Massimo Riva: «chi vuol vedere il mondo nuovo?»

di Massimo Riva

È uscito per Einaudi il saggio Giochi d’ombra. Preistoria curiosa della realtà virtuale di Massimo Riva, libro imporante per rendere conto delle complesse genealogie che si celano dietro quelle che liquidiamo banalmente come “tecnologie” dell’attualità, e che invece conservano al proprio interno una “preistoria” dello sguardo (del suo “razionalismo magico”) capace di gettare nuova luce sul cinema vivente del futuro.

Ospito qui alcuni estratti dall’introduzione del libro.

 

1. «Chi vuol vedere il mondo nuovo?»

 

«Quindi, eccoci giunti a una tensione interessante e fondamentale. Un obiettivo per la realtà virtuale deve essere quello di rendere l’illusione il piú convincente possibile, altrimenti cosa stiamo a fare? Ma la migliore fruizione della realtà virtuale richiede che non si sia interamente convinti. Come in uno spettacolo di magia.»

Jaron Lanier

«Aspetto pedagogico di questo progetto: Educare in noi il medium creatore di immagini allo sguardo stereoscopico e dimensionale nella profondità delle ombre della storia».

Walter Benjamin

 

Due secoli fa, chiunque passeggiasse per le vie di Roma o nelle calli di Venezia poteva imbattersi in un singolare artista di strada che trasportava a spalle uno strano marchingegno. Al grido «Chi vuol vedere il mondo nuovo?» accompagnato dalle note di un organetto, questo membro della vasta famiglia dei nomadi e dei venditori ambulanti dava accesso, per pochi soldi, a un’esperienza senza precedenti: il viaggio virtuale. Come recita un cartiglio databile intorno al 1760, a chi poggiasse l’occhio a una finestrella del marchingegno – una scatola grezzamente adornata che richiamava in modo vago la cassa di uno strumento musicale – si sarebbe presentato uno spettacolo senza precedenti, un vero e proprio

Teatro Ottico, nel quale si rappresentano grandi lontananze e prospettive di Templi, Piazze, Sale, Palazzi, Cortili, Giardini, Dirocazioni [sic], Accampamenti, Boschi, Montuose [sic], Pianure e Porti di Mare, il tutto viene adornato da sorprendenti variazioni di scene, le quali adornano ogni veduta a guisa di un intero Teatro compiuto di Opera, come pure le medesime compariscono anche di notte, con apparati nelle stanze di molti e variati colori ed illuminazioni esterne bellissime, con la Luna, e le Stelle al naturale, ed altre cose.

Improbabili evocatori di remote «lontananze e prospettive», i savoiardi, stagionali girovaghi provenienti dalle valli alpine al confine tra la Francia e l’Italia, recavano in spalla il mondo intero, racchiuso nella loro cassela (cassetta), e offrivano in visione «un fine spettacolo a Londra, e un nuovo mondo a Roma». Nel xviii e xix secolo, forme di intrattenimento popolare come questa offrivano esperienze «immersive» che trasportavano lo spettatore in un altrove, adombrando le esperienze di realtà virtuale o aumentata fornite oggi dai nostri dispositivi digitali. Tutte le curiose esperienze di cui si parla in questo libro non sono ancora immersioni totali in realtà virtuale come quelle consentite oggi dalla tecnologia digitale ma vi preludono già, le prefigurano (dove il termine «figurare» ha una centrale importanza, come sinonimo di «simulare»). Tradizionalmente oggetti della storia del precinema, o dell’archeologia dei media, dispositivi analogici come il «mondo nuovo» o il cosmorama, la lanterna magica, la fantasmagoria, il panorama e lo stereoscopio, si offrono anche a suggestive considerazioni da un punto di vista che possiamo definire di preistoria del postcinema. In sei casi-studio, o racconti epistemologici, questo libro passa in rassegna alcuni significativi episodi nella lunga preistoria del «realismo virtuale» che caratterizza la cultura moderna, gettando al contempo un’inedita luce su figure illustri o dimenticate del nostro passato che hanno aperto la strada alla formazione della nostra idea di un mondo virtuale, doppio o, come si dice oggi, «gemello» utopico o perturbante del mondo in cui viviamo. Categoria storica ed epistemologica, oltre che estetica, questo «realismo virtuale» è un concetto bifronte, descrive la virtualizzazione del reale che caratterizza l’età moderna e prelude alla realizzazione del virtuale inaugurata dall’età contemporanea: il mondo in cui viviamo, l’età del simulacro e della simulazione, paradossale prodotto del nostro razionalismo magico, come il pioniere e guru della realtà virtuale Jaron Lanier sottolinea nella citazione posta a epigrafe.

 Giovanni Volpato, da un soggetto di Francesco Fedeli, detto il Maggiotto, Savoiardi colla lanterna magica, acquaforte, 1765 circa.

 

2. Viaggio virtuale e voyeurismo sociale.

Il nostro itinerario prende avvio nella Venezia del xviii secolo, con il dispositivo chiamato «mondo nuovo», che registra già nel nome tanto l’inedita visione che offriva quanto il fascino della novità da cui era avvolto il semplice congegno che quella visione rendeva possibile. Nel primo dei nostri casi-studio, il dipinto di Giandomenico Tiepolo noto appunto come Il Mondo novo apre il sipario, fornendoci una lente di ingrandimento utile per mettere a fuoco i due temi principali del nostro percorso: il viaggio virtuale e il voyeurismo sociale che lo accompagna, due fenomeni costitutivi del paradossale realismo che informa la cultura popolare sette-ottocentesca e l’ideologia della modernità, prefigurando due aspetti essenziali dell’epoca digitale a noi contemporanea. Anche quando il viaggio virtuale era basato su riproduzioni fotografiche di luoghi reali, come nella stereoscopia, quella che veniva evocata era una copia umbratile della realtà, un’eterotopia che esercitava sull’osservatore una sorprendente e strana attrazione. Viceversa, questa prospettiva radicata nel presente permette di gettare una luce inedita sui reperti del passato, instaurando una sorta di meccanismo cognitivo a retroazione che rivela aspetti poco esplorati della modernità. Rimanendo a Venezia, il secondo caso-studio mette in scena il «casotto» di Domenico e Lorenzo Selva, un «mondo nuovo» di grandi dimensioni che offriva a chi vi entrasse una veduta panoramica e un magico miraggio della Venezia del 1760, confermando come una realtà teatralmente percepita tramite un apparato ottico, di fatto un’immersiva camera oscura, esercitasse un fascino singolare sulla mentalità del tardo Illuminismo. Completando un simbolico trittico, il terzo caso-studio si sofferma su due opere teatrali di due celebrati autori del Settecento veneziano, Carlo Goldoni e Giacomo Casanova. In queste due pièces, un dramma giocoso per musica e una tragicommedia, due dispositivi ottici, il telescopio e il polemoscopio, forniscono rispettivamente tanto la macchina scenica quanto la chiave di una rappresentazione sofisticata e ironica della società settecentesca: un gioco di specchi e di lenti che mette a fuoco le illusioni e gli inganni delle relazioni amorose, inesorabilmente invischiate nella rete di sorveglianza dell’occhio sociale. La pièce di Casanova prefigura persino alcuni aspetti «paranoici» dei social media contemporanei, all’insegna di una simulazione non proprio onesta. La rilettura di alcuni episodi della Storia della mia vita dello stesso Casanova aiuta a illustrare poi il voyeuristico patto con il lettore che informa la scrittura di quest’opera, in cui il polemoscopio diventa dispositivo retorico. L’autobiografia del libertino viene paragonata a uno spettacolo di lanterna magica, in cui l’autore è personaggio e spettatore insieme: le ombre del passato tornano a condensarsi sullo schermo della memoria e da qui sulla pagina, nella «camera oscura» del castello boemo di Dux, dove l’esule veneziano trascorre gli ultimi, melanconici anni della sua esistenza. La conclusione del caso-studio immagina, con l’aiuto di un artista del teatro di figura, un ipotetico «ultimo spettacolo» di Casanova: un gioco eterotopia sottomarina evocata dall’Icosameron, romanzo filosofico e fantascientifico, l’ultimo viaggio virtuale del libertino grafomane. Il quarto caso-studio ricostruisce la straordinaria messa in scena che nel 1821 consentí ai londinesi di visitare le camere sepolcrali del faraone Psammis (Seti I). Concepita da Giovanni Battista Belzoni, singolare figura di saltimbanco e pioniere dell’archeologia che aveva scoperto e scavato il labirintico complesso sepolcrale nella Valle dei Re e «riprodotto» un perfetto facsimile di due delle sue stanze, la Tomba egizia è un’illusione ottica che non utilizza lenti e dispositivi. Si tratta piuttosto di un dispositivo architettonico atto a produrre un’esperienza immersiva non dissimile da quelle che consentono i nostri apparati digitali. Al centro del caso-studio c’è un concetto fondamentale nella nostra ricostruzione di una preistoria della realtà virtuale: l’aura del facsimile, ulteriore manifestazione di un paradossale realismo che da tecnica di rappresentazione evolve in sistema di riproduzione culturale, raggiungendo la sua epitome nelle grandi fantasmagorie delle Esposizioni universali. La pionieristica installazione di Belzoni, infatti, non solo prefigura l’applicazione delle tecniche piú sofisticate a disposizione degli archeologi contemporanei per ricostruire un passato remoto e perduto, ma inaugura una nuova esperienza emotiva e interattiva che ha largo corso nei musei contemporanei, una tendenza che la pandemia del 2020 ha ulteriormente consolidato. La Tomba allestita da Belzoni all’Egyptian Hall, episodio saliente dell’egittomania ottocentesca, illustra inoltre quanto la realizzazione del virtuale si intrecci per tutta l’età moderna con l’appropriazione sia materiale sia fantasmagorica dell’Altro coloniale: un vero e proprio saccheggio, fisico e psicologico. Il quinto caso-studio illustra la vita e la carriera di Giuseppe Garibaldi raccontata in un panorama mobile acquisito e digitalizzato dalla biblioteca della Brown University circa vent’anni fa. Viene ripercorso l’itinerario che porta questo singolare artefatto da Nottingham, la cittadina inglese dove fu prodotto nel 1860 – all’apice della popolarità dell’eroe in camicia rossa, impegnato in quei mesi nella storica spedizione dei Mille –, al Nordamerica, dove approdò verso la fine della guerra civile, nel 1864. In entrambe le sue tipologie, quella circolare e quella mobile, il panorama è forse il piú rappresentativo dei media ottocenteschi analizzati in questo libro, emblematica incarnazione del realismo virtuale che caratterizza l’arte popolare e la società dell’informazione del secolo xix. Precursore del CinemaScope e dei cinegiornali, strutturalmente collegato al ciclo della stampa illustrata, il panorama Garibaldi dimostra come forme ibride di informazione e intrattenimento svolgano un ruolo cruciale nella spettacolarizzazione della storia contemporanea, producendo una nuova dimensione del viaggio virtuale e del voyeurismo sociale: il turismo di guerra, componente essenziale di una nascente coscienza collettiva del presente storico nell’epoca delle rivoluzioni nazionali e della globalizzazione imperialistica. Per finire, il sesto caso-studio guida il lettore in un mini Grand Tour dell’Italia di fine Ottocento e dei primi del Novecento, attraverso lo stereoscopio. Quest’ultimo esempio di viaggio virtuale è reso possibile da un sistema brevettato da una ditta americana, la Underwood & Underwood, che per molti aspetti prefigura il sistema di geolocalizzazione di Google, con la sua duplice visione cartografica e immersiva, al livello di strada. Con lo stereoscopio, per molti aspetti il dispositivo che corona tecnicamente il sistema un’autonoma attività voyeuristica, una consumistica appropriazione del mondo del tutto coerente con l’ideologia del nascente imperialismo americano, che porta a compimento l’epoca dell’immagine del mondo. Lo stereoscopio è l’apparato che piú fedelmente prefigura l’esperienza immersiva consentita dai dispositivi digitali, antenato dei visori che alimentano l’industria del turismo virtuale rilanciata dalla pandemia. Fedele al suo etimo (stereos in greco vuol dire «solido »), lo stereoscopio solidifica, rendendoli quasi tangibili, gli stereotipi culturali mentre offre l’assoluta libertà di movimento consentita dalla smaterializzazione del reale. Prefigurando quel mondo nuovo che oggi chiamiamo metaverso, lo stereoscopio prelude anche a quelle pratiche solipsistiche e allucinatorie che i social media hanno virtualmente sostituito ai concreti rapporti sociali e personali, portando a compimento la trasformazione del mondo in una fantasmagoria. Ma il lettore sia avvertito: alla fine del viaggio, in fondo alla penisola, in una landa suggestiva di rovine archeologiche e vulcanici paesaggi, meta di un turista onnivoro che vuole consumare in breve tempo, con i propri occhi, il mondo intero, presente e passato, una rivelazione inattesa lo attende. E l’immaginazione di un altrove che accomuna tutte queste simulazioni si rivela per quello che veramente è: una dimensione al confine tra il «qui e ora» e il «là e allora», prefigurando un’età in cui il virtuale ha ormai colonizzato (quasi) del tutto l’esperienza vissuta.

Underwood Travel System, serie Italy through the Stereoscope (1900-12), Underwood & Underwood, New York 1903.

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Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. È poeta, scrittore, regista, performer e redattore di «Nazione indiana». Ha co-diretto la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato La consegna delle braci (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli), La specie storta (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano) e il saggio Fossili di rivolta. Immaginazione e rinascita (Tlon Edizioni). Ha preso parte al progetto Civitonia (NERO Editions). Ha curato, per Argolibri, l'inchiesta letteraria La radice dell'inchiostro. La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il vincitore di FONDO 2024 (Santarcangelo Festival), uno dei direttori artistici della festa “I fumi della fornace” e dei curatori del progetto “Edizioni volatili”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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