La maledizione e la Gioconda

Iil santuario di Panagia Chozoviotissa
[Foto di Sebastiano Corti su Unsplash]

di Francesco Bertani

Durante l’agosto del 1911, un ladro entrò nel Louvre e rubò la Gioconda. Questo saggio narrativo esplora l’enigmatica figura dell’allora direttore del museo e rievoca un episodio della sua vita precedente, sospeso tra magia, archeologia e sospetti di contraffazione.

         La ragazza caricò le valigie sul tram giallo in partenza da Porta Palazzo e prima di sedersi accanto a un finestrino pensò ai baffi enormi di monsieur Théophile Homolle.
         Pensò a monsieur Homolle e lo immaginò nell’agosto del 1911. Lo immaginò nervoso, pallido nella vampa, il solo occhio buono appannato dalla nebbia, fermo dietro la porta, oltre la cui soglia poteva aspettarlo la rovina. Si chiese se già allora sentisse la mancanza dell’aria fresca sulla faccia e delle molte avventure della propria giovinezza, trascorsa a scavare reperti nelle isole dell’Egeo. Ma gli anni fin de siècle da archeologo di vaglia non erano che una memoria. Giusto il tempo di un lampo, ed ecco quell’agosto. Faceva forse molto caldo e monsieur Théophile Homolle – appena rientrato di corsa dalle vacanze estive – era il direttore del Louvre. Dall’altra parte della porta, c’era la stanza che ospitava la Gioconda. Dentro la stanza, nei giorni precedenti, s’era alternato un gran trambusto di politici e polizia. La Gioconda, dal suo canto, se n’era andata via. Le circostanze del furto, per il momento, risultavano ignote.
         Per l’arresto del ladro e la restituzione del quadro, si sarebbe dovuto attendere ancora un paio d’anni. Nel frattempo, la colpa del misfatto ricadde sulle spalle del direttore del Louvre, accusato di negligenza e di gestione approssimativa. Fu così che, da un giorno all’altro, monsieur Théophile Homolle divenne un bersaglio: le sfere del potere non sembravano disposte a riconoscergli crediti o attenuanti. Parecchi anni dopo quell’agosto, un importante storico avrebbe descritto Homolle come il capro espiatorio offerto dalla politica all’emozione delle masse: all’indomani del clamore suscitato dal colpo, occorreva guarire il trauma dell’opinione pubblica attraverso il sacrificio di un responsabile ideale. Colpito dalla scomunica della comunità parigina, monsieur Théophile Homolle fu costretto a ritirarsi. Si trattava della messa in scena di una maledizione collettiva. Nelle dinamiche del rito, l’innocenza della vittima era in fondo da sempre un fatto del tutto naturale.
         In tram lungo la notte serena e asciutta di Torino, la ragazza – che fin da piccola tendeva al ragionamento figurato – immaginava monsieur Théophile Homolle nei giorni successivi allo scandalo nei termini di un coriandolo in balia del temporale. Aitherion kinugma è un’espressione greca e vuol dire “ciondolo nell’aria”: come il Prometeo di Eschilo, sferzato dai venti di una punizione immeritata. La fronte appoggiata contro il gelo del finestrino, la ragazza si chiedeva come puoi tirare avanti, quando la trama della tua vita si smaglia: la giostra mostra la corda e all’improvviso non trovi più il tuo posto nel gioco. Pensò all’università lontana in cui per dieci anni aveva inseguito una carriera tra le pagine della letteratura greca. Rievocò il messaggio che la settimana precedente le aveva comunicato la rescissione del contratto di lavoro. E mentre la ragazza sentiva una biglia nella gola, il buio della notte abbracciava la città; i triangoli di luce disegnati dai lampioni parevano ritagli sul lato della carreggiata.
         Solo e appartato nella penombra del ritiro, monsieur Théophile Homolle prese a riempire i propri giorni coi fantasmi dei tempi in cui era stato più felice: i begli anni di scavo trascorsi tra Delo e Delfi, la lunga direzione – a cavallo tra i due secoli – della Scuola Francese d’Atene. Così qualcuno scrisse del suo lascito intellettuale:

molte sono le persone che a partire dalla sua eredità si impegneranno a perfezionarla. Senza dubbio, lamenteranno alcune lacune; alcuni segreti portati nella tomba. Ma questi rimpianti non varranno a sminuire l’omaggio dovuto alla grandezza d’un’opera che forse nessun altro avrebbe avuto l’audacia di tentare, né la gioia di portare a compimento. 1

         La Scuola Francese d’Atene era una prestigiosa istituzione accademica dalla bella sede nel cuore dell’Attica. Si occupava di dare impulso all’attività degli archeologi, agli studi di storia e di letteratura greca. Durante il proprio periodo da direttore della Scuola, monsieur Théophile Homolle aveva pubblicato numerosi articoli per comunicare le notizie degli scavi. Tra questi articoli, uno in particolare aveva sempre colpito la ragazza. La vita felice di monsieur Théophile Homolle e i segreti nella sua tomba le parevano accavallarsi tra le righe del pezzo all’interno di un intreccio dal tono complesso e misterioso. All’interno del contributo, Homolle pubblicava due antichi reperti scritti. Il titolo del pezzo era “Lamine di piombo con su iscritte maledizioni”.
         Per oltre mille anni, nel mondo greco e i suoi dintorni, se ti prendeva un attacco di febbre o venivi piantato in asso, se ti chiamavano in giudizio o ti rubavano il mantello; se perdevi un qualche affetto o il tuo commercio diceva male, allora potevi pensare che un rivale ti avesse lanciato il rito di maledizione noto come katadesmos. Una delle due lamine di piombo pubblicate da Théophile Homolle riportava il katadesmos scagliato da qualcuno un giorno contro un ladro e seduttore di nome Epafrodito.

    Signora Demetra, regina, io a te mi prostro, tuo supplice e tuo schiavo. Un certo Epafrodito ha adescato i miei schiavi; gli ha insegnato il male; li ha persuasi, consigliati e corrotti; ne ha goduto; li ha incitati ad andarsene in giro, li ha convinti a fuggire; ha incantato la ragazza per prendersela come sposa. Ha fatto tutto questo contro la mia volontà: per questa ragione lei se n’è scappata insieme a tutti gli altri.
    Signora Demetra, io soffro queste ingiustizie. Io, rimasto solo, mi rifugio nel tuo grembo. Fatti trovare benigna e fai che io trovi giustizia. Fai che il responsabile di questi mali che mi affliggono non trovi mai riposo, né fermo né in movimento, né nel corpo né nel cervello. Non ci siano per lui schiavi, né piccoli né grandi. Né, se inizia un’avventura, riesca a portarla a termine. La casa gli venga presa e trattenuta da un katadesmos. Né il bimbo gli vagisca. La sua tavola non sia lieta. Il cane non gli latri e il gallo non gli canti. Se semina, non raccolga […]. Né la terra né il mare gli portino alcun frutto. Che la sua testa non sia lieta e se ne vada alla malora, lui e insieme a lui tutto ciò che lo riguarda. 2

         La ragazza – che, come da una culla, ascoltava le ruote del tram giallo scivolare sui binari – amava un passo, in cui Platone parla di uno spirito magico che governa la regione sospesa tra la terra e il cielo. Secondo il filosofo, in questa regione di confine vivrebbero gli uomini demonici, ad esempio certi filosofi e i sacerdoti capaci di gettare ponti verticali e di costruire canali tra l’umano e il divino. Di alcuni tra questi sacerdoti, Platone diceva che erano “anime selvagge”: indovini itineranti al soldo di chiunque si mostrasse disposto a pagarli o desideroso di invitarli ai banchetti sacrificali. Per due monete d’argento, potevano imbastire ogni tipo di iniziazione, magari improvvisare una liturgia di purificazione oppure portare a termine il rito del katadesmos. Il più delle volte, questo rito avveniva di notte sulle tombe dei defunti. Prevedeva, tra l’altro, la recita di un canto e il sotterramento di una lettera di piombo. La lettera di piombo riportava le preghiere che i morti – spinti dalla forza degli indovini selvaggi – avrebbero dovuto consegnare alle divinità invocate, perché queste le trasformassero in fenomeni reali.
         Il katadesmos pubblicato da Théophile Homolle proveniva da Amorgos: un’isola di roccia bianca a pochi passi dalla costa turca, sospesa nel blu di un mare grande e silenzioso. La ragazza conosceva bene le atmosfere surreali dei sentieri deserti che percorrono Amorgos. Sull’isola, alcuni anni addietro, aveva infatti svolto una spedizione di ricerca per indagare i riti della magia antica. Durante un pomeriggio, mentre si arrampicava sul dorso di una salita, le voci del passato l’avevano raggiunta e lei si era dovuta stringere nella felpa per non tremare. Erano le voci degli incantesimi dell’isola, che la ragazza aveva studiato per prepararsi alla missione. Dietro ogni incantesimo si nascondeva una storia e a monte di ogni storia si trovava una sventura. Nell’aria, le sembrava risuonare ancora la paura che secoli prima aveva dettato l’esorcismo per scacciare Gello: lo spietato demone delle morti nella culla – “io ho una mano di ferro e strappo i bimbi via dal letto” – rinvenuto in un manoscritto del santuario di Panagia Chozoviotissa.
         Nel giugno del 1899, era stato un sacerdote ortodosso che – dopo aver scoperto il katadesmos di Epafrodito – ne aveva comunicato il testo a monsieur Théophile Homolle. D’altra parte, alla Scuola Francese il sacerdote era legato da un’amicizia ben consolidata. Dalla seconda metà dell’Ottocento, moltissimi archeologi d’oltralpe passati per Amorgos si erano detti beneficiati dalla sua “instancabile devozione”; alcuni di loro lo avevano descritto nei propri rendiconti restituendo un ritratto a tinte forti e variegate. Tombarolo, erudito padre spirituale, collezionista, il più onesto tra gli uomini, furfante e commerciante seduto sui pioli inferiori della scala antiquaria 3. Numerosi erano i toni che componevano il ritratto di una presenza che alla ragazza pareva quella di un enigma. Su internet, aveva ritrovato una foto ingiallita dal tempo. Nella foto, il sacerdote ammiccava con aria intelligente: una lunga barba bianca gli incorniciava lo sguardo, che nonostante il bianco e nero sembrava richiamare il cielo 4.
         Insieme al testo della maledizione, il sacerdote aveva inviato anche la trascrizione di un amuleto protettivo. In effetti, aveva considerato la ragazza, molti indizi indicavano che le “anime selvagge” responsabili dei riti esecratori vendessero pure rimedi per scacciare tutti i mali. Come per le maledizioni, anche in questo caso il rito imponeva spesso l’incisione di una preghiera sopra un foglio di metallo. Il foglio di metallo finiva poi in qualche tasca oppure portato al collo come un talismano della fortuna. Non di rado, per esorcizzare i mali, erano necessari veri e propri abracadabra. E i pericoli in agguato prendevano la forma di demoni o animali. “Aski kataski kataski, aasia endasia” era per esempio un incantesimo cretese, che poi andava avanti:

Epafo, Epafo, Epafo, e insieme vattene, vattene lupa! Vattene cane […]. Ala di falco, volo di colomba […], leocorno di chimera, unghia di leone, e poi anche lingua nella mascella di un leodrago. Non mi colpisca con un veleno […] né con una maledizione […] il distruttore di tutte le cose 5.

         Certo, trovare in un solo colpo unesorcismo e un katadesmos,per giunta appartenenti – su questo non c’erano dubbi – ad epoche differenti, era stata per il sacerdote una bella fortuna. Ma la fortuna maggiore era toccata a monsieur Homolle, che nel 1901 poté mettere insieme un articolo importante su un argomento che di recente era venuto all’ordine del giorno.
         Soltanto pochi anni prima, nel 1897, un giovane di punta dell’accademia tedesca aveva dato alle stampe la prima grande raccolta di maledizioni rituali. Fin da subito, l’argomento aveva alimentato un certo scandalo. Nella Grecia antica, si andava spesso alla ricerca di nobili radici per la cultura occidentale: pensarla contaminata da superstizioni magiche gettava ombre inquietanti su un mondo che si voleva immacolato. Ma da vero filelleno, monsieur Théophile Homolle non aveva certo paura del folklore. Tanto più che il katadesmos capitatogli tra le mani era forse il più lungo, il meglio leggibile, il più denso e romanzesco tra tutti quelli fino ad allora pubblicati. E sebbene di lì a poco qualcuno avrebbe messo in discussione il rigore delle trascrizioni effettuate dal sacerdote, la maledizione di Epafrodito ottenne senz’altro nei decenni il successo in cui spera qualsiasi editore.
         Quando la ragazza aveva iniziato il proprio dottorato di ricerca, il testo di Epafrodito rappresentava una vera pietra miliare. Tuttavia, quasi dal niente, si era aperto di recente un nuovo dibattito sull’autenticità della maledizione. Il fatto che nessuno – nemmeno monsieur Homolle – avesse, ad ogni buon conto, mai visto il documento; il fatto che nessun archivio sembrasse portare traccia delle lettere che monsieur Homolle dichiarava inviate dal sacerdote; il fatto che il testo del katadesmos ricordasse da vicino quello di alcune maledizioni già pubblicate dal giovane di punta dell’accademia tedesca; l’eco un po’ troppo forte di un famoso passo della letteratura e poi ancora qualche altra sbavatura… si era arrivati a sospettare che tutta quanta la faccenda non fosse che una messa in scena architettata da monsieur Théophile Homolle 6.
         La ragazza scaricò le valigie dal tram giallo che ripartiva lento per proseguire la propria corsa nell’ombra densa del viale. C’era un odore dolce che risaliva dal fiume giù in basso; alle spalle della ragazza, in un campo da calcetto, alcune giubbe catarifrangenti raccoglievano la luna. Come ai guerrieri greci partiti alla volta di Ilio, per rivedere casa le ci erano voluti dieci anni. Sulla soglia del rientro, le domande della ragazza non erano diverse da quelle degli eroi: “come troverò i miei genitori?”; “la cuccia del cane sarà ancora sotto il pergolato?”. Sentiva un movimento che le scuoteva il petto. Chiuse gli occhi e decise di prendersi ancora un po’ di tempo. Si avvicinò a un semaforo per attraversare la strada.
Poteva sembrare strano, ma nemmeno in quel momento la ragazza smetteva di pensare ai baffi di Théophile Homolle. Pensava alla simmetria barocca di una messa in scena allo specchio: quella architettata con ingegno dal direttore che avrebbe allestito il rinvenimento di una preziosa maledizione; quella celebrata dall’opinione pubblica che aveva sacrificato il direttore attraverso i meccanismi di una maledizione collettiva. Ma poi la ragazza aggrottò la fronte e scompose questo quadro. Gli argomenti chiamati a provare la falsità dell’artefatto non erano in fondo mai riusciti a convincerla del tutto. Alla fine, come sempre, la questione restava in dubbio. E lei si sentiva stanca delle trame che vanno a perdersi nel vuoto. Della storia raccontata dalla maledizione di Epafrodito, le piaceva un personaggio che nel testo restava quasi nascosto: la ragazza scappata di casa per seguire il proprio cuore incantato. Per molti versi, quelle righe della maledizione le ricordavano il brano di un’opera che a un certo punto parla di Elena in fuga dal marito Menelao. Secondo una versione del mito, Elena ad Ilio non ci sarebbe mai finita – sostituita nell’immagine da un aitherion eidolon: un pupazzo fatto di nubi.
Davanti al semaforo rosso, la ragazza pensò alla propria storia: così come era capitato a lei, la maggiore impresa degli achei si era rivelata l’inseguimento di un’immagine dell’aria. Smascherato l’inganno, si trattava di ricominciare.
La luce si fece verde. La ragazza attraversò la strada, si appoggiò al parapetto e alzò lo sguardo verso il cielo. Scintillante e sospesa nel velo duro della volta, la basilica di Superga sembrava un ciondolo nell’aria. In greco aitherion kinugma si dice delle cose che sono distanti e inafferrabili: proprio come Prometeo, o monsieur Théophile Homolle.

Nota biografica
Classe 1992, Francesco Bertani vive tra Parma e Bologna. Insegna lettere a scuola e si interessa di pianure, responsi oracolari e cultura popolare. Ha pubblicato un libro intitolato Poesia degli indovini selvaggi (Franz Steiner Verlag) sui rituali di maledizione magica nell’antica Grecia e diversi articoli a proposito di miti antichi (Pàtron editore), di antiche leggi sacre (Holzhausen Verlag), di antichi abracadabra (Fabrizio Serra) e di falsari (edizioni Dedalo). Di recente ha registrato il podcast Atlante del labirinto sulla storia della magia greca, disponibile su Spotify.

NOTE
  1. La citazione sul lascito intellettuale di Théophile Homolle proviene dall’elogio funebre pubblicato da G.A.F. Fougères: Théophile Homolle, «Monuments et mémoires de la Fondation Eugène Piot» 28/1 (1925), pp. 3-30.
  2. La maledizione di Epafrodito proviene dall’articolo di Théophile Homolle: Inscriptions d’Amorgos: lames de plomb portant des imprecations, «Bullétin de Correspondance Hellénique» 25 (1901), pp. 412-456. La traduzione in italiano è di F. Bertani.
  3. Per il più recente ritratto del sacerdote ortodosso che nel 1899 avrebbe inviato il testo del katadesmos a Théophile Homolle si rimanda a Y. Galanakis: Early prehistoric research on Amorgos and the beginnings of Cycladic archaeology, «American Journal of Archaeology» 117/2 (2013), pp. 181-205.
  4. La fotografia del sacerdote ortodosso si trova sul periodico ΤΟ ΚΑΣΤΡΟ ΤΗΣ ΑΜΟΡΓΟΥ 49 (2020), p. 24. https://dimos.amorgos.gr/wp-content/uploads/2020/06/Σε-ψηφιακή-μορφή-το-Κάστρο-της-Αμοργού.pdf
  5. Per il testo originale dell’incantesimo cretese, si rimanda a C.A. Faraone-D. Obbink, The Getty Hexameters: Poetry, Magic, and Mystery in An­cient Selinous, Oxford 2013, pp. 185-187. La traduzione in italiano è di F. Bertani.
  6. Alcuni dubbi sull’autenticità del documento pubblicato da Théophile Homolle vengono sollevati in F. Bertani, A forged curse text from Amorgos?, «Quaderni di Storia» 95 (2022), pp. 145-178.

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