Orazio Labbate – Cravuni
Incipit dal nuovo romanzo di Orazio Labbate
Il cielo serale non aveva nulla che lo tenesse a riposo, giacché un temporale strillava come se i fulmini fossero uccellini invisibili dotati di campanelli nei cumulonembi. Acuiti dalla violenta ostilità dei venti, essi annientavano ogni onesto potere dell’immaginazione.
Era novembre.
Ad Afton, Oklahoma, tutto era, come sempre, orribilmente astratto. Le catapecchie ai lati dell’unica strada principale, infestate dall’insensatezza di genti inette, cadute in basso, preganti una divinità infantile, diffondevano i sensazionali messaggi segreti di chi vive nel terrore di impazzire. Io le odio con entusiasmo sconfinato; con dolorosa euforia sono da sempre, le persone, ricadute nell’indeterminatezza di un caos strammàto, quando i tornado le scalfivano brillavano perfino di degenerazione. Non domina, ad Afton, la complessità crescente, quella degli ingegni fervidi, non esiste la razionalità poiché essa finisce in qualche modo slegata da tutti gli aspetti più profondi. Si percepiva, sempre più estraniato – il primo novembre –, un tuono far tremare il volto beato dell’unica stazione di servizio e con esso di sicuro la putìa di mia madre, Labella’s di Fina Jennifer Salemi. A Sua lurida immagine, di Dio, attraverso la natura disagiata da Esso manifestata, dovremmo comprendere soluzioni incantatorie, tracce di un crimine efferato dalla scoperta dell’irrazionale di Lui stesso. Ma ordinare tali fenomeni, in specie il tuono, significa fare i conti con un’eventualità terrificante per noi impossibile, noi non siamo dèi. Le nostre urgenze, le nostre tragiche cadute, compresa la mia, confidano nello sgomento di un’improvvisa scoperta dolorosa affinché possa continuare a infuriare in noi fino a sfunnàrci di senso.
Vortici dentro vortici sentii quella notte, non vortici di orrore oceanico, bensì del fervore di un rapimento estatico, di uno strappo che mi avrebbe reso difettoso e incompleto. Vagabondavo con la Mustang scura, venuto fuori dal picciddu Dipartimento di Polizia che comandavo, in veste di detective, da dieci anni, con ragione squilibrata, sotto la tortuosità delle gocce di pioggia, per vasàri la mamma prima di assecondare i miei inconsci impulsi tenebrosi subito dopo. Rintanarmi nella mia oscurità del Motel 6, circonfuso dalle indagini sulle leggi del pensiero, far agitare all’impazzata la natura inaccudita delle mie origini siciliane che gemevano e si afflosciavano sotto il peso di anni uguali colmi di svagataggine e imprecisione. I bisogni sempre più modesti m’erano insufficienti, mi imbestialivano; perciò, il mio marasma, si cristallizzava e fossilizzava, restando consumato non dalle donne ma da me stesso. Crudi, amorevoli, banchi di nuvole compensavano, intanto, largamente, l’aspetto lugubre del mio volto, funnùtu di buio. Guardai l’orologio in modo eloquente perché la putìa di mia madre non fosse chiusa. L’unico semaforo in prossimità del negozio sanguinava della sua luce purpurea e mi procurava una speciale soddisfazione appena colava sull’asfalto a mo’ di una smisurata e divaricata ferita in verticale come la coscia nuda di quel santo appestato. Chissà quali ingranaggi immobili ha inventato Dio al suo interno per costruire oggetti conditi di tempo, io fuggo da quel tempo, dagli oggetti del tempo, perché questi oggetti sono impregnati di religione, tuttu e nenti.
Parcheggiai la Mustang, mi incamminai verso il negozio, mentre la pioggia cadeva frettolosa ed entrava in contatto con le pozzanghere, senza operare distinzioni su dove capitombolare. C’è un lieve errore nella scelta e nei modi della morte, sulla sua venuta, sull’attraversamento di quest’apparente paradosso, noi ci apprestiamo a conoscerla seguendo un vero e proprio cerimoniale di degradazione ancor prima di raggiungere il posto dove c’è il morto. Sintìva io, Frank LaBella, un’inimitabile e candida franchezza nell’anima che era preannuncio di morte, cominciavo già a essere scheggiato a fondo da ciò che mi attendeva. La vidi, dunque, subito, distesa nei pressi della porta di ingresso del negozio, sotto il neon bluastro gracchiante, ceduta di carne, alla vergogna della pioggia, con la faccia tra la paura e il martirio, dimagrita al centro come se degli avvoltoi si fossero calati più volte sui resti di una festa.
Il vuoto dello stomaco non è una cosa facile da simulare. Immaginarlo senza maschera, fuori dal gioco, senza turbare una coscienza sperta, con l’umiliazione definitiva del bucu nel posto da cui escono i figli, da cui io sono sorto. Cereali piccidduzzi a forma di lettere galleggiavano nelle interiora acquose di latte e venivano a galla tutte storte e contorte poiché annacquate. Mia madre era stata squartata solo dalla pancia. Mi toccai anche io la pancia, come se fossi stato devastato dalla sua stessa fame, per contemporanea consanguineità. Strinsi in tasca al massimo la mia forchettina a due punte da carne per ferirmi e per sentire il rumorino della carne del palmo che s’apre. Poi mi portai la mano ferita dietro il fianco e fissai il volto di mia madre che era bianco come il quadrante di un orologio. Mia madre era un palcoscenico per fiere e intrattenitori, una rappresentazione mitologica di idee più complesse che infestano sdunàte i nostri sogni. Aggiustai i suoi capelli rossi sparpagliati rimuovendole dagli occhi azzurrino di gas e spostai rimasugli di cereali dalla bocca rapùta per metà da dormiente stonato e senza imbarazzo la baciai per non farla finire dritta nello scorticatoio dell’aldilà senza il mio impulsivo amore. Guardai poi le mani che sciagurate e solenni erano spezzate e attorcigliate. Mi avevano, da piccolo, addormentato, nella nostra casetta roulotte all’ingresso della città, con la stessa prontezza di chi in dignitosa povertà culla un piezzu di pane. Allontanai, però, i pericoli incommensurabili dei ricordi, della debolezza insuperabile, per rinnegare uno scandalo che avrebbe avuto il rumore fragoroso della mia definitiva solitudine.
Orazio Labbate, classe 1985, ha pubblicato con Tunué, Italo Svevo Edizioni, Centauria, Giulio Perrone editore e ripubblicato la nuova edizione de Lo Scuru con Bompiani. E’ stato giurato al Premio Calvino e collabora come critico letterario con La Lettura – Corriere della Sera. E’ editor della collana Interzona di Polidoro.