notte: c’è da muoversi».

Così, F., in preda a memorie spaventose e a una rinnovata sicurezza, si era diretto in farmacia e lì aveva comprato le sue dosi tondeggianti di stabilità emotiva.

Aveva mantenuto il ritmo scandito dalle somministrazioni come un metronomo, imperturbabile e meccanico, senza più chiedersi – o addirittura dimenticandosi – degli effetti collaterali di cui aveva letto largamente su internet: danni al fegato, causa di ulcere dolorosissime di cui pensava capaci solo gli ubriaconi, reni irritati e una fantasia sull’addio autoforzato manifesta solo in una percentuale piccola di pazienti; insomma, il suicidio.

Un giorno di luglio, quando la canicola faceva ondeggiare le strade, a F., per un improvviso attacco di malinconia, era venuta voglia di un piatto abbondante di pennette al pomodoro. Il sugo sarebbe dovuto essere denso, come lo preparava sua mamma, rigorosamente senza aglio, ma piuttosto con un soffritto di cipolla che lo rendeva dolce e acido, completo e bilanciato per natura.

Samurai, col suo coltello a mezzaluna, si muoveva veloce sul tagliere, tritando finemente ogni residuo di cipolla. E più la tritava, più questa piangeva un profumo pestifero che riusciva a sfondare i cancelli di peli, salire nelle narici e andargli a strizzare le ghiandole lacrimali. F. piangeva, e per piangere meno cercava di sdrammatizzare, scherzando sul sale sciolto nelle lacrime: «Le metto a bollire, così ci cuocio le pennette».

Dopo aver messo a soffriggere le cipolle in un filo – piuttosto spesso – d’olio, inondato la padella di pomodoro sanguigno e finalmente gettato la pasta nell’acqua bollente, F. si era tuffato sul divano della sala-cucina. Lì, scrollando il cellulare, si era accorto di non aver ancora smesso di piangere – le sue lacrime: goccioloni di pioggia fittissima. E cominciava a sentirsi contrito e colpevole di non aver chiamato sua madre nei giorni precedenti.

«Sarà almeno una settimana», aveva detto, perdendo il conto dei giorni sulle dita. Come quella volta in cui era stata ricoverata per un piccolo intervento, e lui, rapito da impegni spesso ingigantiti per giustificarsi, non solo non era andato a trovarla, ma non l’aveva nemmeno chiamata per chiederle come stesse, se si fosse ripresa dalla dormia (chiamava così l’anestesia completa) e se l’operazione fosse andata bene. Dopotutto, però, nemmeno lei lo aveva chiamato, e questa consapevolezza gli aveva causato un piccolo brivido, preludio elettrico di quell’ansia che piano piano iniziava a crescergli nello stomaco.

«Ecco, non mi vuole più bene», mugolava, «Non le interesso più. Il benservito, m’ha dato, la sua vendetta, ché almeno una telefonatina dopo la visita dallo psichiatra poteva farmela».

F., incapace di sopportare il senso di colpa, la rabbia e l’ansia tutti insieme, come in una fucilazione dove il condannato è uno, ma i fucilieri tre, si era reso conto che quel pianto innescato dalla cipolla aveva preso altre vie, aveva cambiato cause, e ora proseguiva in autonomia a disidratargli gli occhi. E più lui perdeva tempo a disperarsi, più la pentola sbavava schiuma amidosa che minacciava di cascare sul piano cottura, magari di bagnare e spegnere il fornello, e lasciar uscire uno spiritello di gas, invisibile e maligno, che lo avrebbe ucciso senza alcuna remora. F. se n’era reso conto così, immaginando una grande esplosione, o un sonno forzato e il conseguente soffocamento.

Per un istante – uno solo – l’idea gli era sembrata anche dolciastra, di quel dolce acidulo che gli ricordava il sugo al pomodoro: morire e non dover pensare più a nulla, non essere più costretti a sopportare questi martirii quotidiani: l’ansia, una frusta; la rabbia, un marchio a fuoco; la colpa, un veleno costipante. Ma quando rinvenne, quando si rese conto che quel pensiero non poteva essere così dolce – si trattava comunque di lasciarsi morire – F. era saltato sulle due gambe motrici ed era corso a controllare la pasta. Dopo aver calmato il bollore con un giro di cucchiaio, aveva cominciato a sistemare il piano di lavoro, ponendo il tagliere nel lavandino e con lui anche il coltello a mezzaluna.

Era sempre strato maldestro, andato a vivere da solo unicamente per dimostrare a se stesso che forse anche lui poteva vantarsi di un minimo di indipendenza. Ma le carenze del suo saper vivere si manifestavano in piccolezze come un contenitore di vetro, rotto perché messo in forno, il microonde fuso per averci scaldato gli spaghetti di soia conservati nella scatola di alluminio o, come in questo caso, in un taglietto sull’indice per via della sua incapacità a lavare correttamente un coltello.

F. aveva alzato il dito, mettendolo controluce: il sangue usciva copioso. Aveva guardato di nuovo il coltello, poi il dito, poi il coltello, poi il dito, e ogni volta che si voltava verso quella mezzaluna, gli sembrava che somigliasse sempre di più alla falce della Morte, venuta lì per portarselo via. Magari tagliandogli le vene con quello stesso coltello. Sì, attorno ai manici vedeva i quadratini di cipolla ordinarsi in falangi e falangine, fino a ricostruire una mano bianca, ossuta, che gli avrebbe tagliato gli avambracci e lo avrebbe aspettato fino al completo dissanguamento.

Di fianco a lui, attaccata a una presa della corrente, il cavo del cellulare si era attorcigliato formando un nodo tondeggiante e pendeva dal mobile verso il pavimento.

«Pure il nodo scorsoio e il cappio, pure questo scherzo!», aveva gridato iniziando a pensare di essere – finalmente – diventato pazzo; non più ascrivibile alla loggia dei bipolari, ma puramente pazzo, di quelli che la gente indica e sottovoce dice: «Questo è stato l’errore di Basaglia».

Preso dal panico, F. era tornato sul divano e si era coperto gli occhi. Tarato il respiro, gli era sembrato che una voce accompagnata da un alito caldo lo stesse chiamando. Aveva sbirciato, insicuro, per controllare di essere solo. Il suono, la voce, veniva dalla finestra in fondo alla stanza.

Più per curiosità che per coraggio, con lentezza guardinga aveva intrapreso la spedizione, ed era arrivato davanti al vetro. Ci si rifletteva, ma non al meglio: gli sembrava che alcuni lineamenti non fossero del tutto suoi. Simili, sì, ma non identici.

«Tuffati», gli aveva ordinato il riflesso, in cui finalmente riconosceva il volto di suo padre, «Tuffati, su! Mica ho voglia di aspettare la notte».

«Pa’, Dio mio! Non voglio buttarmi».

«Tuffati, forza! Come ti ho insegnato in Sardegna, sugli scogli: di testa, con le mani appuntite per tagliare l’acqua».

Incapace di mettersi contro a suo padre, persino al suo riflesso, F. aveva aperto la finestra e aveva guardato di sotto: l’asfalto ondeggiava – un mare solido e nero con righe drittissime di schiuma bianca. Avendo accettato il suo destino, F. aveva chiuso gli occhi, si era arrampicato sulla finestra, e si era lasciato andare, aprendo le braccia come un rapace, o come un Cristo sconclusionato.

Sotto casa di F., il fruttivendolo che aveva appena sistemato i pomodori, le arance e le fragole nelle scatole sulla strada, era stato testimone del volo, più pindarico che strettamente detto, di un falso suicida. F. era atterrato sulla frutta, alzandosi prima col busto, poi sulle gambe, ricoperto completamente di sughi rossi.

«So’ morto?», aveva chiesto al fruttivendolo che lo guardava senza particolare stupore.

«No, è solo sporco».

Dopo questa conferma petrosa, F. era tornato di sopra a passi pesanti di vergogna. Arrivato sul pianerottolo, dopo aver aperto l’uscio con le chiavi di scorta che teneva nascoste sotto allo zerbino per sincerissima sfiducia verso se stesso, era andato prima a spegnere il fornello, pasta ridotta a poltiglia e pomodoro ormai un coagulo piastrinico, e poi si era lasciato fagocitare ancora sporco – o condito – dal divano.

Aveva chiamato il medico al cellulare.

«Dotto’, posso disturbarla?»

«Mi dica! Sto andando in pausa pranzo».

«Sono stato male, non voglio più prenderlo, il valproato».

Il medico aveva sbuffato, un toro pronto alla corrida, cercando di silenziare un sussulto di superiorità.

«Facciamo così: le racconto come funziona il farmaco, qual è il suo meccanismo, così magari si calma e si convince che abbiamo tutto sotto controllo, d’accordo?»

«La ascolto», F. era tutt’altro che convinto.

«Vede, l’acido valproico è sia un inibitore del GABA–T, sia un bloccante dei canali al sodio. Up–regola il signalling inibitorio e down–regola il signalling eccitatotorio. L’effetto è un’ipereccitazione netta. Ha capito?»

«Mica tanto».

«Meglio», a F. era sembrato di sentire la pelle del medico scricchiolare e tendersi in un sorriso, «Non ci pensi troppo, anzi! non pensi troppo e basta, prenda le compresse e vedrà. Si dia tempo, con questi farmaci ce ne vuole per vedere effetti tangibili. Guarirà, si fidi che guarirà. Ora la saluto che mi è arrivato il piatto».

«Speròm. Arrivederci dotto’, la ringrazio».

F., sempre dolente, ma calmato dalla fiducia del dottore nella sua scienza, aveva deciso di accettare la sua sorte, ché se c’erano passati anche altri, magari qualche possibilità di saltarci fuori ce l’aveva anche lui. Era tornato al piano di lavoro, aveva acceso il fornello riempendo la pentola con acqua nuova, e aveva cominciato a tritare una nuova cipolla, concedendosi a un nuovo pianto, sì, ma fasullo e naturale.

 

 

 

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3 Commenti

  1. Molto gustoso (d’un’ironia amara), mordace, elegantemente tragicomico. L’autore è un lettore di Pennac? Bravo!

    • Salve Corrado, sono l’autore. E sì, specialmente qualche anno fa, verso i 14/15 anni, sono stato un lettore di Penna :)
      Grazie delle belle parole!

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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