➨ AzioneAtzeni – Discanto Quattordicesimo: Elvio Carrieri
Azione Atzeni – Discanto Quattordicesimo: Elvio Carreri

Discanto Quattordicesimo*
Vai a Guspini, i guspinesi hanno buona memoria, era un loro compaesano, sanno tutto, se chiederai racconteranno. E scoprirai quel che resta di un uomo, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui. Forse così la smetterà di venire nei sogni a rimproverarmi.
da Il figlio di Bakunìn, di Sergio Atzeni
L’apocrifo capitolo XXXII di Elvio Carreri
Che, ti offendi? Ti hanno trattato tutti con gentilezza prima di me? Non credo proprio. E poi io non sono diventato quello che sono diventato perché sono gentile, ma perché so poche cose, donne uomini e ottoni conosco, non prenderla a male se ti suono un po’ burbero, so solo questo. Scrivilo. Stai scrivendo? Stai prendendo nota? Bene. Possiamo cominciare. Parti dal fatto che tutto quello che ti hanno detto i miei colleghi è merda murigata, come dicono da te, lo sai, l’avrai capito anche tu che i musicisti e i guspinesi hanno una cosa in comune: sono delle teste di cazzo. Per questo non suono e non torno più a Guspini da non so quanto tempo. Ora sto dall’altra parte, sono tornato a casa mia dall’altra parte del mare, Guarda qui, sporgiti un attimo dal balcone. Lo vedi come è piatta, questa linea? Da voi solo scogli, scogli e monti, avrete pure l’acqua più blu del mondo ma è rabbiosa che vi circonda, ma una bella pianura, una distesa, una luce come questa dico l’hai vista mai? Non mi interessa che non vivi più lì. Sei venuto fin qua per sapere di un uomo che lì ci ha vissuto, ci ha fatti tutti cornuti come mufloni e se n’è scappato. La terra vostra è come voi, la terra nostra almeno a noi ci lascia in pace. Ma non ce l’ho con lui, non sono mica fesso, non covo rancori, il chitarrista con cui hai già parlato, quello sicuro vuole vedermi morto. Ma non lo biasimo. Essere sostituiti è un brutto fatto. Eppure si vedeva da lontano dove andava a parare quella storia. Uno scatafascio. Quello ne uscì col femore… Ti avranno parlato di me, non mi sorprende. Non te ne hanno parlato? Sono sorpreso. Ma chi dice che i guspinesi hanno buona memoria e sono brava gente ti prende per fesso, scusa se mi permetto, ti tratto con un po’ di familiarità perché mi sembri un figlio, ho un figlio che se n’è andato in alta Italia, dice vado a fare l’ingegnere, io dico qua non lo puoi fare? Dice no, me ne voglio andare, sai che gli ho detto? Vattìn. Vuol dire vattene. Scrivi. Scusami.
[scatta una leva interna sotto ai tasti
il mangianastri Aiwa si interrompe
poi riprende]
Peggio di un guspinese, dicevo in quanto a memoria, perfidia, malignità, c’è solo un leccese. Quindi ti ho detto, ciò che ti hanno raccontato fino ad ora è falso, furbo, impastato come lo sanno fare loro, che ad impastare sono bravi e questo non glielo nego, ma a raccontare le storie, raccontare le storie è un’altra cosa. Stai scrivendo? Perché non scrivi niente? Ah il coso registra. Mah. Va bene. Quando un’orchestra va allo scatafascio c’è una sola e unica ragione: l femmn. Le femmine sono delle sfasciabande, e ti dico anche perché, sai perché? Non tollerano che gli uomini si facciano i fatti loro, per una volta. Non è che la volta mia fu diverso. Quel poveretto chitarrista si è trovato zoppo perché il Marcantonio di cui mi chiedi doveva chiavarsi una che si chiamava Edvige, Ed-vi-ge, bel grand’uomo, uno che manda tutto all’aria per chiavarsi una con questo nome ti pare degno di suonare con Cesarino Cappelluti? Ti avranno parlato di Cappelluti, per forza. Menomale, e che ti hanno detto? Boiate, boiate pure queste. Cappelluti era diventato famoso anche in continente, come dite voi, non è che solo in Marmilla o nel Monreale siete capaci di riconoscere un grande musicista, me lo trovai io qua, fresco di nave in carne ed ossa a fare un matrimonio in una masseria. Gli chiesi di unirmi. Disse sì. Mi prese con sé. Stai scrivendo? Disse di sì e partimmo insieme. Mi prese che avevo venticinque anni, e lui sessanta, e che suonava ancora come un ossesso, pure in televisione capitammo, una sera, a Capodanno. Lui? Lui era il cantante. Cappelluti invece era il leader capobanda, fisarmonicista. Ti avranno detto che lui cantava pure bene, balle, cantava male e solo da ubriaco, ma alla fine, per fare i matrimoni, mo’, detto tra noi, che altro ci vuole? Scusa. Cancella. Ho amici che ci campano, è un lavoro nobile, non è diverso da andare in miniera. Lui in miniera ci era stato. Su questo sono d’accordo coi guspinesi, era un grande artigiano. Comunista non era davvero, era anarchico, sai che vuol dire, an-archè? Il mio professore di greco, che poi lo saprai è quel tale che va in tv, capellone occhialuto, qualche anno fa era a Mixer, non lo vedi? Tutto tu giornalista scrittore non vedi Mixer, l’unico programma colto in questa Italia di cacao meravigliao? Comunque sia ci spiegava, quando il liceo classico ancora era una cosa seria, ma non puoi saperlo, non puoi saperlo, ci spiegava che an-archè vuol dire senza principio. Senza legge. Senza regola. Così era lui. Senza regola. E infatti.
[un suono di vinile poi di punta
che taglia l’aria e scava dentro il solco
striscia lo spazio]
Entrai io a sostituire la chitarra quando quel pazzo mandò tutto all’aria per la femmina col nome da trisavola crucca. Ed-vi… manco lo voglio ripetere. Mi viene la sconfidenza. E quell’altro poveretto, povero Cristo… non la resse più, e l’anarchia, e la follia, mi dici poi, però spegni quel coso, mi dici come se la passa? È ancora zoppo, se ci hai parlato? Se ci hai parlato dimentica, dimentica. Il dolore fisico fa brutte cose, fa rincoglionire le persone, tu che sei giovane ancora non puoi saperlo. Così presero me, una tromba. Ti sembrerà all’ordine del giorno, ma una tromba a sostituire una chitarra non si è ma vista. Un cordale per un ottone. Uno strumento ritmico per uno solista. Sai cos’è un cordale? Indovina, ci puoi arrivare. Cappelluti non voleva nuove rogne perché già si era innamorato di quello scoppiato, ne aveva abbastanza, e quindi prese me. Un priso. Gli sembrai innocuo, citt citt, forse pure un po’ scemo. All’orchestrina ci voleva un altro nome, un nome nuovo, un nome diverso… Sogghigni? Così venivano chiamate, al tempo. Non hai dei nonni? Scusa. L’orchestra, alla fine eravamo orchestra, ma senza cordali, senza ritmica, armonica tromba e voce. Un’orchestra povera, anche se ci riempivano di zucchero, carne, panadas, a volte qualcuno soldi, terrisi. Ci chiamammo I nuovi poveri, e girammo da Gonnos a Cagliari. Eravamo splendidi, un po’ monchi, meravigliosi. Suonavamo Nooooobady nous iù, uen iour daun en aut L’ha rifatta quel damerino con gli occhiali recentemente, quello che gli è morto il figlio, e l’ha rifatta impomatata da buon borghese, e noi la facevamo senza ritmica, alternandoci ognuno a coprire la linea di basso, strofa per strofa, mentre l’altro teneva la linea melodica, o faceva l’assolo, o faceva i gestacci alla femmina che lo fissava, come a dire ci vediamo dopo… cornuta. Scusa la pronuncia, l’inglese non lo mastico. Oggi li vedo. I giovani musicisti sono ossessionati dalla perfezione perché possono registrare in studio trecento volte, spezzettare e fare collage delle loro parti fesse, noi dovevamo scontrarci con l’improvvisazione, l’oralità, diventava quasi un rito tribale quando suonavamo, e senza ritmica, e pensa se eravamo con le percussioni. Anarchici! Tribbbali! Anarchici tribbbali! Eravamo… davvero. Scusa. Per questo, lo dico, come i guspinesi e i leccesi, voi giovani oggi non le sapete raccontare le storie. Avete perso rapporto con l’oralità, con l’improvvisazione. Mio figlio fa ingegneria elettroacustica. Stai scrivendo? Cancella.
[ora la stanza è calma e senza il suono
dell’Aiwa o dello stilo sopra il solco
rimane solo il vuoto che si prende
tutto]
Ti dico che l’uomo di cui mi chiedi ha causato la rovina di un chitarrista e la fortuna di un trombettista. Gli hanno sgranulato il femore. Menato, venti contro tre, gli hanno fatto il cappotto. Così è, qualcuno deve cadere quando passano certi cicloni. Diventano miti e lasciano un po’ di cadaveri in mezzo alla strada. Dopodiché, non l’ho mai più rivisto. Nobody knows you when you’re down and out Vedi che me la ricordo? Te ne hanno parlato male perché sono fascisti e ignoranti, te ne hanno parlato bene perché sono comunisti e leccaculo, te ne hanno parlato così forse pure i carabinieri, che un poco lo rispettavano, ma a distanza, scommetto che nessun anarchico hai incontrato, da Guspini a Gonnos, che ti ha detto che Tullio Saba non esiste. Tullio Saba. Tullio Saba è lo pseudonimo di un ragazzino che ha causato danni ovunque e li ha coperti di cause civili mentre diventava uomo. Lo so. È inutile che mi guardi così. Io non ci credo, ma tu sì. Bisogna farci i conti, con i miti. I miti generano mostri, e se quest’uomo inesistente ha generato un figlio io non vorrei trovarmi nei suoi panni, mai. Quelli del figlio? Sì. Per favore non ci cadere, non ci credere a chi ti ha detto che la memoria è inaffidabile, che deforma gli eventi. La memoria è l’unica cosa che conta, e se si deforma, mi permetto, sono cazzi tuoi che l’hai fatta deformare. Bisogna tenersi attivi, il cervello è un muscolo, ti si deforma la memoria? Fai le parole crociate. Guarda Mixer. Suona My Funny Valentine. Io non la suono da un po’. Colpa mia? Colpa dei guspinesi e delle loro femmine pelose, te l’hanno detto, piene di peli? Non ho mai voluto suonare come Miles Davis. Non sono un burattino, uno che copia. Qui non ci servono spartiti, Qui dentro, Senti che rumore queste vecchie nocche callose sopra la tempia, ci si affida all’improvvisazione. Che è una forma di memoria, naturalmente, lo dicono i greci, il professore, e se non ci arrivi, mi permetto, il problema è tuo. Si chiama declino, declino cognitivo perché l’altra parola oggi non va più di moda, ma stai sicuro che in questa casa i santini non entrano, perché la memoria funziona, funziona come un gendarme, e ci blocca l’entrata. Non tocco una donna da quando non tocco un ottone. Nooooobody knows you No? Penso che in fondo tu abbia capito tutto. Ogni tanto mi sveglio e ripenso a quel poveretto che si è trovato nella rissa al posto mio. Colpe non ne ho e non ne avrò mai, si può sempre decidere di scappare, di andarsene dall’orchestra prima che Tullio Saba la mandi a rotoli. Scappare prima che ti accoppino. Fare i codardi non è cattiveria. Per una femmina, poi. Scrivi, scrivi così: Tullio Saba è come la Coca Cola, i Beatles, i blue jeans, ma di Guspini. Nessuno si fermerà mai a ricordarlo al di fuori del mito, nessuno tranne l’uomo che hai di fronte e che modestamente ora ti parla, ora che ti fisso bene, Alza la testa, sì, girati un poco, lo sai che ci assomigli? Io ho riconosciuto che il mio bene è stato il male di un altro, grazie a Tullio Saba. Certo, inventare le leggende è facile, ma ancora più facile è che tu ci creda, e io, di questa leggenda, te lo dico, ora che siamo un po’ intimi, ho paura. Ho paura di crederci. E di vedere cosa mi succede se ci credo, se richiamo mio figlio e se gli dico che suo padre ci è ricascato, e se ci credo ancora, un’ultima volta, per davvero, prima di crepare. Ci assomigli. Scommetto che questo non te l’aveva mai detto nessuno, je ver? Anzi, sai che c’è? Cancella, cancella tutto.
[scatta una leva interna sotto ai tasti]
Scusami.

* Azione Atzeni- mode d’emploi
di
Gigliola Sulis e Francesco Forlani
‘E scoprirai quello che resta di un uomo, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui’. Sergio Atzeni, Il figlio di Bakunìn Il 6 settembre del 1995, inghiottito dal mare come l’amato Fleba il Fenicio, Sergio Atzeni perdeva la vita nelle acque dell’isola di Carloforte. Sardo, appena quarantenne, era stato militante comunista, anarchico leader studentesco, impiegato insoddisfatto, sindacalista, pubblicista. Dopo la fuga dall’isola, tra l’Emilia e Torino, divenne correttore di bozze, lettore di manoscritti per case editrici, sontuoso traduttore – un testo su tutti: Texaco di Patrick Chamoiseau. Per tutta la vita fu intellettuale rigoroso, poeta e scrittore immaginifico, autore di romanzi-mondo come Apologo del giudice bandito, Il figlio di Bakunìn, Il quinto passo è l’addio, Passavamo sulla terra leggeri, e di una cascata di racconti tra cui Il demonio è cane bianco, I sogni della città bianca, e Bellas mariposas. Come nel Figlio di Bakunìn, pensando oggi a Sergio, ci chiediamo: che cosa resta di uno scrittore, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui? Per rispondere a questa domanda, abbiamo invitato degli autori legati all’opera di Atzeni a dare nuova vita ai personaggi o ai luoghi o alle atmosfere della sua opera. Interpretando, riscrivendo, stravolgendo creativamente, in totale libertà. Un coro di voci diverse per una raccolta di racconti brevi, accompagnati dalle registrazioni dei podcast a cura di Orsola Puecher, una rifrazione e moltiplicazione di frammenti post-atzeniani. Assolutamente vietata l’agiografia, e ‘massima penalità per chi si prende troppo sul serio’, come scriveva Sergio in uno dei suoi ultimi articoli per “L’ Unione Sarda”. Nasce così il gioco del discanto*, da intendere sia come far decantare delle buone pagine in nuove storie sia come costruzione di voci in forma di polifonia medievale. * Francesco Forlani ‘Nella Sardegna magica in cerca di Sergio Atzeni, “Reportage”, n.10, 2012, ripreso nel 2017 da Minima Moralia Gigliola Sulis, ‘Chi era Sergio Atzeni?’, “Le parole e le cose”, 22 novembre 2012
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