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Chiamate notturne

di Fausto Paolo Filograna

A Paolo

Marito si è messo alla guida. È ancora luce in quella zona del mondo, e mancano molti mesi alla nascita e alla morte della loro bambina. Ogni tanto, al culmine di qualche salita, se le curve della strada non sono costeggiate da troppi alberi, riesce a vedere una striscia di mare perdersi lontano verso Ovest, poi il nulla ai lati della strada, un’agave, un ulivo secco, finché il muro di una villa illumina il parabrezza, e dal finestrino abbassato si sente l’eco del rumore della macchina nello spazio vuoto. La macchina costeggia muri lunghi diversi chilometri, che rientrano improvvisamente esibendo grossi cancelli scuri e metallici. Cliniche, resort, residenze di industriali arteriosclerotici abbandonate o di politici che vogliono mettere il cazzo all’aria aperta. I miliardari, dice a bassa voce. Impiccàti. Tutti. E intanto pensa al sonno.Non vede l’ora di dormire, e anche Moglie a casa sua non vede l’ora di dormire. E sebbene sappiano che non sarà un buon sonno, ma una ripetizione incosciente delle ossessioni diurne, desiderano abbracciarsi alla sua transitorietà: in un attimo la luce della veglia lava ciò che è accaduto in sogno come l’acqua spegne la luce di un cannello della fiamma ossidrica. E per quanto ormai in parte lo temano, preferiscono il sonno alla vita. “Un giorno verremo giudicati per i nostri sogni” ha detto Moglie a Marito. Ma lui gli crederà? Ogni religione, predica di svegliarsi, di riprendersi dal sonno, e tutti hanno ricercato Dio nella veglia, finora, e nessuno sa se invece non sia sempre stato nel sonno e nel buio, o, come dice Moglie, nel suicidio.

Marito sta guidando da molto. Più avanti lungo la strada si sarebbe profilato il cimitero per un paio di chilometri, con le luci accese anche mentre il sole finisce il suo stupido lavoro. Si ferma prima, nella rientranza di uno di quei cancelli, e comprende che non è per niente calmo. E così, come tante altre notti, la chiama.

Stai guidando?

Mi sono fermato prima.

Prima?

Del cimitero.

Non lo dici in senso metaforico.

No dico davvero. Non voglio fermarmi alle porte del cimitero. Se mi fermano e mi chiedono che ci faccio lì, non posso dire che sto telefonando davanti al cimitero. Dai su. Tra l’altro un collega mi ha raccontato che hanno fermato uno lì davanti al cimitero. Gli hanno detto che ci fai davanti al cimitero. E lui balbetta che è venuto a fare delle visite. Delle visite per cosa, gli chiedono. I finanzieri glielo chiedono perché che si sia fermato al cimitero evidentemente non gli è piaciuto. ‘Sta cosa di fare delle visite al cimitero deve suonare strana a un finanziere. Ma non è solo questo, è anche che stare davanti al cimitero non mi piace.

Perché? Perché doveva suonare strano a un finanziere?

Perché uno fa di tutto per non crepare e finire al cimitero e poi ci va di sua spontanea volontà. Così. E perché se uno crede, crede nell’aldilà, be’ allora è sicuro che al cimitero non i sia nessuno, niente, nada, ok? Corpi, carcasse, polpette stagionate, involucri. Penso io. Altrimenti crede nei fantasmi, e be’, lì è meglio prendere qualche farmaco. E insomma gli hanno aperto la macchina e gli hanno trovato tre etti di cocaina nel portabagagli. Aspettava qualcuno, però vivo.

Madonna… L’hanno fermato solo perché stava al cimitero?

No.

No?

Non davvero. Pare che in realtà lo seguissero da mesi, e sapevano che doveva fare lo scambio con qualcuno. Solo che non sapevano dove. L’hanno seguito a una certa distanza a fari spenti. E ora è dentro insieme al fratello che pure sta in carcere.

Dove sei?

Davanti a una villa.

Capito. Non so.

Cosa.

Tu credi che si sia fermato lì perché in qualche modo voleva farsi fermare? Che in qualche modo voleva morire?

Morire? Magari era l’unico posto dove si può accostare sulla provinciale, dove ci stanno due macchine insieme senza sporgere il muso sulla strada. Perché morire?

Non so. Darsi appuntamento al cimitero. Quando uno dice ci troviamo al cimitero vuol dire una certa cosa, oppure finisco al cimitero vuol dire una certa cosa. Quando lo dicono le persone vuol dire una cosa sola. Sempre. Come ha fatto quello a dire ci vediamo al cimitero senza dirgli ci vediamo al cimitero? Pensi che abbia detto così?

Certo.

E allora sei d’accordo con me, perché ci vediamo al cimitero vuol dire una cosa sola. Perché nel suo caso doveva voler dire altro? Perché era ancora vivo?

Può darsi. Ma non ne sono sicuro. Tu stai dicendo che in pratica voleva morire e non lo sapeva.

Esatto.

E nel dubbio si è fatto arrestare.

E nel dubbio si è fatto arrestare.

Ma non è per niente morto.

Nel dubbio, ripeto, si è fatto arrestare, che non è morire ma è almeno stare al buio per un po’, senza spazio di manovra diciamo, impossibilitati a fare cose da vivi. In pochi metri quadrati di suolo, che dev’essere proprio un posto del cazzo. E uno non si muove da un posto del cazzo o quando ce lo hanno rinchiuso dentro o quando ci è morto. Che cazzo, sei gretto.

Non so.

Ci sono tante persone che vorrebbero morire.

Lui mi sa che voleva solo i soldi. Roba da vivi.

Ma alcune lo sanno, altre no. Ci sono troppe morti, io credo. Quanti di quelli che affogano si sono spinti volontariamente troppo oltre nel mare o sono andati a farsi una nuotatina quando il mare era in tempesta? Quanti deviando con l’auto non hanno scelto l’albero sul quale spargere le budella? Quanti non hanno pregato per un attacco di cuore? E una volta morti tutti a dire peccato, peccato, la vita, e invece lo hanno voluto. O scherzando con una calibro 13 hanno scelto di scherzare proprio sul petto di un amico o sul proprio?

Non so, che cazzo vuoi che ne sappia.

A te non va che a qualcuno possa voler morire.

Certo, a me non va.

A voi piace quello che a me fa schifo, è per questo che siamo così diversi, io, qui, e tutti voi, lì. Voi, felici, vivete nel mondo di chi vuole vivere. Perché mi hai chiamata?

Per parlare.

Perfetto.

Stiamo parlando. Non ero calmo. Non so perché. Nel portabagagli ho la mia attrezzatura, sono sicuro di non aver dimenticato niente, il Gav tecnico, gasolio per il gommone. Ho comprato un anti-fog per non fare appannare la maschera, roba seria, di fino, roba per sub fighettini. Allora devo essere calmo. Aspetta che controllo. Ormai sto quasi al buio.

Si girò e disse di non aver dimenticato nulla.

Nemmeno tre etti di coca?

Nemmeno tre etti di coca. Senti come sta la bambina?

Al buio anche lei.

Non la senti?

Certo che la sento. O meglio, insomma. Sento che si muove, di notte un botto. Stanotte non prendevo sonno. Mi sono risvegliata alle 2 e mi son dovuta fare un tè deteinato — quello normale non lo sto bevendo più, sai, ho cominciato a fare come da piccola, solo té deteinato tutti i giorni — e boh, ho guardato fuori dalla finestra rimbambita per mezz’ora. Le macchine avevano tutte i fari spenti, non una luce. La luce non mi va tanto. Poi son tornata a letto e alle 4 devo aver preso sonno. Lo sento con la pancia, diciamo. Non con le orecchie.

Chiaro, non bisogna aspettarsi che parli.

No, e nemmeno che pianga, a volte mi chiedo se non abbia bisogno di piangere.

Di solito lo fanno quando escono.

Ma io dico ora, se non ne ha bisogno ora, a volte, di sfogarsi. A me capita spesso, e se è mia figlia dovrà capitare anche a lei, no? Sentirsi male e aver voglia di sfogarsi, aver voglia di piangere. Ma mi chiedo come faccia in mezzo a tutta quell’acqua. E se volesse muoversi, stiracchiarsi, chiusa com’è? Se ci penso sto male.

Forse ha bisogno di stare lì. Se non esce, se non vuole uscire significa che ha bisogno di stare lì, che le piace.

E se non le piacesse e non potesse uscire invece? Se fosse ancora troppo debole per uscire, per piangere? Che inferno.

Può essere. Lo sai che molti pagherebbero per stare nella pancia della propria mamma? Lo sai o no?

Certo. Bravi. Lo dicono tanti, ma nessuno ricorda com’era. Come fanno a dirlo allora? Se non lo ricordano e non lo possono ricordare.

Ci sarà qualcosa di vero in questo desiderio, come in ogni desiderio.

E se la nostra bambina fosse in una specie di carcere anche lei?

Con le guardie?

Senza. Ci sei tu a fare la guardia. E i muscoli del mio utero come un cancello a due ante. Chiusissimo. Rigidissimo. Sicurissimo.

Ci sono io. Anche se ora sono qui, si sta alzando il vento.

Sei preoccupato?

No, credo che sia vento di superficie, in profondità nel mare non cambia niente se è così. Sotto i 30 metri è come stare sotto un tavolo mentre tutti gli altri pranzano.

Chi sono gli altri?

Boh, dio. Al di là della tovaglia.

Dei nuvoloni avevano fatto calare il buio prima che calasse il sole. Accese la macchina per scaldarsi, accese i fari, sullo stereo ricomparvero delle scritte rosse mentre in sottofondo si sentiva lo sfiatare del riscaldamento. Quando le agavi cominciarono a dondolare si videro dei lampi in lontananza. Passarono molto lentamente due o tre macchine con le luci di posizione accese. Sembravano spinte dal vento.

Però qualcosa non mi quadra. Della storia del tipo beccato con la droga.

La storia di prima?

Sì. Se il tipo volesse sì farsi mettere dentro, ma non come surrogato della morte? Ma per solitudine dico.

Perché era un uomo solo?

Perché dentro c’era il fratello. Ti avevo detto che in carcere c’era suo fratello, cazzo. Ti sei dimenticata?

Sì.

Anch’io me n’ero dimenticato ma adesso mi torna e non so perché. Se inconsapevolmente volesse sì stare in carcere, ma solo come pretesto, solo accidentalmente, solo perché il fratello ci era finito di recente?

Be’ poteva andare a trovarlo se voleva vederlo.

Consapevolmente poteva andare a trovarlo, ma inconsapevolmente? Se, come si suol dire, il cuore avesse una porta, e la chiave ce l’avesse avuta solo il fratello?

Ma quello perché stava in carcere? Pure lui coca?

No lui andava in giro con uno scooterone. Lì 300 grammi di coca non ce li metti. Estate e inverno senza casco. Era un biondino che sulle prime gli chiederesti se i genitori non sono slavi.

E invece tutt’altro.

Niente droga lui?

Non per gli altri. Quella sua, quei 10 grammi ci stavano benissimo nello scooterone. Una notte ne aveva fatti fuori più di metà di quei dieci e vedi tu se aveva i soldi per dell’altra. Manco per il cazzo. Quindi esce di casa alle 11, si mette sullo scooterone senza casco, come mostrano le immagini di sorveglianza di un garage, e fa non più di 300 metri da casa sua. Parcheggia davanti a una palazzina, suona a un campanello e la vecchia che ci abita lo fa entrare. Intendo dire: non ho idea di cosa le abbia detto, magari che aveva fatto un incidente e aveva bisogno di acqua, o di un telefono per avvertire un parente, o qualcos’altro che gli sia venuto in mente tra le pareti di quel cranio del cazzo. Fatto sta che gli apre, e questo sale di corsa i due piani, sbarra la porta della vecchia e rovista dappertutto per rubarle soldi e ori, che sono tutti in sala da pranzo.

Ma è andato a rubare di fronte a casa propria?

Esatto. Si conoscevano benissimo, è per questo che la vecchia lo ha fatto entrare.

E invece sembra che proprio per questo non doveva.

E quando ha rubato tutto quello che sembra avere di valore la vecchia, sente dei mugolii e si accorge che questa ha il marito allettato nell’altra stanza col respiratore. Al che va di là, fa alcune domande al marito, gli chiede se lui possiede altri soldi. Lo rigira da un lato e dall’altro convinto che possa essere il posto migliore per nascondere banconote, sotto il malato, insomma, nelle tasche del pigiama. Poi smonta la barriera del letto per infermi del poveretto e con quella picchia la moglie. Alla fine, quando sono già le 11.30 la stupra, e la stessa telecamera lo riprende di ritorno, ma non torna a casa.

Stupra la vecchia?

La vecchia.

E quanti anni aveva?

Più o meno sulla settantina.

Cazzo. E perché l’ha stuprata?

Questo il mio amico non me l’ha detto. E poi non so se la tua domanda ha senso. Ma il fratello, mi è venuto il dubbio che l’abbia fatto per amore di andare in carcere anche lui.

Tu non sei molto normale. È vera tutta sta roba?

È vero che non sono molto normale.

E la storia?

Non credo. Ma non stuprerei mai una vecchia. E se c’è un motivo per cui l’ha fatto, boh.

Tu non lo saprai sicuro.

Chiaro.

Voi non le capite ‘ste cose.

Noi chi?

Voi felici siete ciechi. Voi state al buio, state in una stanza buia, in una cazzo di grande, gigantesca stanza buia, un hangar stracolmo di cose possibili nel buio con una abat-jour accesa nel fondo, e pensate che ci sia solo quella perché fa luce, che in tutta quella cazzo di stanza gigante non ci sia altro che quella merdosa abat-jour. E ‘ste cose non le capirete mai. Voi piuttosto volete la luce, volete capire quella merdosa abat-jour accesa, perché è l’unica cosa che credete ci sia. Ma quando la portate fuori, alla luce del sole, alla potente luce del sole, nell’immensa luce del sole quell’abat-jour sembrerà spenta, e non significherà più niente per nessuno. Sarà una lunga notte, Marito mio, non avete paura voi felici?

Forse la stanza in cui stiamo noi, come dici tu, e quella dove state voi, sono due stanze diverse.

Ho sentito il rumore della macchina accesa e so che chiuderai, che hai fretta.

Non ho fretta. Ho solo freddo.

Ti scrivo se non dormo. Forse un’altra notte del cazzo.

Foto di Harut Movsisyan da Pixabay

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davide orecchio
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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012). Provo a leggere i testi inviati, e se mi piacciono li pubblico, ma non sono in grado di rispondere a tutti. Perciò, mi raccomando, non offendetevi. Del resto il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e assolutamente non professionale.
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