Post in translation: Benito Pérez Galdós

di
Marino Magliani e Alessandro Gianetti
Quando l’intelligenza artificiale non esisteva, gli appartamenti turistici erano ancora il sogno freaky di un cervellone in calzoni corti (i danni di certi sogni si possono calcolare?), José María Aznar affiancava la Spagna alle truppe angloamericane nell’invasione dell’Irak e in plaza Santa Ana, epicentro dello scanzonato Barrio de las Letras, si poteva bere una birra per un euro e dieci centesimi, c’era un locale chiamato Miao. Si trovava all’angolo con calle del Príncipe e testimoniava l’attaccamento della città all’autore che l’ha forse descritta meglio insieme a Pío Baroja.
L’unione di Benito Pérez Galdós con Madrid è sentimentale, storica e insieme letteraria, e la vicenda di Ramón Villaamil, un classico della letteratura adesso pubblicato anche in Italia da Altrevoci – nostra, la traduzione -, ne è la prova. Le disavventure di un impiegato statale messo in aspettativa a sole due settimane dalla pensione servono da pretesto per ridare uno spaccato della piccola borghesia capitolina, tra aspirazioni signorili e traguardi mancati, in un’atmosfera priva delle angosce di Dostojevskij ma che a tratti ricorda i labirinti allucinatori di Kafka. Così va il mondo, così va la Spagna, e così ci stiamo abituando tutti a disprezzare lo Stato e ad attizzare nell’anima la brace della rivoluzione. A chi meriterebbe, disinganni; a chi non meriterebbe, caramelle. Questa è la logica spagnola. Tutto al contrario. Il paese del rovescio.
MIAO – estratto
DAL CAPITOLO 1
Alle quattro del pomeriggio, tutti i ragazzini della scuola pubblica di Piazzetta del Limón sciamarono tumultuosamente dalle aule combinando una gazzarra infernale. Nessun inno alla libertà, fra i tanti composti in tutte le nazioni, ha il fascino di quello che intonano i carcerati della scuola elementare quando si sgancia la catena della disciplina scolastica e via, fuori di qua! Tra salti e strilli. La furia insana con cui si lanciano nei più rischiosi esercizi di funambolismo, gli infarti che provocano ai pacifici passanti, il delirio di autonomia individuale che spesso finisce in botte, lacrime e lividi, sembrano prefigurazioni dei trionfi rivoluzionari che gli uomini si trovano a celebrare in tempi meno fortunati… Insomma, uscirono in tromba; l’ultimo voleva essere primo e i piccoli strillavano più forte dei grandi. Fra di loro ce n’era uno di bassa statura che si allontanò dal gruppo e prese la strada di casa, solitario e silenzioso. E appena i suoi compagni si accorsero di quel suo allontanarsi che aveva l’aria di una fuga, lo inseguirono e lo perseguitarono con scherzi e canzonature, non esattamente di buon gusto. Uno lo strattonava per il braccio, un altro gli stropicciava la faccia con le sue mani innocenti, che erano un campionario completo di tutte le sudicerie del mondo, ma lui riuscì a liberarsi e se la diede a gambe. Allora due o tre dei più sfacciati gli tirarono dei sassi e gli gridarono Miao; e tutta la banda ripeté in un’infernale confusione: Miao, miao.
Il povero bambino preso in giro in quel modo si chiamava Luisito Cadalso ed era piuttosto piccolo di statura, col fiato corto, pallido, sugli otto anni, al massimo dieci, timido al punto da rifuggire l’amicizia dei compagni, perché temeva le prese in giro di alcuni e sapeva di non essere così vispo da restituirle. Era sempre stato il meno scalmanato nelle birichinate, il più scialbo e maldestro nei giochi, e il più educato in classe, eppure uno dei meno brillanti, forse perché la sua timidezza non lo aiutava a mettere in luce ciò che sapeva o a passare sotto silenzio ciò che ignorava. Mentre svoltava l’angolo del Convento de Las Comendadoras de Santiago per tornare a casa, che si trovava in calle Quiñones, di fronte alle Carceri Femminili, lo raggiunse uno dei suoi compagni: un sacco di libri, la lavagnetta in groppa, i pantaloni ridotti a supporto delle toppe sui ginocchi, le scarpe bucate, un basco blu sul cranio spelacchiato, il muso molto simile a quello di un topo. Si chiamava Silvestro Murillo ed era il ragazzo più studioso e il migliore amico che Cadalso avesse in tutta la scuola. Suo padre era il sacrestano della chiesa di Monserrat e voleva che studiasse Diritto, perché si era ficcato in testa che quel moccioso sarebbe diventato un pezzo grosso, magari un celebre oratore – o un Ministro, perché no? E la futura celebrità rivolse all’amico queste alate parole: «Varda un po’, Caarso, se le facevano a me queste burle, gli mollavo un cazzotto da fargli venire la faccia tutta verde. Ma tu non c’hai le palle. Secondo me non è giusto mettere soprannomi alla gente. E lo sai di chi è la colpa? È di Posturitas, quello del banco dei pegni. Proprio ieri contava che sua madre ha detto che tua nonna e le tue zie le chiamano Miao, perché hanno le facce con la stessa fisionomia dei gatti, proprio così. Ha detto che gli hanno dato questo titolo nel loggione del Teatro Real, dove siedono sempre allo stesso posto, e quando le vedono arrivare tutti quanti dicono: “Eccole qua, le Miao!”».
Luisito Cadalso divenne rosso in volto. Era così indignato, pieno di vergogna e stupore, che non seppe come difendere l’oltraggiata dignità della sua famiglia. «Posturitas è un volgarotto e un insignificante», aggiunse Silvestro, «e ’sto vizio di dare soprannomi è da carogne. Suo padre è una carogna, sua madre è una carogna e le sue zie sono carogne anche loro. Campano succhiando il sangue alla povera gente. Cosa credi? Se uno non riesce a riscattare la cappa, quelle lo spiumano: cioè gliela vendono e lasciano che crepi di freddo. Mia mamma le chiama le Arpide. Non le hai viste quando stanno al balcone ad appendere le cappe perché prendano aria? Sono più brutte di una tomba, e mio papà dice che con i nasi che si ritrovano ci si potrebbe fare le gambe del tavolo, e ce ne avanza di legno… Beh, anche Posturitas è un bello scimmione, sempre lì a contarla su e a gesticolare come i clovus del Circo. Chiaro: visto che gli hanno appioppato un soprannome, si vendica e te ne rifila uno anche a te. Ma con me non attacca, no davvero!
Perché sa che io c’ho la lingua velenosa, eccome! Ma tu, che non ti fai valere, cioè che non ti ribelli quando ti dicono qualcosa, ecco che per te non ha rispetto.»
Il piccolo Cadalso, soffermandosi sulla porta di casa, dedicò all’amico un’occhiata triste. Lui gli rifilò una bella gomitata, e disse: «Io non ti chiamo Miao, niente affatto! Non aver timore che io ti chiami Miao!», e partì di corsa verso Monserrat.
