Una repulsione per l’origine. Storia e critica di un’eredità in Bärfuss
di Alice Pisu

Con Il cartone di mio padre (trad. Margherita Carbonaro, L’orma), Lukas Bärfuss porta avanti un’indagine sulla demitizzazione dell’esistenza attraverso la solennità della morte iniziata con uno studio storico, filosofico e letterario sul suicidio in Koala (trad. Margherita Carbonaro, L’orma).
Lo scrittore si interroga sulla contaminazione del ricordo in relazione a un trauma che condensa il tempo anteriore in un istante tramutato in un’ossessione ricorrente. A invadere il quotidiano è l’emblema di un lascito ideale, un cartone rimasto chiuso per venticinque anni che Bärfuss decide finalmente di aprire, non sopportando oltre quella presenza muta. “Era l’unica testimonianza di un uomo del quale si diceva fosse stato mio padre”.
Lungi dal porsi come memoir o biografia paterna, l’opera è uno studio sul ruolo dei vincoli famigliari nella definizione e nella crescita dell’individuo, nei condizionamenti e nell’idea di appartenenza. Interrogativi suscitati da una storia privata ripercorsa in parte da Bärfuss, dalla notizia della morte del padre giunta via fax quando si trovava in Camerun, al disinteresse dei parenti nel pensare a un funerale, alla perdita dell’urna sino all’assenza della tomba.
La storia di suo padre è un racconto dal margine, una vita di espedienti sancita nell’ultimo periodo dalle notti all’addiaccio. Si tratta di una condizione ben nota all’autore che a sua volta visse per strada sperimentando per un periodo della sua vita la sensazione di minaccia perenne, di assenza di rete sociale e di impassibilità generale, fino al momento in cui trovò un modo, diventando un libraio, per provare a sfuggire al suo destino.
“Mi reputavo fortunato perché con la letteratura avevo trovato qualcosa che non avrei mai esaurito”.
Nell’aprire il cartone di suo padre trovò pile di solleciti di pagamento e documenti emessi da tribunali distrettuali e fallimentari: tentativi di arrancare tra debiti insolvibili.
“Conoscevo i calcoli approssimativi annotati con disperazione sui bloc-notes, le liste della spesa con a fianco i soldi disponibili per la settimana, così da non farsi traviare dalle offerte e attenersi a una rigorosa dieta di patate, pasta e carne in scatola”.
Nel partire dalla fine, Bärfuss rievoca il ruolo della casa come luogo dove nascondere la propria miseria; il principio dominante della famiglia – “Dove regna la mancanza di tutto, la prima virtù è l’improvvisazione” –; l’assenza di una figura paterna autorevole; la necessità maturata negli anni di allontanarsi dalla madre per sottrarsi al suo influsso; il sentore di disgrazia imminente simboleggiato dalla cassetta delle lettere considerata il cancello per l’inferno viste le numerose ingiunzioni ricevute.
La domanda che aleggia tra le pagine riguarda la natura dell’essere umano, la capacità dell’individuo di vivere nel momento e al contempo di astrarsi anche da sé, dal mondo che abita, dal suo pensiero, e dalla sua lingua: proprio grazie a tale capacità l’essere umano costruisce la propria cultura.
Il grande nodo riguarda la lingua, utilizzata troppo spesso per definire l’origine. Questo aspetto centrale dell’opera è sviluppato sotto angolazioni diverse, nella consapevolezza che non esista alcuna “eredità spirituale che non possa essere rifiutata. Al contrario di quella biologica, ogni origine culturale è una scelta”.
Si rivela necessaria in tale prospettiva una nuova grammatica per descrivere la famiglia e l’origine e in questo senso si può cogliere un’ideale affinità con gli assunti di Judith Butler in merito alla concezione del linguaggio come condizione di possibilità dell’esistere degli individui, gettati nel linguaggio e quindi inesorabilmente superati da esso.
Su una nuova narrazione della famiglia e sul significato dei vincoli verso i genitori, la scrittura della storia personale è vista da Bärfuss come un’opportunità per rintracciare un senso alla casualità della nascita. Il cartone di suo padre diventa così il simbolo di una repulsione per l’origine e per l’ossessione di volersi definire attraverso i propri antenati.
“Raccontare significava innanzitutto sottoporsi a una trasformazione. Avrebbe potuto salvare o distruggere, e non c’era garanzia né per l’una né per l’altra opzione”.
A partire da ingrandimenti su una vicenda privata l’autore si chiede per estensione quale idea della famiglia abbia la società e per farlo sviluppa riflessioni sulla proprietà, sulla correlazione tra bancarotta privata e decesso sociale, riservando una particolare attenzione al diritto ereditario e al nesso tra l’indebitamento privato e il benessere occidentale secondo un’idea di libertà degli esseri umani subordinata a vincoli economici.
Per raccontare la storia della società borghese, della società industriale di massa, sarebbe sufficiente, secondo Bärfuss, partire dai suoi rifiuti. Si tratta di un aspetto esplorato in letteratura con approcci radicalmente diversi tra gli altri da Baudelaire, Benjamin, Dickens, Mayhew, sino ad arrivare oggi, come ricorda Donata Meneghelli nel saggio Il valore degli oggetti (nottetempo), a coniare il neologismo ‘spazzaturocene’ (Baptiste Monsaingeon, Homo detritus. Critica della società dei rifiuti) per definire l’epoca contemporanea a partire dal suo rapporto con gli scarti per l’incremento della loro produzione, i ritmi frenetici di consumo e dismissione delle merci, la crisi ecologica, le scorie industriali nocive e il loro smaltimento improprio, e la centralità assunta dal residuo anche nelle arti.
Per Bärfuss si tratta di un’eredità senza eredi, di un bene senza padrone che opprime la civiltà e necessita di una regolamentazione nuova perché quelle che governano la proprietà, l’eredità e la famiglia si rivelano incapaci di cogliere la realtà attuale e affossano la cultura contemporanea. Al centro della riflessione risuona una responsabilità riconosciuta nel problema del possesso e del controllo.
L’autore dedica un’ampia critica a L’origine della specie di Charles Darwin ritenendo che il teologo abbia trasferito il dominio cristiano nel dominio dell’evoluzione.
“Il darwinismo sociale è incompatibile con i presupposti di una società democratica fondata su uno stato di diritto, che crede all’inalienabilità dei diritti umani. […] L’origine della specie è un racconto scritto in un’epoca, l’Ottocento, ossessionata da una particolare narrazione delle origini. Questa segue una parabola di ascesa, lotta e infine declino, e descrive la vita stessa come una battaglia, un conflitto di forze, istinti, pulsioni”.
Ritenendola fuorviante e patriarcale, Bärfuss denuncia la definizione espressa da Claude Lévi-Strauss nell’introduzione a Storia della famiglia. L’antropologo sociale parla della doppia natura della famiglia come fondata non solo su necessità biologiche ma soggetta a costrizioni sociali nella convinzione che nessuna società potrebbe esistere se le donne non partorissero una prole e non godessero di una protezione maschile durante la gravidanza e la crescita dei figli.
“Gli esseri viventi hanno bisogno di cura, di coesione, di affidabilità, di fedeltà, di amicizia e di amore. Ma l’etnologo fa di questa necessità un sistema patriarcale e ne deduce un dominio”, scrive Bärfuss, convinto che oggi la famiglia abbia perso forza coesiva e continui a “scavare profondi fossati nella società”.
Con Il cartone di mio padre Lukas Bärfuss consegna un’acuta riflessione sull’origine, sulla proprietà, sul peso dei vincoli biologici, sul privilegio e la genealogia, invocando la possibilità di contemplare un altro tipo di eredità emancipandosi da dinamiche oppressive e narrazioni che nei secoli hanno contribuito a una distorsione di significato. E se, come sostiene Byung-Chul Han ne Le non cose, esistono oggetti capaci di ancorarci all’essere, un cartone rimasto chiuso per decenni può rappresentare la rivendicazione di un’origine rimasta incerta e la possibilità di gioirne.

Interessantissimo, grazie!