Da “Fame di mia madre”
di Yara Nakahanda Monteiro
traduzione di Nicola Biasio
15.
Il generale facilita tempestivamente il mio accesso all’associazione delle donne. Mi dice che non può accelerare quello all’archivio del partito. Troppo complessa la burocrazia, vincolata a un elevato numero di autorizzazioni necessarie. Ritiene più semplice chiedere che le ricerche vengano fatte da qualcuno interno alla sede. Sonda la strategia migliore e mi chiede di portare pazienza.
– Malembe. Malembe, che qui in questa terra non c’è nulla di urgente che non possa aspettare una quindicina di giorni. Giovanotta, dovrà avere pazienza. Non vale la pena innervosirsi. Tutto si risolve.
A luglio suddivido il mio tempo tra l’associazione delle donne, lo studio del generale e i recital di poesia. Il generale, entusiasta del primo spettacolo, inizia a metterlo in scena ogni volta che è ospite d’onore. Per di più, vedendolo talmente preso, i leccapiedi di turno iniziano a elemosinare i suoi talenti – e i miei di riflesso – per ogni tipo di evento. Sono giorni estenuanti, in cui non faccio altro che chiedere un miracolo.
“Non tutti i mali vengono per nuocere” e, infatti, il generale perde la voce, vedendosi così costretto a sospendere i recital per un periodo imprecisato; ma qui si aggiunge un altro proverbio: “il male non dura, e il bene non regna”.
Afono, comincia a dedicarsi alla scrittura. Passo quindi a rivedere i manoscritti delle sue poesie.
La simpatia e l’educazione del generale sono contagiose, però c’è qualcosa in lui che mi turba più del suo profumo. A volte, si ferma a fissarmi con gli occhi sbarrati. Mi osserva come se mi stesse esaminando o se vedesse in me un’altra persona. Mi turba inoltre che abbia sempre così tanta paura di essere ucciso. Ha una lista di regole per mangiare e bere in luoghi pubblici. Mi chiedo cos’abbia fatto di così terribile durante la guerra e in quali affari sia ora immischiato. Zé Maria dice che mi devo rilassare. Non sono altro che chiacchiere di città e paranoie del generale che si alimentano a vicenda.
All’organizzazione delle donne, mi lasciano consultare fascicoli ai quali non dovrei nemmeno avere accesso. Non vengo direttamente interpellata dai funzionari, ma le occhiate di traverso non nascondono la loro indignazione.
Consulto scatole su scatole di documenti in una stanza umida e senza ventilazione. Non entra aria fresca. Continuo a sudare. A tratti vorrei mollare, ma resisto. Resisto come le donne combattenti nelle fotografie di identificazione dei fascicoli individuali. Le facce sono austere. Nere, mestiças e bianche.
In alcune, gli occhi sembrano svuotati. Altri occhi invece incubano l’espressione del dovere da compiere. La compostezza della postura mostra l’orgoglio della responsabilità. Hanno sempre le labbra serrate. Così serrate da sembrare cucite con corde di sisal. Le compagne non soffocano, ma nemmeno comunicano le loro lamentele di donne. All’interno di alcune pratiche, dei certificati di nascita di bambini. Le immagino con al collo armi e figli, come ha fatto la mamma.
Sulla copertina di alcuni fascicoli appare la parola “deceduta”. Il pugno che l’ha tracciata sembra una ferita da cui il sangue sgorga. Il tempo trasforma tutto in cicatrice. Il miasma pare essersi insinuato nelle viscere dei fogli insieme alla polvere. Mi domando se abbiano avuto diritto a una cerimonia, o cosa sia stato detto nel loro elogio funebre. Divago. Cerco di allontanare la paura di trovare il fascicolo di mia madre con sopra la stessa scritta.
La vicinanza quotidiana con Zé Maria ci fa diventare amici. Ben presto, su insistenza di Romena, inizia a frequentare casa sua. Lei è convinta di riuscire ad avvicinarsi al generale accogliendo l’assistente come nuovo “nipote”. Salire per una Cuca e finire per fermarsi a cena inizia a essere la sua regolare routine.
Provare a cavare un ragno dal buco diventa una missione impossibile per Romena. Zé Maria non parla mai di lavoro. Se gli chiede direttamente del generale, le risposte sono sempre vaghe. Non si sbilancia mai troppo.
Ogni volta che ne ha l’occasione o vuole farsi notare, Romena ama raccontare che l’assistente del generale è di casa da lei. Quando parla di alcune persone, le piace mostrare di avere con loro un certo grado di intimità. Il nome del generale, da Zacarias Vindu, diventa Zacas. Si perde anche quello di Zé Maria, che viene chiamato «il mio nipotino portoghese assistente di Zacas».
Romena non lo fa apposta. Tutti quelli che frequenta si comportano allo stesso modo. Amano esibire una certa prossimità – falsa o reale che sia – con persone importanti del governo, specialmente col presidente del partito e la sua famiglia.
Giugno, luglio e agosto sono mesi di fiere, processioni e feste in Portogallo. A Luanda – che, dice Zé Maria, non rappresenta tutto il paese – invece non è così. In questo periodo dell’anno non c’è molto da fare. Gli stranieri che lavorano in città tornano ai loro paesi per le ferie. Di conseguenza, le feste del personale delle ONG e delle compagnie petrolifere diminuiscono drasticamente. Dall’esperienza di Zé Maria, le opzioni che restano durante la stagione del cacimbo sono i funerali, i pranzi del sabato a casa di una qualche zia e una festa in cortile «qua e là».
Dice che non si sta lamentando. Sta constatando. Pensa che sia addirittura meglio così per lui. Meno concorrenza maschile in città. Si vanta allegramente di conoscere tutte le belle donne di Luanda, e quelle che non lo sono conoscono lui. Lo vedo sempre distribuire baci e ricariche telefoniche. Non parla di fidanzate e, a quanto pare, non ha una relazione, anche se non è possibile verificarlo con certezza.
All’associazione, la monotonia viene occasionalmente spezzata dalla comparsa di una spagnola. Da quello che riesco a capire, è da un po’ di tempo che cerca di ottenere una riunione con la responsabile dell’organizzazione. La stanno tenendo in sospeso. La spagnola non riesce a oltrepassare l’accoglienza.
Le scuse sono sempre le stesse: «le chiediamo di attendere, la direttrice è in riunione», «è dovuta uscire e oggi non rientra», «venga domani a ricevimento» e «la direttrice oggi non è venuta».
So che la spagnola è allo sportello quando il suo accento stride dalla frustrazione. Quando succede, vado a sbirciare.
In una di quelle occasioni, l’addetta allo sportello rimane in silenzio, con lo sguardo leggermente alzato e la fronte corrugata, mentre la spagnola parla, gesticolando, in un tono eccessivamente alto e senza peli sulla lingua. È spettinata come se avesse combattuto in un corpo a corpo. Sotto il suo vestito a fiori, le tette, libere, si agitano senza sosta. Mi sento una caravella incagliata nel suo petto color mandorla caramellata. Resto ferma lì, mentre quelle sballonzolano a causa della danza delle braccia e delle spalle che accompagna il ritmo del suo ampio discorso.
I movimenti sconnessi e sgraziati sono, in Georgina, una danza erotica che istiga alla lussuria. Voglio toccare quelle tette. Far scorrere la loro carne tra le mie dita. Le tette di Georgina non sfuggono a nessuno: lo dico e lo confermo.
La spagnola è una di quelle donne che possono aspettare in eterno fino a ottenere quello che vogliono. Torna il giorno dopo con una nuova strategia. Quando arrivo all’organizzazione, lei è già lì. La trovo seduta su una sedia a scrivere. Lascia intendere che non se ne andrà senza aver parlato con la direttrice. Lo capisce anche l’addetta allo sportello. È venerdì ed è stanca. Vuole tornare a casa presto e preferisce non complicare la situazione. Io entro senza salutare.
Quando sto per andarmene, la spagnola non è più lì. Immagino che ci abbia rinunciato. La ritrovo vicino all’ingresso. Sembra in attesa di qualcuno. Mentre aspetto che Zé Maria mi dia uno strappo, decido di attaccare bottone. Le chiedo se alla fine è riuscita a parlare con la direttrice. Sollevata, dice di sì. Mi racconta che si trova in Angola per fare uno studio sociologico sulle donne angolane delle zone rurali. Viaggerà per lavoro, ma ritorna a fine agosto. Mi chiede se posso darle un passaggio fino all’Hotel Trópico.
È difficile convincere Zé Maria a portare Georgina all’hotel. Continuando a passarsi la mano sulla frangia che gli copre gli occhi, Zé Maria insiste che, prima, dobbiamo andarci a bere una caipirinha sull’isola.
Georgina rifiuta. Non ha tempo.
Ci scambiamo i numeri di telefono e promettiamo di restare in contatto. Georgina non è ancora entrata in hotel che Zé Maria già schiamazza senza vergogna né filtri: – Cazzo, che gran bel paio di tette! – Prima che io abbia il tempo di aprire bocca, mi dice: – Scusa. Credo di aver perso il controllo.
– Non ti scuso.
– Hai preso il suo numero?
– Non ti scuso, – ripeto, fingendo di essere arrabbiata.
– Su… passamelo.
– Mi dai una ricarica? – lo provoco per gioco.
Zé Maria apre il cruscotto dell’auto e tira fuori un mazzo di ricariche telefoniche.
– Prendi. Te le puoi tenere tutte.
Ridiamo piegati in due e fino alle lacrime.
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Yara Nakahanda Monteiro è nata nel 1979 in Angola, nella provincia di Huambo. Si definisce “pro-pronipote della schiavitù, pronipote delle relazioni interrazziali, nipote dell’indipendenza e figlia della diaspora”. A due anni si scontra col dolore dell’esilio forzato in Portogallo a causa della guerra civile. La sua scrittura si focalizza sulle esperienze di migrazione, sulle vite afrodiasporiche e sul passato coloniale portoghese. È autrice di Memorie Apparizioni Aritmie (Capovolte, 2024), raccolta poetica in cui i fantasmi che infestano il presente assumono voce di donna per riflettere sui lasciti dell’impero coloniale e le sue conseguenze.
Fame di mia madre (Capovolte, 2025) è il suo romanzo d’esordio. Tradotto in diverse lingue e incluso nella longlist del Dublin Literary Award 2023, racconta la storia di Vitória che, a poche settimane dal matrimonio, parte dal Portogallo per tornare in Angola, patria della madre guerrigliera scomparsa quando la figlia aveva solo due anni.
