Cinquant’anni dalle poesie che non cambieranno il mondo

 

di Rosalia Gambatesa

Una poeta ragazzina, arrivata a Roma da Todi qualche anno prima, pubblica il 16 novembre del 1974 la propria smilza raccolta di esordio. Col titolo dichiara spavaldamente che le sue poesie non cambieranno il mondo e le destina «A Elsa». Patrizia Cavalli in quel momento ha ventisette anni, dedica Le mie poesie non cambieranno il mondo a Elsa Morante – rimasta per sempre l’unica ad avere ricevuto l’offerta di un suo libro di poesie -, ed è, secondo Garboli, «poeta di sicuro e maturo talento: non una promessa, ma un punto d’arrivo»[i]. La sua opera poetica, nonostante tali premesse, non è stata studiata come quella di altri poeti della sua generazione, e, sebbene in questi ultimi anni un vivace lavorio di ricerca la stia interessando, in opere a più grande diffusione si continua inspiegabilmente a leggere di una poesia quotidiana e dallo stile semplice. Il cinquantenario dell’esordio è quindi l’occasione per provare a ripercorrere la gestazione e le ragioni poetiche del primo libro, anche perché, nel lungo frattempo del passaggio tra la scrittura e la nuova auralità tecnologica, quel libretto antimoderno è diventato di fatto canonico come il suo titolo folgorante. Più o meno dal ’66 fino al ‘74, gli incontri romani, prima con gli americani e poi con Morante, e le sollecitazioni dei lunghi periodi trascorsi a New York, danno, seppure per tracce, l’idea di una ricerca artistica del tutto autonoma rispetto a quella allora egemone in Italia, né semplice, né affatto quotidiana. La lingua festiva che nel libro la riflette, e di cui raramente Cavalli ha dato conto, è invece la sua visibile manifestazione.

Morante, innanzitutto – Il titolo delle Mie poesie non cambieranno il mondo riecheggia quello del Mondo salvato dai ragazzini e la scrittura del libro, grosso modo tra il ’72 e il ’73, partecipa da vicino alla vicenda della Storia, arrivata in libreria cinque mesi prima, il 20 giugno dello stesso anno. Il titolo, la dedica e il componimento eponimo ad aprire i trecentosessantacinque versi delle cinquantaquattro poesie, quasi una successione di haiku, al massimo, per le due più lunghe, diciassette, appaiono nel bel mezzo del fragoroso dibattito sul romanzone acceso a luglio da Balestrini e marcano inequivocabilmente la loro vicinanza a Morante. Eppure Patrizia, forse nel 1969, o più probabilmente nel 1970, durante il primo pranzo, aveva da subito cominciato a litigare con Elsa. Aveva la certezza di assomigliarle perché Elsa aveva scritto Il mondo salvato dai ragazzini. Ma Elsa, ricorda, stava da un’altra parte, mentre lei era una conformista ancora ferma al Sessantotto. La sera del 27 aprile 1966, durante la prima occupazione di un’università, organizzata dagli studenti di sinistra della Sapienza per la morte di Paolo Rossi, lei è seduta su una panca di Filosofia con i suoi compagni di corso[ii], e nel 1967 Paolo Rossi è tra i Felici Pochi della Canzone. Eppure, quando nei primi anni romani si impegna a portare a Todi il verbo del Movimento, dicono in molti che lo fa con l’attenzione rivolta altrove. In Discutiamo Discutiamo, il corto di Marco Bellocchio girato con gli studenti durante la nuova occupazione sessantottina, quando interpreta la studentessa maoista, è una maoista giocosa, come, secondo il racconto di uno dei protagonisti, Bellocchio decide in extremis di girare. Bellocchio dirà poi in un’intervista di averlo fatto con mille conflitti e mille riserve. Il Movimento non era la sua dimensione, non vi era partecipazione, lo turbava, lo metteva in crisi, ma comunque lo guardava da cineasta in maniera obiettiva e distaccata[iii]. Per la soluzione giocosa, molti degli studenti, compagni di Cavalli, attori e autori della sceneggiatura molto seria sull’autoritarismo, sulla contestazione dell’impianto classico universitario e sulla situazione storica, si vergognarono di andare a vedere il film in sala[iv]. Difficile pensare che sia accaduto proprio lo stesso a Patrizia. In ogni caso, lì, in quel primo pranzo con Elsa, era cominciata la sua vita[v], nel senso dell’esistenza e della poesia.

Negli otto mesi in cui prepara le poesie da sottoporre allo spietato giudizio di Elsa, Patrizia, secondo il suo racconto tante volte ripetuto, non ricopia componimenti già scritti come le dice di star facendo. Diventata consapevole di aver scritto fino ad allora schifezze, li scrive ex novo col terrore di perdere l’amica nel caso lei non li apprezzi. Sa bene quanto per Morante sia importante il rapporto tra il poeta e la lingua poetica che per lei era come dire la forma suprema della realtà. Avrebbe anche imbrogliato, ma con Elsa non era possibile. E, quindi, resasi conto che le poesie scritte fino a quel momento erano niente e non si capiva bene chi le avesse scritte, non poté far altro che cercar di capire «cosa io fossi davvero. Fu una specie di esercizio spirituale, un esercizio di sottrazione: fare il vuoto e mettersi in ascolto aspettando qualche parola vera»[vi]. La conclusione, ormai mitica, della lettura morantiana delle poesie è nota: «Patrizia, sono felice, sei una poeta». Meno nota una testimonianza di Giorgio Agamben che riporta una frase un po’ diversa da quelle tante volte ripetuta da Cavalli: dopo aver letto il fascetto di testi che la giovane amica si era infine risolta a consegnarle, Morante a lui avrebbe invece detto «Patrizia è la poesia»[vii]. Aveva forse riconosciuto il suo essere poetico in una lingua in cui risuonavano questioni per lei centrali a partire dall’inizio degli anni Sessanta? Deve averne di certo molto apprezzato l’esercizio di verità. Cavalli racconta di una lettura ad alta voce della Storia, neutra e senza intonazione, fatta, prima della pubblicazione, da lei a Elsa, così faticosa che le impedisce di rileggere in seguito il libro[viii].

Morante, dopo aver laureato poeta Cavalli – Patrizia era al settimo cielo per la felicità – la prende in giro per non farla insuperbire. La canzona chiamandola Plebea Somari, ma intanto deve aver caldeggiato presso Einaudi l’uscita del libro. Cavalli ne parla[ix], e anche il suo ricordo del momento della pubblicazione, forse all’inizio del ’74, è significativo.

Einaudi era considerato ancora un editore di grande prestigio […]. Tutto avvenne con molta grazia e naturalezza, senza sforzo e difficoltà. E così immaginavo che dovesse essere: si raccolgono le proprie poesie, si va dall’Editore, l’Editore fa un bel sorriso, poi le legge, ti scrive una gentile lettera, manda il contratto e pubblica il libro. Non dubitavo che così dovesse essere. Così è stato per me. In realtà sembra che non sia così, anzi è sicuro che non è così […] Ciò vuol dire che, considerando la mia pigrizia e la mia superbia, non fosse stato per Elsa, io non avrei mai pubblicato un solo verso e forse non avrei continuato a scrivere[x].

Il titolo lo sceglie Morante, che decide anche dell’ordine dei componimenti, mentre a Torino, nella primavera del ‘74, sta rivedendo le bozze del suo libro e Cavalli è a New York[xi]. Lo prende dalla poesia «Qualcuno mi ha detto» in cui lei stessa è citata e che colloca in apertura[xii]. Una sorta di comune sphraghis? Ricorda Paolo Frongia, amico intimo della giovinezza di Patrizia, che Elsa le diceva: «“guarda che non cambiano niente, le poesie non cambieranno il mondo” e infatti è stato quello il titolo suggerito da Elsa perché lei diceva “sì, però, non pensare”, perché anche a quei tempi c’era in ognuno di noi un po’ l’idea che avremmo cambiato il mondo, insomma, anche se poi politicamente è stato, diciamo il periodo della contestazione, anche da parte di Patrizia, è stato un fuoco di paglia perché gli interessi erano altri»[xiii].

E poi gli americani – La riflessione sull’inadeguatezza della politica a cambiare il mondo e il convincimento di dover indagare e sanare, grazie alla poesia, le terribili sopraffazioni in atto nella sua mente si va probabilmente mettendo sempre meglio a fuoco in Cavalli alla fine degli anni Sessanta. Scorrendo velocemente gli incontri letterari e umani di quegli anni si ha l’impressione di una grande fame di conoscenza, di una persona sempre «in piedi pronta per uscire»[xiv]. Dal 1967 legge Emily Dickinson, l’altro suo pilastro fondativo, certo il riferimento primo per la costruzione ritmica delle immagini così peculiare della sua lingua mai ferma. Più o meno alla fine dei Sessanta incontra Peter Hartman, uno dei punti di contatto con Morante, e Daniel Berger, laureato in filosofia e in storia dell’arte, che dal ’56 vive tra Roma e New York, impegnato nel mondo dei musei a cominciare dal Metropolitan Museum nel 1961. Nel gruppo degli americani a Roma, in cui ci sono Berger e John Clarke, studioso sia di archeologia romana, sia di arte degli anni Sessanta, futuro fiduciario dell’Accademia Americana a Roma dal 2011 al 2013, conosce Diane Kelder, la storica dell’arte, compagna di una vita, che, almeno dal ’70, va regolarmente a trovare nella Grande Mela. A New York si lega strettamente alla geniale e generosa Mary Kaplan, ereditiera di una famiglia di filantropi, attorniata da un mondo variegato di artisti, creatrice di dimore allestite come scene teatrali, strenua amante della poesia, da subito presissima dalla sua straordinaria intelligenza; diventa molto amica di Barbara Rose, collaboratrice di Leo Castelli e in rapporto con artisti geniali come Warhol, Stella e Rauschenberg, che esplora lo spazio vuoto tra il quotidiano e l’arte, di cui Cavalli ha un quadro a via del Biscione già intorno al ’72. Entra probabilmente in contatto con John Ashbery e le sue tele verbali, e poi, in anni verosimilmente successivi, è molto vicina anche a Kenneth Koch, autore di Talking to Patrizia, quasi un poemetto con Patrizia nel ruolo dell’interlocutrice assente.

Tanti altri – Sicuramente a Roma si confronta con Emilio Garrone, professore anche di Dario Bellezza e Giorgio Montefoschi, nei primissimi Settanta suo relatore di tesi, forse sull’estetica musicale idealista tra le due guerre. Frequenta Elda Tattoli, conosciuta insieme a Bellocchio, e gli amici di Morante, che diventano per lei le persone più care, Carlo Cecchi, Ginevra Bompiani, Giorgio Agamben, Paolo Graziosi, Bice Brichetto, Marilù Eustachio, Titina Maselli, Alfonso Berardinelli, Angelica Ippolito, per ricordarne solo alcuni. Si esibisce durante confuse serate tra gente che va e che viene in spettacolini in cui canta, con accompagnamenti jazz, i testi di Dickinson, come farà Innamorata nel lungo omaggio finale di Tre risvegli del 2013. Bazzica intorno al Gabbiano, che espone allora Balthus, dove gira pure Guccione e assapora i nuovi mondi che via via conosce appassionandosi, come ricorda Berger, alla parte materica, alla materia dell’arte, e non all’arte come mainstream[xv] – da sempre nemica delle astrazioni e fiduciosa solo nei suoi tanti sensi. Più che negli Stati Uniti, nel giro di Bice Brichetto incrocia Susan Sontag, che ha già pubblicato nel ’66 il fondamentale Contro l’interpretazione ed è legata intorno al 1970 a Carlotta del Pezzo.

La rivoluzione, che fare? – Alla fine degli anni Sessanta, segnati dall’inizio della relazione con Diane Kelder, conclude definitivamente la propria breve carriera rivoluzionaria. Elsa è ferma ormai nell’idea della poesia come unica possibilità di rompere l’opacità dell’irrealtà e di «rendere amabili le cose orribili in quanto orribili, semplicemente perché sono»[xvi]; non ha ancora smarrito, se mai la smarrisce, «la speranza nell’antipotere della poesia come religione e politica, come filosofia»[xvii]. E, a differenza di quanto va dicendo a Cavalli, è convinta che bisogna scrivere solo libri che cambiano il mondo[xviii]; del resto, Patrizia, a proposito del suo titolo, parla di una citazione scherzosa[xix]. Già nel Mondo salvato dai ragazzini e poi nella Storia, Morante recupera, grazie alle letture weiliane, la propria terribile esperienza del vuoto dei primi anni Sessanta e riconosce «come irreale tutto ciò che si produce a causa dell’incessante e universale impulso dell’io a esercitare un potere piccolo o grande  […] e al contrario come reale ciò che principia a manifestarsi nella misura in cui si infrange lo schermo dell’io»[xx]. Un’esperienza analoga, seppure biograficamente del tutto diversa, deve aver conosciuto e recuperato nello scrivere le sue poesie anche l’amica che ai suoi occhi incarna la poesia e che nella poesia riflette la propria condizione di abbandono, sin da giovanissima, a fissare il vuoto e i paesaggi visionari, in uno stato di separazione[xxi]. Su questo terreno, centrale in tutta l’opera cavalliana e in qualche modo costitutivo del suo essere, si sono forse avvicinate le due donne, la ragazzina e la romanziera già affermata.

In un’intervista del ’77 a Michèle Causse e Marivonne Lapouge, curatrici di un’antologia francese sulle voci femminili italiane, Cavalli, segnalata loro da Amelia Rosselli, mostra di aver molto chiaro quale sia per lei il rapporto tra l’io e la poesia. La poeta rifiuta la banalità dei fatti, dice, perché non ne vede l’utilità storica. La sua storia non è altro che il letame grazie al quale coltiva la sua differenza[xxii]. Nella poesia di apertura delle Mie poesie non cambieranno il mondo è proprio una trasformazione del tempo in ritmo a cambiare il mondo trasformando il letame biografico dello scherzo tra Morante e Cavalli in un io libero dalla storia. Un impercettibile cambiamento metrico lo fa passare, tra la prima e la seconda terzina, da soggetto al tempo a soggetto poetico. Nelle due strofe («Qualcuno mi ha detto / che certo le mie poesie / non cambieranno il mondo. // Io rispondo che certo sì / le mie poesie / non cambieranno il mondo»), la ripetizione tautologica della prima nella seconda vede il passato prossimo, di cui l’io è oggetto, scandito dalla decisa spezzatura dei due settenari successivi, diventare il presente di cui è soggetto ritmato dall’inarcatura del quinario sul settenario fusi così nell’endecasillabo a minore del titolo. Non solo, nel componimento proemiale, l’io da essere soggetto al tempo diventa soggetto dell’armonia. Nell’intera raccolta una cadenza come circolare dei ritmi delle cinquantaquattro poesie scandisce anche l’avvicendarsi delle sue faccende quotidiane e rende così la superficie stessa del libro la scena del non senso della sua volontà, dei suoi terrori e dei suoi desideri, sottratti dalla rappresentazione a eventuali letture realistiche[xxiii]. D’altro canto, se è davvero Morante a riordinare la raccolta, di fronte a tale impianto non si può non pensare alla sua considerazione sulla costruzione del racconto come architettura e sulle vetrate come scene isolate. Cavalli, riferendosi ancora una volta agli equivoci critici suscitati dall’onnipresenza del suo io, torna a spiegare che «l’io non è l’indizio certo di una scrittura autobiografica […] non è mai un io psicologico, è un io linguistico, uno spazio linguistico e dell’esserci. È un io che guarda a se stesso come un campo privilegiato dell’attenzione e dell’esperienza»[xxiv].

Cavalli è tornata in interventi più recenti a parlare dell’antipotere della poesia a proposito delle scelte poetiche di quei suoi anni di formazione, riprendendo il filo del suo primo titolo, il suo più bello, scelto da Morante, che mette bretonianamente insieme l’idea di Marx di trasformare il mondo e quella di Rimbaud di cambiare la vita, e consuona anche con un microlito celaniano del ’69 («Le poesie non cambiano certo il mondo / ma cambiano l’essere nel mondo»[xxv]). Le mie poesie non cambieranno il mondo non voleva dire che lei non lo volesse cambiare. Quel titolo «era una provocazione, ma anche una forma di arroganza. Perché dire “le mie poesie non cambieranno il mondo” voleva dire il contrario. Cambiarlo, ma in maniera diversa, attraverso le parole. Non cambiandolo entrando nella dimensione della politica, (o quella roba lì)»[xxvi].  All’uscita di Datura nel 2013 riprende l’argomento e parla di una «virtù linguistica della poesia» capace di sanare le cieche e feroci sopraffazioni presenti nel corpo mentale producendo figure che hanno un ordine e un limite[xxvii] e dei sensi della mente che «sanno accogliere le parole giudicandone la verità»[xxviii]. In un intervento all’Istituto Italiano di Cultura di Berlino, in margine a un convegno su Aracoeli, spiega di riuscire ad affrancarsi dal dolore insopportabile del romanzo per lo specifico potere della lingua di Morante, e non si può non pensare che, come succede in questi casi, non stia pensando, in parte, anche alla propria.

Quindi questo modo di procedere, questa lentezza e questa festa della lingua che non vuole recedere dall’oggetto, questa lingua che vuole usare tutte le proprietà che le sono state date, per far esistere una cosa più di quanto la cosa possa esistere in se stessa, perché a differenza di quello che Elsa dichiara, che è la realtà a produrre le parole e non le parole a produrre la realtà, in verità non è vero. Lei sa benissimo che non è così. Cioè, sa benissimo, quando lei parla di realtà, tutti sappiamo cosa intendeva, un concetto piuttosto vago e anche piuttosto vasto che non era semplicemente la cosa, ma il modo della cosa. E quindi, dicevo, quando lei… usando la lingua in questo modo… in realtà crea una specie di altro mondo rispetto alla morte, ma non per quell’idea banale dell’arte che salva dalla morte, ma crea effettivamente, di fatto, un altro mondo, fisicamente, cioè linguisticamente, lì, in quel momento, un altro mondo che vince la morte, addirittura la abolisce, perché sospende il tempo[xxix].

Le poesie – Come mostra la corsiva ricognizione effettuata sui sette/otto anni di gestazione del libro, Cavalli durante la composizione delle Mie poesie non cambieranno il mondo abbandona definitivamente l’idea dominante di poter cambiare il mondo con la politica e matura il medesimo convincimento morantiano che sia invece la poesia a poterlo cambiare. La lingua festiva e la costruzione del libro, insieme all’effetto antifrastico del titolo, entrato nell’uso come un aforisma, riflettono con esattezza la prospettiva estetica maturata in quel periodo, disinteressata del tutto ad abbandoni sentimentali e a qualsiasi forma di realismo. Gli uomini si fingono di avere dei fini per poter godere e usare dei loro mezzi, spiega ancora all’ICI Berlin citando a memoria alcuni versi dal Mondo salvato dai ragazzini, e «l’arabesco fantastico è dato per la gioia del suo movimento e non per la soluzione del teorema. Alla fine la vostra felicità è conoscere che anche il paradiso è servile, anche il desiderio del paradiso è servile». Pure nelle Mie poesie non cambieranno il mondo il paradiso offerto è manifestamente servile poiché nel suo teatro di parole appare distinto il riflesso dell’inconsistenza delle intenzioni e dei desideri dell’io. Quell’arabesco generato da una voce poetica senza storia è ancora intatto per chi voglia sostare sulla felice rappresentazione di una figuretta inchiodata prometeicamente ai cicli infaticabili del corpo, e riconoscere in se stesso e negli altri la leggerezza del proprio niente. Basta guardarlo.

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Note

[i] Cesare Garboli, in Patrizia Cavalli, Sei poesie, «Paragone», n. 282, agosto 1973, p. 73.

[ii] Mimmo Rafele, Intervista inedita.

[iii] Massimo Ghirelli,‘68 vent’anni dopo, Roma, Editori Riuniti, 1988, p. 25.

[iv] Roberto Maragliano, Intervista inedita.

[v] Annalena Benini, Le mie poesie sono respiri e io respiro per trovare le parole, «Il Foglio Quotidiano», 19 e 20 agosto 2017, a. XXII, 195, p. VI.

[vi] Pasqualina Deriu, Patrizia Cavalli, in Id., Racconto di poesia, Milano, CUEM, 1998, p. 23.

[vii] Giorgio Agamben, Autoritratto nello studio, Milano, Nottetempo, 2017, p. 162.

[viii] Lily Tuck, Woman of Rome. The life of Elsa Morante, HarperCollins, p. 150.

[ix] Tuck, p. 115.

[x] Deriu, p. 24.

[xi] Camilla Valletti, Il tempo della valigia. Intervista a Patrizia Cavalli, «Indice», 11 novembre 2006, p. 24.

[xii] Caterina Bonvicini, Patrizia Cavalli, altro che twitter questa è poesia, «Il Fatto Quotidiano», 22 giugno 2013, p.16.

[xiii] Paolo Frongia, Intervista inedita.

[xiv] Aurora Ombretta Prevosti, Plebea Somari, « Città Viva », n. 4, Giugno | Luglio 2023, p. 25. L’autrice, è ospite in via del Biscione dal 1972 al 1974 insieme al suo futuro marito, compagno di liceo di Cavalli.

[xv] Daniel Berger, Intervista inedita.

[xvi] Giancarlo Gaeta, Contro il dominio dell’irrealtà. Elsa Morante e Simone Weil, «Lo straniero», 188, febbraio 2016, p. 76.

[xvii] Goffredo Fofi in Giancarlo Gaeta, p. 77.

[xviii] Giorgio Montefoschi www.raicultura.it/webdoc/elsamorante/index.html#services.

[xix] Caterina Bonvicini, Patrizia Cavalli, altro che twitter questa è poesia, «Il Fatto Quotidiano», 22 giugno 2013, p.16.

[xx] Giancarlo Gaeta, p.74.

[xxi] Leonetta Bentivoglio, Patrizia Cavalli: «Io, la malattia e le mie pene d’amor perdute», «la Repubblica», 7 settembre 2016, p. 30.

[xxii] Michèle Causse, Maryvonne Lapouge, Patrizia Cavalli, in Iid., Écrits, voix d’Italie, Paris, Des femmes-Antoinette Fouque, 1977, pp. 184-193.

[xxiii] Rosalia Gambatesa, Ormai è sicuro, il mondo non esiste, Bari, Progedit, 2020, pp. 48-57.

[xxiv] Intervista di Emanuele Trevi a Patrizia Cavalli, Un grande desiderio inesaudito, Le musiche della vita, Radio3, trascrizione mia, link non più attivo.

[xxv] Paul Celan, Microliti, traduzione e cura di Dario Borso, Rovereto, Zandonai, 2010.

[xxvi] Poetessa, Le musiche della vita, Radio3, trascrizione mia, link non più attivo.

[xxvii] Alessandro Bottelli, Scrivo poesie con il silenzio, «Avvenire», 4 settembre 2012, p. 24.

[xxviii] Caterina Bonvicini.

[xxix] Patrizia Cavalli-Im Gespräch, a cura di Sara Fortuna e Manuele Gragnolati, https://legacy.ici-berlin.org/videos/patrizia-cavalli-im-gespraech/part/2/, trascrizione mia.

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1 commento

  1. Articolo meraviglioso: suscita la voglia di conoscere sempre di più, di tutto, della poesia che è Tutto ciò che ci fa restare umani, quando questo aggettivo rende grazia alla vita.

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Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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