La Chatte di Colette, o della ricerca della gatta interiore

[Per L’Orma è uscito La Gatta di Colette nella traduzione di Maria Laura Vanorio. Pubblico uno stralcio della postfazione di Daniela Brogi al volume, intitolata Dov’è Saha? La Chatte o della ricerca della gatta interiore. ot]
di Daniela Brogi
La Chatte è una narrazione misteriosa, proprio come un gatto. Possiamo veramente definire questo breve romanzo un testo felino, anche in senso tecnico, per come riesce a sfuggire, sgattaiolando, senza mai farsi afferrare da una definizione unica – ma si sa: i gatti sono creature che amano nascondersi, essere cercate senza rispondere, e in più detestano le porte chiuse. Di cosa parla, infatti, questa storia uscita in volume nel giugno 1933, dopo essere apparsa in nove puntate sul settimanale «Marianne», a partire dal 12 aprile? Cominciamo a fissare delle risposte. La Chatte racconta un ménage à trois, ma tutto particolare – è proprio il caso di dire sui generis – perché, seguendo i passaggi costruiti dal testo, la coppia vera al centro del racconto è quella formata dal giovane Alain e dalla sua adorata gatta certosina, Saha. Vivono a Neuilly-sur-Seine, a circa quaranta chilometri da Parigi, assieme alla madre di Alain, in una villa residenziale di famiglia circondata da un bel giardino. Questo idillio amoroso reciproco e regressivo è però squilibrato dal fidanzamento e dal matrimonio di Alain con un’umana: Camille, una ragazza di diciannove anni, bella e di costumi moderni. In attesa che la casa di Neuilly venga ristrutturata per accogliere i due sposi, Alain e la moglie andranno a vivere in un appartamento a Parigi, dove a un certo punto arriverà anche la Gatta, facendo precipitare la relazione verso un punto di crisi irreversibile.
Il libro ha inizio aprendo lo sguardo in un interno notte, a una settimana dalle nozze, nella casa d’infanzia di Alain, dove una comitiva mondana che potrebbe essere uscita anche da un racconto di Fitzgerald, si sta attardando a giocare a poker. Ecco Camille, che entra in scena lottando («luttait») contro il sonno, e Alain, che invece ci appare sprofondato («vaincu») in una poltrona. Ignoriamo tutto, ancora, ma la prima pagina ci ha già consegnato uno schema a contrasto. Non sapremo mai perché l’uomo sia arrivato alla scelta del matrimonio, che sarà vissuta come un’interruzione traumatica del legame con l’adorata gatta. Probabilmente lui stesso ignora perché sia precipitato fino a questo punto – un po’ come accade a un gatto che cade nel vuoto; tant’è vero che la celebrazione delle nozze è assente dal racconto, che procede per quadri di ambienti interni e per ellissi, come se ruotasse attorno a un medesimo punto – questo effetto di vertigine e di movimento in tondo è confermato anche dalla struttura circolare del testo, che inizia e finisce nel medesimo spazio, sotto lo sguardo di un felino.
Abbiamo dunque un dramma amoroso triangolare ripensato alla maniera di una crime story piena di suspense, di specchi, di sospetti taciuti, di istinti delittuosi, di sguardi animali silenziosi e di ombre che si proiettano sui muri. Così, proprio come in un film noir anni Trenta, ecco allungarsi tra le pagine l’ombra sensuale di due femmine: il profilo di Camille, o la silhouette nera della micia sovrana Saha che, di notte, si staglia in controluce verso la luna piena, mentre da un balcone a strapiombo su Parigi aspetta il rientro del suo devoto suddito.
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Lo spunto iniziale per la scrittura de La Chatte, come racconta l’autrice stessa in un testo del 1943 (Nudité, un altro gioiello), sarebbe arrivato dalla confidenza che le aveva fatto un giovane, sconcertato dal modo disinibito in cui la donna che aveva appena sposato si mostrasse senza niente addosso – come farà anche Camille con Alain. La Chatte, effettivamente, è anche il racconto di un’inconciliabilità tra un mondo maschile all’antica e sprofondato nelle belle maniere e nelle inibizioni del passato e un mondo femminile affamato di modernità e in fuga verso il futuro. È la storia di una crisi tra due giovani umani che – questo è interessante – non si detestano come accade invece ai vecchi protagonisti de Il gatto (1967) di Simenon; si vogliono anche bene, probabilmente, e sono entrambe persone gentili, non ancora incattivite dall’età. Purtroppo però non si intendono.
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