I fantasmi di Bruciata

di Romano A. Fiocchi

 

Licia Giaquinto, Cuori di nebbia, TerraRossa Edizioni

 

Bruciata esiste davvero. È una località sulla via Emilia, tra Modena e Bologna. Se la si cerca sulle mappe di Internet, si fatica a identificarla: le descrizioni che ne fa la Giaquinto risalgono a oltre vent’anni fa, nel periodo in cui ha ambientato la storia. Non esiste nemmeno più la scritta sull’intonaco scrostato del casone abbandonato, che l’autrice ricorda nella Postfazione. Ma poco importa, i suoi fantasmi continuano ad aleggiare in quella zona di nebbia e di desolazione. Perché sono personaggi veri, ben costruiti, modulati su diversi stadi di sviluppo a seconda del proprio ruolo nel congegno narrativo: dal personaggio completo di Filippo, il contadino “scarpe grosse e cervello fino”, a quello in forma di comparsa dell’anoressica Silvia.

La Giaquinto ne alterna le voci narranti in prima persona lungo i quarantacinque capitoli del romanzo, contrassegnati dal nome stesso del personaggio e dal numero progressivo di entrata in scena (Mirella 1, Natascia 1, Mirella 2, Filippo 1, Mirella 3 e così via). Finisce così per attribuire a ciascuno un ordine di importanza: non per nulla il numero più alto di capitoli è assegnato a Filippo (Filippo 9), che se da un lato non si può definire protagonista del romanzo, dall’altro è sicuramente un personaggio costruito “a tutto tondo”. Quasi suo alter ego, anche come numero di entrate in scena, è il bulimico Francesco. Poi a parità di importanza la Mirella, moglie di Filippo e amante della vicina di casa Ivonne, e il guardone Nicola, con il vizio di spiare le coppiette. Altre voci narranti, per completare il quadro, sono quelle della prostituta Natascia, della tossicodipendente Patrizia e del vagabondo Mirco.

L’elenco qui sopra non è fine a se stesso: Cuori di nebbia è un romanzo corale, dove i personaggi – o piuttosto i fantasmi di una realtà che è stata – intrecciano l’un l’altro le loro vite e diventano parte integrante del meccanismo stesso del libro. Sono i “sei personaggi in cerca d’autore” (sette, in questo caso) che non hanno una storia da rappresentare perché è già stata rappresentata. Basti leggere la scena iniziale, quarto capoverso:

«Qualche casolare, fosse ricolme di letame e bidoni di plastica azzurra affiorano, come pustole, sulla crosta gelata. La scena è perfettamente in sintonia con il luogo e la stagione, se non fosse per quei tre corpi, abbandonati come spaventapasseri inutili tra un argine e un solco, a distanza di poche decine di metri l’uno dall’altro».

Tutto è già stabilito nella prima pagina, anche se il lettore non può ancora conoscerlo e lo scoprirà solo alla fine. I corpi dei tre personaggi sono come pupazzi abbandonati, emblemi del filo conduttore drammatico uomini-personaggi-oggetti. La penna della Giaquinto li manovra e si sostituisce al loro destino mantenendolo costantemente avverso, come ricordano le parole spesso ripetute da Filippo:

«A me il destino mi ha sempre remato contro, e ci potevo dare tutto l’unto che volevo, ma ci restava sempre la ruggine e si inceppava, in un modo o nell’altro».

È un destino beffardo, quello che colpisce tutti i personaggi del libro. Un destino costruito su verità soggettive, vizi, menzogne, rapporti di coppia deteriorati sino all’estremo, che aggroviglia le esistenze e le lega vicendevolmente fino alle incredibili coincidenze del finale. Vero e proprio scherzo del destino, visto che ciascuno a suo modo cerca di “oliarlo”, come dice Filippo, ma il risultato è sempre l’opposto di quello desiderato. Sembra di avvertire il tema dei “vinti” di verghiana memoria: per quanto tutti aspirino a qualcosa di diverso, a qualcosa che riscatti le loro vite grame, nessuno si salva. Sia che la loro forma mentis, come nel caso di Mirco, venga arricchita dalla lettura dei “più bei poemi dell’umanità”, Iliade, Odissea, Eneide, Divina Commedia, sia che attinga, come nel caso di Filippo e della Mirella, alla più becera cultura televisiva, dove i livelli di riferimento più alti sono quelli di Chi l’ha visto? e del Maurizio Costanzo “Sciò”.

Non esistono, in questo romanzo, personaggi positivi o negativi. Ogni ossessione o gesto, anche i più detestabili, hanno la propria giustificazione nelle circostanze della vita, nella pressione cui è sottoposto l’individuo, pressione che finisce per plasmarne il carattere. L’amore di Filippo per “l’angelo” della Natascia giustifica i tentativi di eliminazione fisica della Mirella, così, senza nessun odio particolare. La stessa vendetta finale della Mirella trova le sue motivazioni nel rocambolesco piano di fuga architettato da Filippo. È dunque un mondo di condannati, privi di qualsiasi possibilità di salvezza.

Una precisazione: personalmente non amo i romanzi noir, ma quello della Giaquinto – nonostante lo stesso risvolto di copertina lo definisca tale – non è propriamente un noir. È un romanzo duro, verista, anche di denuncia, con un finale drammatico, certo, ma che ha come obiettivo mettere a fuoco la desolante condizione di chi abita i margini di una provincia abbandonata a se stessa, tra lavori massacranti e “falene” che accendono di fuochi la notte con lo scopo di catturare camionisti assuefatti alla solitudine e alla lontananza. Insomma, un Assomoir contemporaneo e italianissimo.

Sembrerà strano ma Cuori di nebbia è una fortunata riedizione. Pubblicato per la prima volta nel 2007 con i tipi della piccola casa editrice Flaccovio, si tratta dell’ennesima riscoperta di TerraRossa che con la sua collana Fondanti sta riproponendo titoli meritevoli di un ritorno in libreria. Basti ricordare la pubblicazione nel gennaio 2019 di un romanzo straordinario come Il Pantarèi di Ezio Sinigaglia (su Nazione Indiana se ne parla qui), uscito nel 1985 e passato pressoché inosservato.

 

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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