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Gli elefanti della colonia

di Mario Temporale

Un giorno qualcuno decise che si sarebbero trasferiti. Il bambino aveva ormai cinque anni, ma non sapeva chi avesse deciso di lasciare l’osteria e spostarsi in un altro villaggio, in una nuova casa, senza l’osteria. L’avevano deciso i grandi, e questo bastava. Nessuno avrebbe più chiesto la domanda appesa al centro della parete, tra gli amari e i liquori, e la grappa sulla destra. Il bambino attendeva il suo destino, in silenzio, come aveva sempre fatto. Ci saranno scale nella nuova casa? si chiedeva. Ci saranno angoli bui o forse li avranno eliminati nella casa nuova? (voleva credere che fosse una casa nuova nuova quella in cui si sarebbero trasferiti).

Quell’estate, quella del trasloco, venne mandato “in colonia”; alla colonia marina. Anche il soggiorno al mare era una decisione dei grandi. Il mare fa bene ai bambini. Soprattutto i bambini pallidi, dalla pelle chiara, hanno bisogno di sole e dell’aria di mare. L’aria di mare fa miracoli, e l’acqua salata del mare fa bene ai bambini timidi e spaesati. Ci andava da solo, non c’erano fratelli, cugini, amici o figli di amici a condividere con lui l’esperienza. Si sarebbe divertito, tutti si divertono al mare.

La colonia marina era un palazzo grande vicino alla spiaggia circondato da alti pini magri, con molte finestre e corridoi, e scale larghe che si allungavano di lato e continuavano a salire verso altri corridoi e ancora finestre.

Il bambino aveva un letto accanto ad altri letti in uno stanzone che gli sembrava un capannone. Il soffitto era alto, il bambino si chiedeva come facevano a sostituire le lampadine in un soffitto così alto. Che scale usavano? Le finestre erano lunghe forse il doppio di quelle della casa sopra l’osteria, e larghe anche il doppio.

La sera, mentre le suore sollecitavano i bambini ad andare a letto, gli scuri venivano chiusi e le finestre diventavano delle statue buie alte fredde. Il bambino si infilava sotto le coperte, perché così gli avevano detto di fare, anche se non aveva sonno. Non si nascondeva del tutto sotto le coperte, come faceva nella stanza sopra l’osteria, ma teneva la testa fuori per controllare che le statue fredde e alte non si trasformassero in elefanti. Gli elefanti erano animali buoni, ma erano anche enormi, e se si spostavano potevano schiacciare tutto senza accorgersene. Magari ci rimanevano pure male, di aver schiacciato tutto, ma con quelle zampe grosse lunghe lunghe era difficile per loro capire cosa calpestavano.

Il bambino pensava che gli elefanti avrebbero schiacciato il suo letto per primo, perché era il più vicino alla finestra, tra quelli della sua fila. Per questo non dormiva.

Non sapeva se gli altri bambini pensavano agli elefanti. Non conosceva nessuno. Però il bambino aveva imparato il suo numero, e lo sapeva a memoria: 2541. Era cucito in rosso in tutti i suoi vestiti, negli asciugamani, i fazzoletti, il cappellino, la borsa; ogni cosa doveva avere il suo numero cucito sopra, era la regola. Il numero gli faceva pensare alla mamma, perché l’aveva vista seduta alla macchina da cucire passando pezzo per pezzo quello che avrebbe messo in valigia per lui.

Il bambino aveva appreso le regole della colonia, forse non tutte, ma quelle principali sì. Se aveva bisogno di qualcosa, un paio di mutande o una maglietta, doveva recarsi al pianoterra, in un magazzino con un bancone, e mostrare il suo numero. Qui raccoglieva anche i suoi indumenti dopo che erano stati lavati. Se voleva comunicare con i genitori il telefono non era d’aiuto, perché nella casa nuova, a differenze dell’osteria, il telefono non c’era. Per le emergenze, a patto che accadesse qualcosa di così grave che le suore considerassero un’emergenza, si sarebbe telefonato al sig. G., che aveva il telefono perché aveva comprato la casa dell’ex sindaco, morto di un male che non si può nominare, morto giovane come tutti quelli che muoiono del male che non si può nominare. L’ex sindaco era uno dei pochi in paese ad avere il telefono in casa.

Quanto durava la colonia? Il tempo sembrava non passare più e il bambino si chiedeva perché si trovasse in quel luogo, perché l’avessero portato al mare senza chiedergli se aveva voglia di andarci. Non si era ancora del tutto abituato all’osteria, con le scale ripide e lunghe, e tutti quegli angoli bui, ed ora la casa nuova, e perfino la colonia! Non si era ancora abituato all’osteria, ma almeno lì c’erano i genitori. Erano sempre occupati, ma almeno c’erano. Gli adulti.

In colonia gli adulti erano individui lontani come i loro abiti: insoliti e scomodi. Le donne erano suore, e gli uomini, non c’erano uomini a parte il bagnino che indossava sempre la canottiera e le braghe corte anche nei giorni di pioggia.

Il bambino giocava con le biglie e quando era fortunato trovava un altro bambino con cui giocare. Le biglie erano colorate e perfettamente tonde. Erano anche perfettamente trasparenti e al centro c’erano delle piccole foglie rosse o blu o gialle o di altri colori. Forse non erano foglie, perché non esistono foglie dai colori così vivaci, per di più infilate in mezzo al vetro, ma cos’altro potevano essere? A chi poteva chiedere se fossero foglie oppure no? Chi lo sapeva?

Della colonia il bambino conosceva soprattutto lo stanzone con i letti e le finestre giganti che di notte si trasformavano in statue e poi in elefanti. Del tempo passato in spiaggia non ricordava molto. Era noioso. I bambini che si conoscevano tra di loro organizzavano giochi con la palla, oppure con la sabbia. Sembravano divertirsi. Ma i bambini più piccoli, quelli che non avevano cominciato le scuole, erano trattati da piccoli e lasciati in disparte. Era giusto così. I grandi decidono perché sono grandi abbastanza per decidere. I piccoli magari correvano verso il mare ma le signorine che aiutavano le suore li richiamavano indietro se li vedevano correre troppo o con troppo entusiasmo. Le signorine non erano suore ma avevano lo stesso timore per le emozioni delle suore. Forse sarebbero diventate delle suore anche loro. Ma perché i bambini venivano lasciati alle signorine che non avevano figli, e alle suore, che figli non ne volevano avere?

Spesso il bambino voleva piangere, ma si tratteneva perché non era giusto piangere. Agli adulti, soprattutto alle suore, non piaceva vedere piangere. Cristo in croce non piangeva, sentì dire una suora a un bambino che non aveva ancora imparato a controllarsi. E se non piangeva Gesù con quei chiodi conficcati nelle mani e nei piedi e una corona di spine in testa, perché dovrebbe piangere un bambino che aveva la fortuna di essere al mare, tutto pagato, e il cibo caldo e la merenda e le lenzuola pulite quando serviva.

Il bambino non era convinto che Cristo in croce non avesse pianto perché ricordava un grande dipinto nella basilica di S.V. dove il viso di Cristo, Gesù, il figlio del signore, il salvatore, il messia, la particola umana, proprio lui, era segnato da una riga in rilievo, una riga rossastra. Era una lacrima di sangue? Era una di quelle domande che il bambino non osava chiedere a nessuno, e finiva archiviata insieme a tante altre destinate ad un futuro in cui tutte le domande avrebbero avuto risposta.

Però quella domenica che vennero a trovarlo non riuscì a controllarsi. Pianse per la gioia di rivedere i genitori. E pianse appena salì sull’auto per andare a mangiare un gelato in centro, ma questa volta perché avevano lasciato le sue cose alla colonia e quindi capì che non lo avrebbero riportato a casa con loro. Pianse anche con il gelato in mano perché voleva una spiegazione e non osava chiederla, e il gelato si sciolse più velocemente per colpa delle lacrime che vi cadevano sopra.

Quando vide la macchina allontanarsi dalla colonia non pianse più. Le guance erano rosse, rigate di lacrime rinsecchite. Ma non erano di sangue, perché si era toccato il viso e aveva guardato il dito, non era sangue. Però facevano male lo stesso, anche se non erano di sangue. Gli occhi erano lucidi e spalancati sul vuoto. Il respiro da affannato e rumoroso si era improvvisamente inceppato. La paura delle scale e degli angoli bui era nulla al confronto di quello che provava in quel momento.

Fissò l’auto dei genitori allontanarsi senza di lui, finché la sagoma del mostro giallo metallico uscì dallo sguardo.

Foto di Peter H da Pixabay

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davide orecchio
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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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