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Una passeggiata artica

di Flavio Stroppini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Riportiamo di seguito tre estratti da “Passeggiata artica”, di Flavio Stroppini, pubblicato di recente da Ediciclo, che ringraziamo; i disegni che accompagnano il testo nel volume sono di Bianca Di Prima

Nel bianco

Il bianco è accecante, i raggi del sole riverberano ovunque. Non ci sono ombre. Il buio è un sipario nero quando non si vedono le stelle. Si perde l’equilibrio. Tutto è in quantità estreme, non ci sono mezze misure. Questi paesaggi portano alle allucinazioni. Qua è un fenomeno tipico, e ognuno racconta le sue. La più comune è avvertire la presenza di qualcuno e poi vederlo, che si avvicina o che si allontana. O ancora peggio, che ti insegue. Il cuore accelera e si viene invasi dalla paura. È successo anche a me.
Stavo tornando al Manguier dopo una passeggiata di media lunghezza. Tirava un vento debole, sollevava qualche centimetro di neve, che, come un fiume uscito dagli argini, mi scorreva ai fianchi, e dietro, e davanti. Ridevo sollevando il tuk, come un modello sciamano che governava i venti. Il sole era di un rosso pallido e tramontava sulle montagne a tribordo della nave, che vedevo a un paio di chilometri sulla banchisa. Attorno il cielo con un po’ di foschia che stemperava le pennellate di blu, azzurro e rosa del cielo. All’improvviso, alla mia destra, ai confini di una caletta ho visto qualcosa muoversi, rapida. Vista la distanza doveva essere grosso. Ho immediatamente pensato a un orso polare. Ho accelerato il ritmo della camminata. Il cuore tambureggiava, forte. Lottando contro il mio istinto mi sono fermato. Ho cercato di dosare la paura. “Non ci sono orsi bianchi in questa zona, in questo periodo” mi aveva detto Phil. Ma cos’era quello allora? Si avvicinava, rapidamente. Ho preso il binocolo ma per l’ansia non riuscivo a mettere a fuoco. Ci ho messo un bel po’. Non c’era niente. Mi sono convinto che l’animale si fosse spostato. Sono animali intelligenti gli orsi. Mentre mettevo a fuoco le lenti del binocolo, ne aveva di sicuro approfittato per portarsi alle mie spalle. Ho tolto i guanti per stringere meglio il tuk con entrambi le mani e ho iniziato a marciare all’indietro come un gambero. Due chilometri, infiniti. Poi su, di corsa, sulla scaletta del Manguier.
Dopo essermi calmato e scaldato le mani sulla stufa a legna ho raccontato del mio incontro a Phil. Lui è scoppiato a ridere e stappando una bottiglia di rum ha voluto brindare alla mia prima allucinazione artica.
Ne sono capitate altre, fortunatamente non sono andate a toccare paure ataviche, ma sono state esperienze stranianti. Una slitta trainati da cani, una schiera di inuit, una motoslitta, un branco di caribù. Tutti incontri quasi possibili che però non si sono avverati. Nel mio tempo passato nell’Artico ho capito che è più semplice tenere al riparo il corpo che la mente.

 

 


19 febbraio 2023

I giorni iniziano a scorrere molto rapidamente. Sveglia, riscaldare la nave, colazione abbondante. Mappatura del territorio. Registrazione. Ritorno. Scaricare il materiale. Prendere appunti. Cenare. Scrivere. Mettersi in cuccetta ben coperti e leggere un’oretta. Ricominciare.

Nel bianco

Il paesaggio si apre. Niente più montagne. Niente più colline. Niente se non ghiaccio, all’infinito davanti a me, illuminato sottilmente di taglio dal sole che cala a ovest. Ai lati del mio sguardo una dozzina di iceberg che sembrano origami giganteschi ed emettono una misteriosa luce azzurra. Il vento, soffiando basso, crea correnti di neve che compongono e disfano mandala bianchi per tutta la banchisa. Al centro, a coprire l’orizzonte, un iceberg solitario. Raggiunge una ventina di metri di altezza, sviluppandosi su tre picchi che sembrano i tre alberi con le vele al vento di un veliero di ghiaccio. Riconosco il paesaggio del mio sogno ricorrente. Ma l’iceberg non sembra volare a qualche centimetro dal suolo. No, la sensazione è che galleggi al pelo della banchisa. Non si muove. Sembra solo leggero, come una nuvoletta disegnata da un bambino. Chiudo gli occhi per le troppe emozioni che mi stanno facendo vibrare. Ho troppe domande a cui non saprei rispondere. Mi sento parte di tutto questo. Sono tutto e niente. Sono fermo e in rapido fluido movimento interno. È come se tutto quello che ho sommerso dentro di me si fosse trasformato in un paesaggio fisico. Chiudo gli occhi ma continuo a vedere. Ho i piedi ben saldi a terra ma quel che accade è qualcosa di più grande di me. Tengo gli occhi chiusi, così da non perdermi niente.
Quando li riapro sono passati secondi, stagioni, secoli, tutta la mia vita e altre prima ancora, minuti.
Il cielo gocciola luce lunare.
Piango.
Non posso fare altro che andarmene.
Per vivere, tornare.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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