➨ AzioneAtzeni – Discanto Settimo: Bastiana Madau



«Mia madre pregava, ma mio padre ripeteva

spesso la frase di un anarchico russo

“ Il lavoro è la nostra preghiera”…»

 

da Il figlio di Bakunìn di Sergio Atzeni

 

Ritorno a Nascar
di
Bastiana Madau

A Nascar, nelle notti d’autunno, si sentono le case che parlano. Dicono i nomi di chi le ha lasciate. Quando Mimìa e Rosario Moro camminano per il paese, sembrano ombre uscite da un tempo senza orologi, ma i loro occhi brillano ancora come brace sotto la cenere. Anche se nessuno torna, anche se la voce dei figli è solo un’eco al telefono, loro restano. Perché qualcuno deve tenere il fuoco acceso. Qualcuno deve ricordare il nome delle pietre. Qualcuno deve parlare con le ossa degli alberi che scricchiolano e che a Nascar si odono bene, in mezzo a tutto quel silenzio che avvolge le case, le cose, le strade, il tempo.            
Il tempo è silenzioso, a Nascar, come la nebbia di novembre, che entra nei cortili senza bussare. Una nebbia che non passa e si attacca ovunque. Ai vicoli e al loro labirinto. Alle pietre e agli anfratti che forma il vento. Ai vetri e alle macchie della ruggine lasciate dal lavorìo della sottile pioggia d’autunno. Alla voce dei vecchi, che non chiamano più nessuno, ma parlano ancora con i vivi lontani e con i morti. Confondendo, a volte, gli uni con gli altri.
Mimìa e Rosario Moro vivono nella grande casa, costruita per essere piena, e invece è ogni giorno più vuota. Le scale, che un tempo cantavano con i piedi dei figli, salendole e scendendole come capre allegre, ora gemono sotto i passi lenti dei due vecchi coniugi.
I figli sono partiti uno alla volta, come i passeri quando il vento cambia.
Prima Ruggero, che sognava di aggiustare le cose rotte nel mondo. Poi Caterina detta Cate, che voleva ballare, e ora insegna danza in una grande città, ma non ha più gambe di cerva giovane alla fonte; ha ginocchia dolenti e nostalgia negli occhi. Infine Mariano, il più piccolo, che non voleva andarsene ma se n’è andato lo stesso, con una donna dagli occhi blu e la lingua del Continente.
Mimìa ha ancora il loro respiro nelle orecchie. A volte li chiama piano, come si chiama un sogno prima del sonno. A volte li maledice piano, come si maledice il vento che porta via la terra buona.
Rosario no. Lui non maledice mai. Parla poco. Parla col fico, col pozzo, con i crisantemi dell’orto, con la sedia che cigola. La sera beve un bicchiere di vino e guarda la finestra chiusa. A volte apre un libro. Poi lo chiude e si guarda intorno.
– Non torna nessuno.
E lo dice come se lo sapesse da sempre, come se fosse scritto nel fumo del camino, davanti a cui talvolta si ferma a leggere i poeti nella sua lingua o in quella del Continente. «Gli immortali conoscono la strada della cappa del camino», legge. E sorride. Gli immortali sono vivi, pensa. Forse torneranno.
 
A volte, di notte, Mimìa si alza e apre la porta. Guarda fuori, verso la valle grande, verso il mondo che ha inghiottito i suoi figli.
Rosario Moro la guarda in silenzio.
– Li hai visti?
– No – dice lei. – Ma li ho sentiti. Passavano nel vento che viene da oriente.
E lui annuisce, come si annuisce alla pioggia che piega le querce.
Una volta all’anno, forse due, arrivano le telefonate. Le voci sono lontane, gonfie d’ansia e di fretta.
– Come stai, ma’?
– Tutto bene, babbo?
E loro rispondono sempre sì, tutto bene, anche se il tetto perde, se le dita delle mani sono sempre più rigide e dolenti, se la notte il cuore fa rumore.
 
Passano gli inverni. Rosario si alza ancora alle prime luci dell’alba con il freddo, prima del sole, prima del pensiero. Va in cucina, accende il fuoco. Non perché abbia freddo. Ma perché accendere il fuoco è una preghiera. Ed è un modo per dire: siamo ancora qui.
Lei resta a letto un poco di più, e come sempre ascolta i rumori: il cane che sbatte la coda sulla porta, il gallo del vicino che canta sempre in ritardo, il clic del fiammifero, il rumore dell’acqua, il gatto che salta dal tavolo quando Rosario vi poggia il pentolino con il latte caldo.
Poi scende le scale, come sempre lenta, con la dignità di una regina. E inizia il suo lavoro. Perché il lavoro è una preghiera. Lavare i piatti, pelare le patate, piegare la coperta: tutto è un modo per dire sì alla vita, anche se la vita è stanca.
Qualche volta Mimìa e Rosario Moro litigano per i fiori dell’orto. Lui sostiene che il crisantemo sia il fiore più bello del mondo ma lei insiste a coltivare soltanto le rose antiche e a portarle a casa insieme a qualche orchidea selvatica, che raccoglie sul ciglio del sentiero, al ritorno.
– I crisantemi portali in cimitero –, dice al marito.
– Vedi che per i giapponesi sono questi i fiori della vita.
– Ma noi non siamo giapponesi –, tronca in corto lei.
 
Litigano solo per i fiori.

Un giorno d’agosto, l’auto tossisce polvere davanti al cancello di Rosario e Mimìa.
Scende una donna ancora giovane, con una valigia mezza vuota. Rosario la fa entrare. Mimìa la riconosce dal modo in cui stringe le spalle: come faceva da bambina quando aveva paura.
Cate non dice perché è tornata. E loro, al solito, non fanno domande.
La casa ricomincia a respirare piano, con tre cuori lenti e un silenzio diverso, non più vuoto ma in attesa.
Fu dopo Capidanne, quando l’aria sa di mosto e promessa, che Caterina disse:
– Voglio imparare a fare il pane di Gonare.
Mimìa la guardò.
– Adesso, Cate?
– Adesso, è l’unico tempo che abbiamo.

Il pane rituale, quello per la festa di Nostra Signora di Gonare, non è un pane qualunque. Ha la forma delle sirene che un tempo cantavano tra le rocce, prima che giungesse su quel luogo il capitano Gonario di Torres, che nel pieno dei travolgenti flutti del mare di Orosei, quando un fulmine squarciò il cielo illuminando la cima di una piramide blu, promise alla Madonna che se si fosse salvato dalla burrasca sarebbe andato sin lassù per costruirvi una piccola chiesa bruna. Prima ancora, sì. Prima dei pellegrini che per devozione si inerpicano sul sentiero roccioso con le ginocchia nude. Prima di ogni cosa, c’erano le sirene e il loro canto.
Fu Tzia Annesa, l’ultima donna che sapeva fare il mistico cibo, a insegnare a Mimìa che il pane di Gonare non è solo farina e cibo. È forma. È gesto. È memoria. È fede.
– Fede in chi? – ha chiesto Mimìa.
– In chi resta a vivere in questi luoghi.
 
Caterina era tornata a Nascar spinta dai suoi fantasmi, che le erano rimasti sempre accanto, nonostante la lontananza dalla terra che li aveva generati. Guardarli in faccia avrebbe fatto meno paura, pensava. Li avrebbe addomesticati. Ora saliva con circospezione le scale della sua grande casa, meravigliandosi del proprio stupore. Sentiva la suggestione del tempo raccolto, ma dilatato dal silenzio della casa, mentre i pensieri fluivano piano e calmi. Respirava l’aria gelida delle stanze. Tra quelle pareti i pochi oggetti evocavano ricordi, scavavano cunicoli, trovavano acque carsiche. Squarci. Quando sentì arrivare l’antica vertigine, aprì con forza la grande finestra del terzo piano. Da lì poteva abbracciare con lo sguardo l’intero borgo di Nascar, esclusa la parte a ovest, con la collina sventrata dalle cave di steatite. E da lassù vedeva correre il labirinto dei vicoli, e i tetti e i campanili di tredici chiese. Al limite del borgo si alzavano le pareti delle colline che avevano linee come grandi rilievi caucasici. Ombre e sassi, erba e cielo. La poesia assorbita nelle infanzie.
C’è qualcosa di misterioso nell’amore per la propria terra che non va rivelato. Una piccola fiamma che bisogna riparare con cura, dal vento che arriva da ogni dove.
 
Ora Cate ha sistemato le sue poche cose nella stanza che un tempo aveva il sole del pomeriggio. Parla poco. Percorre gli ambienti domestici, sale e scende le scale con lentezza, come se ascoltasse. Una notte chiama sua madre nella sua stanza e le dice:
– Mamma, io ricordo. Qui arrivavano le voci delle sirene dal Monte Gonare. Le sentivo da piccola.
Mimìa tacque, ma sapeva bene. Le sirene di Gonare cantavano nei sogni dei suoi bambini. E quando smisero qualcosa si spezzò.
Fu proprio alla luce di quel ricordo – il canto delle sirene, il pane votivo, la festa di settembre – che Mimìa cominciò ad esercitarsi a muovere piano i polsi – prima in un senso, poi nell’altro –, e le dita delle mani, in una sorta di auto fisioterapia domestica.
Aveva settantanove anni, le dita gonfie, la vista che sfumava come un disegno lasciato sotto la pioggia. Ma voleva farlo. Per Cate ritornata. Per le sirene. Perché c’è un punto nella vecchiaia in cui si impara di nuovo come una bambina.

Il pane di Annesa, l’ultima che sapeva. Il pane rituale per la festa del Monte Gonare. Non un pane qualunque. Pane con la forma del fiore del vento che muove le querce. Pane con le code delle sirene. Pane col sole inciso al centro, come un occhio che guarda il passato.
Chiamò sua figlia per impastare all’alba, quando il mondo tace e le ombre sono piccole. Cate la guardava senza dire nulla. Poi, le si mise accanto e disse:
– Le sirene canteranno anche per te.
Mimìa sorrise, con le mani colme di farina e gli occhi pieni di acqua vecchia.
– No – disse. – Canteranno per chi ha il cuore rotto e la voglia di tornare.

Il giorno dopo portarono il pane al santuario del Monte Gonare. Mimìa, Cate e Rosario Moro, in silenzio. Il cammino era lungo e pietroso, ma non pesava. Ogni passo sapeva di terra, di fede, di poesia.
Arrivati in cima, le campane suonavano piano. E qualcuno giurò di sentire un canto, tra i rami, tra le rocce.
Un canto di donna.
Un canto d’acqua.
Cate chiuse gli occhi.
Rosario le prese il braccio.
Mimìa lasciò il pane sull’altare come si lascia un figlio che parte.
 
Dicono che da quel giorno le sirene del Monte tornarono a cantare.
Non forti. Non per tutti. Solo per chi sa ascoltare.
E Mimìa, quando si siede al sole con le mani vuote, dice ancora:
– Non tornano tutti.
Ma poi guarda Cate, che impasta piano, e aggiunge:
– Ma a volte una sola basta per far tornare anche gli altri. Perché anche se il mondo è lontano, anche se le case si svuotano come conchiglie, qualcosa resiste.
Il canto.
Il pane.
Le mani che ricordano.
E le ossa degli alberi, che scricchiolano piano per non disturbare gli altri ritorni.

 


   

* Azione Atzeni- mode d’emploi

di

Gigliola Sulis e Francesco Forlani

‘E scoprirai quello che resta di un uomo, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui’. Sergio Atzeni, Il figlio di Bakunìn Il 6 settembre del 1995, inghiottito dal mare come l’amato Fleba il Fenicio, Sergio Atzeni perdeva la vita nelle acque dell’isola di Carloforte. Sardo, appena quarantenne, era stato militante comunista, anarchico leader studentesco, impiegato insoddisfatto, sindacalista, pubblicista. Dopo la fuga dall’isola, tra l’Emilia e Torino, divenne correttore di bozze, lettore di manoscritti per case editrici, sontuoso traduttore – un testo su tutti: Texaco di Patrick Chamoiseau. Per tutta la vita fu intellettuale rigoroso, poeta e scrittore immaginifico, autore di romanzi-mondo come Apologo del giudice bandito, Il figlio di Bakunìn, Il quinto passo è l’addio, Passavamo sulla terra leggeri, e di una cascata di racconti tra cui Il demonio è cane bianco, I sogni della città bianca, e Bellas mariposas. Come nel Figlio di Bakunìn, pensando oggi a Sergio, ci chiediamo: che cosa resta di uno scrittore, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui? Per rispondere a questa domanda, abbiamo invitato degli autori legati all’opera di Atzeni a dare nuova vita ai personaggi o ai luoghi o alle atmosfere della sua opera. Interpretando, riscrivendo, stravolgendo creativamente, in totale libertà. Un coro di voci diverse per una raccolta di racconti brevi, una rifrazione e moltiplicazione di frammenti post-atzeniani. Assolutamente vietata l’agiografia, e ‘massima penalità per chi si prende troppo sul serio’, come scriveva Sergio in uno dei suoi ultimi articoli per “L’ Unione Sarda”. Nasce così il gioco del discanto*, da intendere sia come far decantare delle buone pagine in nuove storie sia come costruzione di voci in forma di polifonia medievale.

* Francesco Forlani ‘Nella Sardegna magica in cerca di Sergio Atzeni, “Reportage”, n.10, 2012, ripreso nel 2017 da Minima Moralia

Gigliola Sulis, Chi era Sergio Atzeni?’, “Le parole e le cose”, 22 novembre 2012

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1 commento

  1. Straordinario racconto mia cara Bastiana. Letto e ascoltato con la devozione che si ha nei confronti delle parole di una madre in attesa. Struggenti le parole che suonano come una nenia antica ma ancora in grado di scaldare il cuore e far esondare dagli occhi lacrime benefiche.

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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