Elisa fa saltare i tappi

di Laura Scaramozzino

Elisa fa saltare i tappi o ci fa le spille. Prima si china e fruga tra gli sterpi. L’odore di merda pizzica il naso. Le cicale friniscono e graffiano i timpani. Il cielo è uno schiaffo azzurro sulla fiumana. C’è puzza di sudore, di gomma bruciata e di albicocche pestate.

«Eccolo». Elisa si solleva e ci mostra un rametto secco. Lo tiene fra l’indice e il pollice da cui sfarina una polvere scura.

Ci curviamo fra gli steli e le lattine schiacciate. Una vedova nera si apre un varco sulla terra rossa, libera dall’immondizia. Luccica. L’identica polpa di un’oliva succosa.

Trovo rametti scheggiati che si sbriciolano e macchiano i polpastrelli. Li getto fra i fazzoletti di carta appallottolati e le bottigliette vuote della Peroni. Mi piego sulle ginocchia. Le cosce tirano, il sudore cola sulla schiena e sotto il cappello di cotone azzurro. Elisa sbuffa. Antonio e Francesca ridono e bisbigliano uno nell’orecchio dell’altra.

«Siete i soliti deficienti. Come le facciamo le spille se non troviamo i rametti giusti?» Elisa ha le labbra gonfie. Il corpo è quello dei grandi. Senza le tette, ma con le gambe lunghe e i piedi larghi. L’odore cattivo trasuda dalle scarpe da tennis. È acido. Simile a quello delle mele gettate e rattrappite fra cui fingo di cercare.

Francesca e Antonio si guardano e piegano il capo come fanno i piccioni sugli slarghi delle piazze. «Siamo stufi dei tappi». Dice Francesca. «E questo posto è un inferno. Torniamo giù».

«Siete i soliti coglioni». Elisa infila il suo rametto sul retro del tappo. Lo incastra fra i piccoli denti intatti. Se qualcuno di noi trova tappi non integri ci fissa torva. Bollicine di saliva le arrossano il labbro.

Ha le mani grassocce, Elisa. Umide. Le osservo. I pori dilatati. Le unghie brune e mangiucchiate. Immagino il sapore di cheratina e terra. Salino, di patatina in busta.

«Guardate che bella, la mia spilla». Elisa solleva il tappo rosso in modo che il sole lo colpisca e lo faccia baluginare. Non se lo appunta sulla maglietta, lo mette in tasca. Stringe gli occhi e si tocca il mento. Si avvicina ad Antonio e alla sorella. Fa la stessa cosa che un minuto prima l’aveva fatta incazzare. Bisbiglia, sussurra. Le labbra scarlatte come il tappo sfavillante.

Antonio e Francesca annuiscono e mi vengono incontro. L’idea delle patatine mi ha riempito di saliva il palato. Penso al pranzo, all’olio che sembra arancione. Alle olive e alle mele che cadono dagli alberi piccoli. Alle albicocche che seccano al sole. Al cibo prima che marcisca e si consumi tra i rifiuti. Penso al pieno dei sapori e dell’età che intravedo nei busti slanciati dei più grandi. Otto anni contro dodici. Un tempo infinito, più lungo dell’estate.

«Sei tu che ci fai annoiare. Starti dietro è una palla». Elisa non mi guarda e allunga le dita madide. Mi sfiora la guancia con le labbra che sanno di saliva. «Dobbiamo provare giochi nuovi».

Francesca mi arriva alle spalle e mi abbraccia. Le mani mi premono la pancia.

«Sdraiati. Facciamo una cosa nuova. Ci devi stare. Conosci le regole».

Una volta ho fatto un sogno. Ero nel cortile della scuola. Piccola come una barbie. Ero sdraiata su un letto che sembrava un vassoio. La maestra e i compagni mi fissavano dall’alto. Sorridevano e mi domandavano: «Vuoi che ti mangiamo?»

Mi ritraevo e restavo ferma sopra il vassoio. Nuda come la plastica rosa. Non temevo i morsi né il sangue. Mi sono svegliata di colpo.

«Sdraiati». Ordina Antonio. Ha la voce stridula.

Obbedisco. La terra sa di fuoco estinto. Rimango immobile. Il cielo sopra la faccia mi dà il capogiro. Non è mai stato così grande. Solo in spiaggia, quando mi appiattisco sul telo mare, mi accorgo di quanto sia intollerabile e vuoto.

Chiudo gli occhi e resto così non so per quanto. La luce filtra dalle palpebre serrate. Pulsa e arrossa il buio con un fremito che frizza e si ramifica su per la nuca.

Riapro gli occhi a un tratto. Il cielo è una trottola di luce chiara. Non c’è più nessuno nelle vicinanze. Mi alzo a fatica, mi tengo la testa e mi guardo intorno. Tremo. Il cappello si sfila e scivola via. Lo lascio dove si trova. Ho ancora addosso il prendisole di lino celeste. La spilla a forma di ape mi penzola sul petto come una cicca bruciata. Mi guardo le mani sporche, le annuso. Mi ricordano le patate coperte di terra che mi mostrava il nonno. Scoppio a piangere e a urlare.

Una risata improvvisa spezza il silenzio. Francesca, Antonio ed Elisa sbucano da non so quale anfratto.

«Stavamo solo scherzando» sghignazzano.

Mi prendono per mano e scendiamo verso il paese.

Foto di Yinan Chen da Pixabay

Print Friendly, PDF & Email

articoli correlati

La lettera

di Silvano Panella
Mi trovavo all'esterno di un locale improvvisato, tavolini sbilenchi sotto una pergola che non aveva mai sostenuto viti – non sarebbe stato possibile, faceva troppo caldo, davanti a me il deserto africano, l'aridità giungeva fin dentro i bicchieri, polverosi e arsi.

La sostanza degli arti mancanti

di Elena Nieddu
Il Ponte crollò mentre stavano costruendo la mia casa. In quel tempo, quasi ogni giorno, l’architetto e io andavamo a scegliere cose nei capannoni della valle, parallelepipedi prefabbricati, piatti e larghi, cresciuti negli anni lungo il greto del torrente, abbracciati da strade che nessuno si sarebbe mai sognato di percorrere a piedi.

Esca

di Ilaria Grando
Papà ti spiega come uccidere la domenica pomeriggio. Hai 10 anni. Attraverso i tuoi occhiali da vista tondi, lo guardi preparare le esche chiuso in una giacca a vento rosa e verde. Nell’ago appuntito infila un verme vivo. Il verme sguscia tra le dita, si agita. Ti chiedi se senta dolore

Tiziano

di Federica Rigliani
Il padre di Martina e il mio collega Tiziano furono per me lame di una forbice. Il primo non c’è stato mai, ha sbagliato una volta e per sempre. Tiziano invece riempiva uno spazio fisico da cui fu allontanato troppo tardi. Lui ha sbagliato tante volte. Una dietro l’altra

Guerra e pace tra Tommaso Landolfi e la sua terra

di Tarcisio Tarquini
In questo scritto parlo di Tommaso Landolfi e di “scene di vita di provincia”: alludo al rapporto dello scrittore con la sua terra, alle ragioni di quella felicità di scrittura di cui egli confessa di riempirsi a Pico e non da altre parti. Mi riferisco, inoltre, alla diffidenza con cui la provincia guardò Landolfi, ricevendone in cambio un sentimento assai vicino al rancore

Il branco

di Marco Angelini
A casa ho fatto le cose per bene per mantenerla come l’hai lasciata. Dopo il lavoro ho trascorso il più del tempo in officina e mi sono preso cura di Tobi. Con il nostro giardino ho fatto il possibile. I gelsomini hanno resistito, le rose bianche invece sono morte e le ho sostituite
davide orecchio
davide orecchio
Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: