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Simone Sauza: «chi ha sete nel sogno»

di Simone Sauza

Dicevano che era un rifugio.
Ma un rifugio, per essere tale, deve avere una porta che si può chiudere da dentro. L’Ex Officina Ferroviaria no. Ci si finisce per sbaglio. Nessuno si sognerebbe mai di entrarci volontariamente.

Era abbandonata da vent’anni. Occupava un quadrato di terreno ai margini della città, circondata da una vegetazione cresciuta senza regole tra due linee morte: un binario arrugginito e una sopraelevata che gemeva ogni volta che passava un camion.

Era abbandonata, ma le mura erano rimaste di proprietà della Società, una ditta a conduzione familiare che da tempo immemore gestiva diversi immobili in città. Comitati di quartieri avevano cercato di trasformare l’ex Officina in uno spazio sociale. Qualcuno ci aveva organizzato delle feste. Altri ci avevano organizzato delle esecuzioni. Da qualche anno la Società ha pensato di assumere un guardiano. Per non svalutare l’immobile, dicevano. Un giorno ci sarebbe nato un supermercato o un centro per la logistica. Quel giorno non è mai venuto.

Michele è arrivato all’Officina prima che diventasse un luogo, quando ancora era solo un capannone dismesso e senza tetto, abitato da ratti e serpi, e dal vento che faceva sbattere le lamiere come ossa fratturate. La Società lo prese prima come tuttofare: faceva da custode dell’Officina, da inserviente, e persino da aiutante meccanico. Poi, quando tutto ha ceduto alla legge dell’abbandono, l’Officina è diventata il corpo di qualcosa che aveva smesso di funzionare, e lui era rimasto, appunto, come guardiano. Nessuno della Società era più passato a controllare la situazione. A Michele di chi entrava o usciva da quel luogo non interessava molto. Perciò negli anni molte persone avevano abitato nell’Ex Officina. Girovaghi e relitti. Giovani scappati di casa e vecchi abbandonati dalla società. Strani commerci avevano avuto luogo; relazioni sconosciute alla città in superficie. Volti e corpi restavano per pochi giorni e poi sparivano nel nulla così come erano apparsi. Solo lui, Michele, restava. Nessuno sa da dove sia venuto. Nemmeno lui lo sa. O almeno, se lo sa, lo racconta ogni volta in modo diverso: becchino a Montecompatri, scrittore di lettere d’addio per suicidi, operatore di centrale nucleare, impiegato all’archivio delle chiamate non ricevute. Sono solo alcune delle professioni che negli anni ha menzionato a curiosi e visitatori.

La società gli aveva ricavato un piccolo alloggio in quella che sulla mappa veniva chiamata la Zona Laterale, un basso prefabbricato addossato alla struttura. Un letto pieghevole, una scrivania, un termosifone staccato da una scuola. Un ventilatore che non gira più. Una tazza con dentro un dente.

L’edificio era basso, largo, costruito con mattoni anneriti e lastre ondulate di metallo. Il tetto era una distesa slabbrata, tenuta insieme da teloni da cantiere e corde sfilacciate. Dentro, la luce entrava solo a grumi, screpolata dalle fessure delle finestre rotte e rifratta da sacchi neri appesi a mo’ di tende. L’aria puzzava di olio esausto e carta bruciata – ma c’era anche, inspiegabilmente, un sentore da corsia d’ospedale, come se qualcuno disinfettasse la notte prima di dormire.

Quando tutti dormono, Michele si aggira intorno all’entrata del Sottosuolo. Lo chiamiamo così, noi che stiamo nell’Ex Officina da più tempo. Il Sottosuolo è un livello interrato dell’edificio raggiungibile da una botola coperta da un tappeto macchiato. Michele non ci scende da mesi. Da quando ha sentito, una notte, qualcosa respirare là sotto.

Io ormai dormo poco. Quando rimango sveglio osservo Michele nel buio. Si aggira intorno alla botola, indeciso se scendere. Poi torna sempre sui suoi passi. Allora gira per l’Ex Officina. A volte accende una stufa che non è collegata a nulla. A volte lascia ciotole d’acqua in punti strategici del capannone. Dice che è per «chi ha sete nel sogno». Così mi ha detto un giorno. Michele ha una voce cavernosa, come se fosse rimbalzata troppe volte in un corpo che non la voleva. Porta una tuta da lavoro blu scuro, sempre la stessa, anche d’estate, e sopra una giacca di pelle screpolata. Cammina lento, con passo rasente. Non sbatte mai le porte. Non tossisce mai. Ha le mani larghe come pale da scavo, e i capelli radi, tirati all’indietro con una cura quasi dolorosa. Possiede un taccuino nero, che chiama registro delle presenze, ma non l’ho mai visto scriverci nulla. Dice che «la carta è per i vivi che non sono mai nati», e che i presenti vanno registrati a voce, dentro il petto. Pensavo che tutti gli anni trascorsi nell’Ex Officina lo avessero fatto impazzire.

Da qualche giorno c’erano dei volti nuovi. In loro c’era qualcosa di strano. La donna ben vestita, ad esempio. Aveva un look da ufficio. Portava i capelli raccolti. Non parlava con nessuno e nessuno interagiva con lei. Nel buio dell’ex Officina non capivo se trascorresse la notte con noi o se ne andasse dopo il tramonto. La vedevo soltanto di giorno. Vagava per l’edificio. Passava lunghe ore ferma, con lo sguardo perso. Stava come si sta in attesa di un treno soppresso da anni.

Non ho mai visto Michele rivolgerle la parola. Non che parlasse molto con gli occupanti dell’Ex Officina. Per lo più interveniva per sedare piccole risse o per provvedere ai suoi bisogni. Una volta, però, l’ho visto annotare qualcosa sul suo taccuino nero. Guardava la donna da lontano e scriveva. Ho aspettato che uscisse dall’Ex Officina per fare provviste e mi sono diretto nella Zona Laterale. Pensavo che la porta della stanza fosse chiusa a chiave. Il taccuino era sotto la tazza con il dente. Dopo diverse pagine vuote ho trovato l’appunto:

Ore 03:41. Donna seduta. Non parla. Non si muove. Osserva il vuoto come se fosse uno specchio. Sotto le scarpe: terra umida. Fuori non ha piovuto.

Ho provato ad avvicinarmi a lei qualche giorno fa. L’odore mi ha colpito prima di vederle il volto: acido fenico, garze, quell’umidità pesante che impregna i corridoi dove si muore piano. L’odore delle stanze d’ospedale alle quattro del mattino. Una camera da letto con la finestra aperta e un vecchio che guarda il cielo per l’ultima volta.

Ho fatto un passo indietro. Non per paura, non davvero. C’era una tensione che saliva dalla nuca, un peso al centro del cranio. Mi girava la testa e ho lasciato perdere.

Mi sono messo nella navata, lo spazio centrale dell’Ex Officina. Un’enorme pancia vuota dove si vedono ancora le tracce del carro ponte, attrezzi corrosi, un motore in disfacimento, divorato da piante rampicanti che crescono dalle crepe nel cemento. A volte Michele si sedeva nella navata sotto una macchia d’acqua che gocciava dal tetto. Non faceva nulla. Lasciava che il ticchettio gli colasse addosso. In quei momenti pensavo che nessuno dei presenti fosse davvero arrivato; che nessuno, cioè, avesse attraversato un cancello, varcato una soglia, seguito una strada. Neanche lui, in fondo. Me lo immagino spuntato da una crepa nel terreno. O scivolato fuori da un sogno interrotto.

Poi ho visto un uomo. Uno dei nuovi. Un uomo col braccio menomato. Gilet da lavoro, come quelli dei meccanici, baffi folti che nella penombra dell’Ex Officina nascondevano ancora di più i tratti del viso. Ma era il braccio, il problema. La sua deformità aveva qualcosa di bizzarro. Sembrava invertito: il moncherino con cui terminava l’avambraccio aveva le fattezze dell’osso di un gomito, e là dove ci doveva essere la spalla c’era una mano. Una mano viva e carnosa. Appesa al deltoide.

Ho rivisto l’uomo con il braccio sbagliato altre volte.  Vicino alla botola del Sottosuolo, impalato e in silenzio. Aspettava qualcosa, forse. Non sembrava avere bisogno di dormire. Né di mangiare. A volte si grattava con il braccio invertito come se il gesto gli fosse familiare e inadeguato allo stesso tempo. Una notte mi fissò da lontano. Lo guardai anch’io. Non successe niente. Ma per ore non riuscii a togliermi di dosso un senso di disagio.

C’erano anche altri volti nuovi che mi avevano turbato. Persino un bambino. Lo vidi per la prima volta all’alba, rannicchiato sotto la carcassa di una macchina. Non dormiva. Aveva gli occhi aperti, ma non mi guardava. Era troppo piccolo per essere lì. O troppo fuori tempo. Poteva avere sei anni. Forse otto. Il volto era smunto, senza graffi né polvere, come se fosse stato appena lavato da qualcuno che non c’era.

Non parlava. Non sembrava aspettarsi niente da me. Si stringeva le ginocchia al petto e respirava piano, seguendo il ritmo del gocciolio dal tetto. Provai a parlargli, la seconda volta che lo vidi. Gli dissi solo “ciao”, con un tono basso, neutro. Lui alzò lo sguardo, poi si infilò più in fondo, tra il sedile spezzato e la ruggine.

Si muoveva a scatti leggeri. Non come se fosse spaventato, ma come se ogni gesto gli costasse un secondo tentativo. Come se il corpo gli arrivasse addosso un istante dopo l’intenzione. Lasciava spesso degli oggetti sotto la macchina. Pezzi di metallo, una molletta, una batteria scarica, una rotella di plastica. Una volta Michele ha provato a spostare quei pezzi. Il giorno dopo erano tornati esattamente com’erano.

Ce n’erano altri, nel frattempo. Un uomo con le braccia troppo lunghe, che ogni tanto sbatteva contro gli stipiti senza mostrare sorpresa. Una figura coperta da un telo azzurro, come quelli delle sale operatorie. Spesso gravitavano vicino alla botola del Sottosuolo. Adesso, tra vecchi e nuovi, l’Ex Officina è un crocevia di figure. Molti occupanti che stavano qui da lungo tempo sono andati via. Avevano paura ma non sapevano bene di cosa. Dentro di me lo so bene: ha a che fare con i sogni ma nessuno ne vuole parlare.

Contrariamente a quanto mi aveva detto, ultimamente ho visto spesso Michele scrivere sul suo taccuino nero. Se faccio domande mi risponde le solite cose. Ormai dice solo cose sconnesse o incomprensibili. Usa il tono oracolare di chi ha perduto ogni appiglio al mondo. Ho dovuto aspettare il momento giusto per leggerlo. Non è stato facile: lo aveva nascosto, forse prevedendo che avrei cercato di leggerlo; ma un ragazzo, un ventenne con le braccia martoriate dai buchi delle siringhe, mi ha detto dove lo aveva nascosto. Si trovava nel giaciglio di un uomo che ha abbandonato l’Ex Officina da pochi giorni, sotto il cuscino. Questa volta le pagine erano piene di annotazioni. Frasi e descrizioni classificate soltanto dall’orario. Nessuna specifica del giorno.

Ore 2.27. La donna. Il silenzio trattenuto da una figlia che non ha potuto gridare mentre sua madre moriva.

Ore 12.03. Impastati con la stessa materia dei rimpianti. Incarnazione di qualcosa che non ha avuto pieno diritto all’esistenza.

Per diverse pagine si susseguivano disegni della botola che porta al Sottosuolo. Schemi e simboli che non sono capace di decifrare.

Poi ancora annotazioni. Ore 5.17. La logica del braccio: un gesto che non è mai stato fatto, un pugno che doveva partire e non è partito.

Il clangore della porta d’ingresso mi fece scattare. Riposi il taccuino sotto al cuscino e me ne andai fuori. Una donna in ciabatte mi offrì una sigaretta. Cominciava a fare caldo e qualcuno preferiva dormire vicino al muro che delimita l’Ex Officina, con la sopraelevata che solca un cielo di cenere. Michele ha perso la testa. O forse è sempre stato pazzo. Dovrei andarmene o finirò come lui.

«Chi ti ha assunto, Michele?».
«Una cosa che si è svegliata sotto il pavimento. Mi ha chiamato col mio vero nome. E io ho detto sì».

Questa è stata l’ultima conversazione che ho avuto con lui. Prima di vederlo finalmente discendere. Il rumore dei passi mi aveva svegliato. Nella penombra si addensavano molte figure. Quando Michele sollevò il tappeto e fece scattare la botola, nessuno lo fermò. Le presenze si erano fatte più numerose. Un uomo si era rannicchiato in un angolo e guardava il soffitto come se aspettasse il temporale. Michele non parlò. Non si voltò. Portava con sé solo una torcia e il taccuino. Aveva tolto le scarpe. Camminava scalzo. Quando scese i primi gradini, lo fece senza esitazione, come chi torna in un luogo conosciuto.

La botola si richiuse piano. Dopo un po’, anche il ticchettio dell’acqua si fermò. Poi un crac nel buio. Qualcuno mise una ciotola nuova vicino al punto in cui si era aperta una nuova crepa. Altri mi guardavano come si guarda chi resta dopo che tutto si è già deciso altrove.

Una logica delle rovine che appartiene da sempre a questo posto: ora c’era un nuovo guardiano. Ma ancora oggi non so bene che cosa devo custodire. Come ho letto nel taccuino di Michele, tutto ciò che so è che il mondo ha smesso di cercare salvezza, e si accontenta di preservare la continuità nella disfunzione.

Il tempo è passato trascinando le ore e i giorni. Non è mai arrivato nessuno a reclamare l’Officina. Né la Società, né il Comune, né chi si era perso tra le carte catastali. E nemmeno la fine, che pure era attesa. Perché da qualche parte si sapeva che tutto questo era provvisorio, che i muri non avrebbero retto, che il tempo avrebbe ceduto, che qualcuno sarebbe sceso per chiudere tutto da sotto.

Ma la fine non è venuta. È rimasta in attesa, come una sirena senza suono. E intanto le cose hanno continuato a nascere male, come sogni interrotti e organi in eccesso. Annoto tutto, io. C’è sempre un nuovo volto che compare nel buio, un nome mai detto, un gesto che doveva compiersi e non lo ha fatto. E così, l’Officina resta aperta. Non perché ci sia qualcosa da proteggere, ma perché nessuno ha ancora avuto il coraggio di demolirla.

Là fuori, l’universo ha smesso di espandersi. Un respiro trattenuto troppo a lungo. Ogni particella trattiene un ricordo incompiuto.

Non una fine.

Ma ciò che resta quando la fine è già passata.

Simone Sauza
Scrittore, giornalista e traduttore. Si occupa principalmente di horror e violenza nel cinema e nella letteratura. Collabora con diverse realtà editoriali. Ha scritto Tutto era cenere (nottetempo, 2022). Suoi racconti sono apparsi su riviste come retabloid di Oblique Studio, Frankenstein Magazine e Altri Animali. È editor di Notzine e Notsfera per NERO Editions. 

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Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. È poeta, scrittore, regista, performer e redattore di «Nazione indiana». Ha co-diretto la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato La consegna delle braci(Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli), La specie storta (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano), L’Ufficio delle tenebre e il saggio Fossili di rivolta. Immaginazione e rinascita (Tlon Edizioni). Ha curato il progetto Ogni creatura è un popolo (NERO Editions)e per Argolibri, l’inchiesta letteraria La radice dell’inchiostro. La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. Con le sue opere ha partecipato a festival e spazi come Biennale Venezia College, Mostra internazionale del nuovo cinema, Rencontres internationales paris/berlin, Centrale Fies. È il vincitore di FONDO 2024 (Santarcangelo Festival), uno dei direttori artistici della festa “I fumi della fornace” e dei curatori del progetto “Edizioni volatili”. È laureato al Trinity College di Dublino e dottorando allo Iuav di Venezia.
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