L’Europa davanti alla sua frattura

di Martina Mattia
Nell’Europa che implode nel culto del tempo misurabile, esiste un luogo in cui l’orologio si arresta: il Sud Italia, e in particolare la Basilicata, la più remota, la più spopolata, la più dimenticata delle regioni meridionali. Qui l’atemporalità raggiunge la sua forma estrema.
Tra le notizie recenti, ricorre quella del continuo spopolamento dei borghi lucani. Ma i villaggi abbandonati non andrebbero letti come rovine: sono soglie, luoghi in cui il tempo non progredisce, si frattura. Non a caso Carlo Levi descrive la Basilicata come un altro mondo, “serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato”.
Mentre il Nord corre verso il futuro, come progresso cieco, il Sud custodisce una forma altra di coscienza: un deposito invisibile, una riserva metafisica. La Basilicata non è soltanto il margine dimenticato della modernità, ma la sua ferita più eloquente.
In questo senso, Cristo si è fermato a Eboli non è soltanto il racconto di un Sud abbandonato: è la diagnosi di una frattura epistemica. Levi vi riconosce un mondo sospeso fuori dal tempo storico, in cui i contadini vivono nell’alienazione non solo dallo Stato, ma dalla Storia stessa. Sono i vinti: per loro le guerre, i governi e le disfatte nazionali sono calamità naturali, inevitabili come la malaria o la siccità, appartengono a un unico orizzonte di sventura naturale, inevitabile.
Durante il fascismo, racconta Levi, “le fanfare ottimistiche della radio” provenivano da un’altra Italia, “che aveva dimenticato la morte, al punto da evocarla per scherzo, con la leggerezza di chi non ci crede”. In Lucania, invece, il dolore non è colpa né peccato, ma una condizione terrestre, inscritta nelle cose. Qui “Cristo non è disceso”, scrive Levi: “Cristo è sceso nell’inferno sotterraneo del moralismo ebraico per romperne le porte nel tempo e sigillarle nell’eternità. Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, Cristo si è fermato a Eboli”.
Non è giunta la Storia, e dunque non è giunta la redenzione. Il messianesimo, qui, non è potuto arrivare: come può il futuro messianico irrompere in un luogo che vive fuori dal tempo stesso? Non c’è Storia, non c’è passato, e quindi nemmeno futuro. Eppure, proprio questa sospensione risuona sorprendentemente con le riflessioni di Walter Benjamin.
Nelle Tesi sul concetto di storia, Benjamin smonta la fede moderna nel progresso e descrive la crisi del tempo lineare attraverso il concetto di Jetztzeit: una scintilla del passato che irrompe nella catena della storia, spezzandone la continuità e rivelando, per un istante, un senso nascosto e salvifico. Anche Levi, osservando i contadini lucani, riconosce un tempo sottratto alla marcia trionfale della modernità. Ma ciò che in lui resta esclusione – una terra senza redenzione – in Benjamin diventa promessa, apertura, possibilità di riscatto.
Levi osserva che per i contadini il futuro stesso è un’utopia: “le eterne nebbie del crai”, dice, riferendosi al modo in cui i lucani parlano del domani – crai, domani, che è domani e sempre. Benjamin direbbe che qui agisce la storiografia dei vincitori: la Storia scritta dal potere che domina persino l’immaginazione dei vinti. “La tradizione degli oppressi ci insegna”, scrive Benjamin (Tesi VIII), “che lo stato di emergenza in cui viviamo è la regola.”
Il progresso moderno – la narrazione dei vincitori – accumula solo rovine. È la visione dell’Angelus Novus: dove noi vediamo una catena di eventi, l’angelo della Storia vede “una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine”.
L’unica via d’uscita è, per Benjamin, una nuova concezione della storia: non più una cronologia che avanza, ma una costellazione in cui il passato si accende nel presente. Il messianesimo, per lui, non è un evento futuro, ma una possibilità sempre imminente. “Ogni secondo”, scrive, “è la piccola porta attraverso la quale può entrare il Messia.”
Benjamin rielabora in chiave filosofica e politica il messianismo ebraico: l’attesa di redenzione non è un evento futuro garantito, ma una possibilità sempre presente, che può irrompere in ogni istante. Non si tratta di attendere passivamente, ma di agire nel presente, cogliendo le scintille di redenzione e liberando i vinti dal silenzio imposto dai vincitori.
Il Jetztzeit – letteralmente “adesso-tempo” – è quell’istante denso e qualitativo che interrompe la linearità, un lampo in cui passato e presente si connettono. Non è semplice memoria, ma un atto politico e messianico: riscattare il passato dei vinti, sottraendolo all’oblio. “Articolare storicamente il passato”, afferma Benjamin, “non significa conoscerlo ‘come è stato’, ma impadronirsi di un ricordo così come balena nell’istante del pericolo.”
In questa luce, la Basilicata appare il terreno più fertile perché avvenga il Jetztzeit: un luogo in cui il passato non è trascorso, ma ancora presente nella sofferenza, nei gesti, nelle tradizioni. Levi lo intuisce quando scrive: “La loro vita, nelle identiche forme di oggi, si svolgeva uguale nei tempi più remoti, e tutta la storia era passata su di loro senza toccarli. […] Si dovrebbe scrivere una storia di questa Italia, se è possibile scrivere una storia di ciò che non si svolge nel tempo: la sola storia di quello che è eterno e immutabile, una mitologia.” Ecco, in queste righe, il tempo pieno di Benjamin: un tempo denso, saturo di passato.
Sebbene Levi colga con precisione la realtà epistemica della Basilicata, la definisce come la terra dove non è giunta la redenzione. Ma quale redenzione? Non quella religiosa, bensì quella storica e politica: la modernità, il progresso, lo Stato. Nessuno di questi ha portato ai contadini lucani un riscatto sociale: rimangono ai margini, confinati in un tempo che non scorre ma ristagna. Levi comprende che questa esclusione non è semplice arretratezza, ma un’altra forma di coscienza. Tuttavia la descrive come condizione chiusa, immobile, senza riscatto: un eterno presente senza possibilità di trasformazione. Quando scrive che “Cristo si è fermato a Eboli”, intende dire che qui non è giunta la storia moderna, non è arrivata la redenzione storica.
Il resto d’Italia, e più in generale l’Europa, ha conosciuto la propria “redenzione storica”: progresso economico, riconoscimento politico, cittadinanza moderna. La Lucania no. Qui la frattura non è apertura, ma condanna.
Ed è qui che si apre lo scarto decisivo con Benjamin. Per lui la redenzione non coincide con la modernizzazione o la conquista di diritti, ma con un atto di giustizia verso il passato: un’irruzione del tempo perduto nel presente, capace di spezzare la catena della storia dei vincitori. La redenzione, per Benjamin, non significa che “arriverà lo sviluppo”, bensì che i frammenti del passato – le sofferenze, i silenzi, le vite dimenticate – possano risplendere nel presente come Jetztzeit, un “tempo-ora” in cui la memoria dei vinti torna a interrogare il presente. In questa prospettiva, la redenzione è sempre possibile, anche per chi è stato escluso o cancellato.
Per Levi, invece, la redenzione – intesa come progresso storico-politico – è già avvenuta altrove, ma è stata negata al Sud. La Basilicata ne è rimasta fuori: ciò che altrove è divenuto “futuro”, qui è sospeso. Il suo desiderio è che anche il Mezzogiorno possa un giorno entrare nella Storia. Benjamin, al contrario, non vuole includere i vinti nel progresso, ma liberare la loro memoria dalla narrazione trionfale del progresso stesso. Riscattare i vinti non significa concedere loro sviluppo, ma impedire che la loro sofferenza venga giustificata in nome del cammino storico. Ogni lotta sconfitta, ogni vita dimenticata, ogni dolore cancellato possiede ancora un diritto al riscatto: un bagliore che può accendersi nel presente, trasformandolo in consapevolezza politica e morale. “Anche i morti”, scrive Benjamin (Tesi VI), “non saranno al sicuro dal nemico se egli vince.”
Redimere significa restituire voce ai morti e agli sconfitti, non assorbirli nel mito del progresso. Non è il futuro che salva il passato, ma il presente che, aprendosi come spazio messianico, lo riscatta. Le diverse conclusioni di Levi e Benjamin dipendono dalla loro prospettiva: Levi guarda da un orizzonte storicistico, Benjamin da una storiografia materialista. Entrambi riconoscono la frattura del tempo lineare, ma mentre per Levi è condanna, per Benjamin è promessa.
La Basilicata – e con essa il Sud intero – diventa così la denuncia vivente del fallimento della modernità europea. È ciò con cui l’Italia e l’Europa non si sono ancora realmente confrontate. Solo attraversando questa frattura, solo guardando nel vuoto che il Sud rappresenta, il passato potrà irrompere nel presente, aprendo la possibilità di una vera redenzione.
In Cristo si è fermato a Eboli, il messianismo appare in forma negativa: Cristo non scende, la redenzione non arriva. Ma proprio questa assenza fa della Basilicata un luogo “messianico al contrario”: uno spazio che rivela la crepa del tempo storico e mette a nudo l’illusione del progresso e della salvezza universale.
Per Levi, i contadini lucani “saranno redenti” quando giungeranno lo Stato, la giustizia, lo sviluppo. Per Benjamin, i vinti “saranno redenti” solo quando la loro memoria spezzerà il tempo lineare e si trasformerà in forza messianica, in un tempo-ora che ci obbliga a ripensare la storia e l’azione politica nel presente.
Il dialogo tra Levi e Benjamin disegna così un paradosso fecondo: la Basilicata, apparentemente fuori dalla storia, non rappresenta arretratezza ma un deposito di senso, una riserva metafisica da cui l’Europa, nel suo esaurimento, può ancora imparare. I villaggi spopolati, le rovine, le vite dimenticate non sono soltanto segni di perdita, ma soglie: luoghi in cui il passato si affaccia e il futuro resta sospeso, in attesa di un altro inizio.
In questo incontro ideale tra Levi e Benjamin, il Sud diventa la coscienza non redenta dell’Europa: lo spazio che, proprio perché escluso, custodisce la possibilità di pensare di nuovo la storia.

“la Basilicata apparentemente fuori dalla storia”? ma sta roba lasciala dire a quell’esaltato di Levi! Se calcola, per dire, che in un articolo sul New York Tribune il 21 settembre del 1860, addirittura Engels citò Corleto Perticara (da lui chiamata erroneamente “Carletto Perticara”) – ad appena una ventina di chilometri da Aliano come centro del movimento insurrezionale” risorgimentale – e raccontarla invece come la terra dove Cristo non è mai arrivato, , al di là delle buone intenzioni, esprime una visione fondamentalmente razzista. Si può mai negare infatti l’”anima umana” di un individuo senza farne un sub-umano. Probabilmente dissero qualcosa di simile i conquistadores a contatto coi nativi americani.