Chiarezza e distinzione
di Ezio Partesana
Quel che mi fa arrabbiare è la logica secondo la quale più sono forti e terribili le parole che uso più ho ragione; una sorta di sostituzione di un Io privato e sentimentale al ragionamento pubblico e condiviso.
Dostoevskij sapeva bene che il diavolo è un uomo semplice: Perché questa inutile vecchia è piena di soldi mentre io, che sono giovane e brillante, devo soffrire la fame?
Per tutta la vita lo scrittore russo cercò di mostrare come fosse difficile il bene e facile il male. Il luogo dello scontro erano la coscienza individuale e la realtà sociale dell’esistenza che i protagonisti dei suoi romanzi si trovano a condurre.
Dostoevskij muore nel 1881, agiato e dignitoso erede di una morale kantiana.
Aveva ragione, oppure il mondo ha superato quei dilemmi e oggi – nella miseria e nel rammarico – è in verità tutto molto più semplice?
“Agisci solo secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere divenga una norma universale” (Kant). L’unica massima che posso applicare allo sfruttamento è la sua abolizione, devo dunque rifiutarmi di lavorare per chi possiede i soldi, la terra e le macchine che servono a produrre quanto l’uomo ha necessità di usare per vivere. Ma anche “sopravvivere”, qui e ora, è una massima che vorrei vedere applicata al maggior numero di esseri viventi possibile.
Il diavolo è un uomo semplice.
Nel 1637 René Descartes pubblica, in forma anonima e congiunto con altri saggi, il Discorso sul metodo; vuole un fondamento certo – “chiaro e distinto” – sopra il quale possa poggiare tutta la conoscenza umana. La certezza deve essere “chiara”, impossibile da confutare a meno di violare il principio di non contraddizione, e “distinta”, vale a dire priva di alcuna ambiguità lessicale o ideologica. Per far questo immaginò uno spirito maligno e potente che lo ingannava su tutto: sensazioni, ricordi, esperienza, logica, conoscenze e fede; una sola certezza restava: Se dubito di tutto allora penso e se penso sono, Cogito ergo sum. Il razionalista Descartes aveva ottenuto la sua certezza, chiara e distinta.
Il demone di Dostoevskij e il diavolo di Descartes proprio non sono della stessa pasta: uno suggerisce risposte, l’altro inganna; uno vive nel cuore, l’altro abita la mente. Quando si uniscono però girano intorno alla cosa stessa sino alla vertigine; nella storia della filosofia occidentale questo balletto ha preso il nome di “dialettica”. La dialettica si oppone, con una certa sua cattiveria, al desiderio (molto umano) di avere un punto fisso come le stelle della fisica aristotelica che non erano così come descritte ma almeno restavano immobili.
In etologia il disorientamento è spesso fatale: migrazioni, sostentamento e cooperazione scompaiono perché non sono più dove dovrebbero essere, ci si inganna; il disastro non riguarda più questo o quell’individuo ma l’intera specie. La lingua tedesca ha un nome per questo stato: Unheimlich, “senza casa”; in italiano “unheimlich” è tradotto con “perturbante” (Freud). La società odierna è perturbante non solo perché costringe folle immense a lasciare la loro casa per poter sopravvivere, ma anche per chi resta dove è e non capisce né domina quel che accade in se stesso e intorno.
Uccidere Descartes e Dostoevskij – e tutti gli altri demoni con loro – è una soluzione. Nessuno può più ingannarti perché il nemico è chiaro e distinto, l’opposizione inconciliabile, l’azione da compiere urgente. È l’antico sogno della Rivelazione: un solo libro, un solo segno, una sola parola “e io sarò salvato”. E come d’incanto ogni cosa torna al suo posto: un Cogito senza dubbio e Raskol’nikov all’inferno. Il contenuto della verità è quasi irrilevante; il sesso, la politica, lo spirito e la natura sono in questo processo pezzi di ricambio universali – simulacra li chiamerebbero gli epicurei, e non esiste migliore simulazione di quella alla quale si finisce per credere con tutto il cuore.
Portare ordine nel Caos è non solo l’imperativo di ogni ricerca ma oramai anche una necessità esistenziale. La lontananza – quasi sempre misurabile in reddito – tra l’esistenza individuale e la libertà di scelta scompare sotto un cumulo di strutture e processi che neanche con la miglior intenzione l’Angelus di Klee potrebbe contemplare. Scriveva Aristotele che la mappa perfetta non esiste perché per contenere ogni dettaglio dovrebbe essere grande come il territorio che deve rappresentare, così ogni riassunto, ogni cartografia, comincia con la rinuncia a qualcosa; affinché la rappresentazione abbia un senso, un valore d’uso, bisogna tralasciare quel che non serve allo scopo e tirare dritti: la distanza tra Londra e Berlino è di mille chilometri, e tanto basti.
Il disegno alla fine non spiega nulla. Il licenziamento è dovuto al mercato, la lunga attesa all’affollamento, la sconfitta alla competizione e la paura, la paura al buio. È tutto vero, se non fosse che oscurità, lavoro, diritti e capitale sono cose che non sappiamo e non possiamo controllare, appena le guardi scompaiono dalla mappa. La riduzione diventa necessaria, il mito è già illuminismo. Il Grande Caos deve essere riconducibile a un unico errore che l’umanità ha compiuto una volta per sempre. Quando il numero delle contraddizioni eccede la quantità che una mente – una anima – può contenere, non fa più alcuna differenza chi si trovi a impersonare il totem della distruzione, purché ci sia la certezza che una volta abbattuto torneranno a scorrere in terra il latte e il miele.
Il principe Myškin è l’«Idiota» proprio perché non vuole, o non sa, seguire il meccanismo di ricompensa che segue ogni raffigurazione di Lucifero. Essere anonimo – sebbene Dostoevskij lo fornisca, nella finzione, di fascino e ricchezza – e “candido come un falco” (Fortini), fa dell’Idiota un uomo non adatto alla convenzione secondo la quale è meglio parlar chiaro e farsi capire da tutti – e in quel “da tutti” è sottinteso anche “da se stessi” – piuttosto che far questione della relazione tra le parole e le cose. L’esistenza non è più, in qualche modo, collettiva, bensì individuale, il “colpevole” è indifferente purché ce ne sia uno da condannare.
Parodia di una riappropriazione, le grida contro immigrati, negri, ebrei, comunisti, soddisfano il requisito fondamentale di dare un nome e un volto alla divisione della lavoro, allo sfruttamento, alla reificazione, che si sono, nel frattempo, prese tutto il potere, lasciando l’individuo attonito di fronte alla domanda sul perché tutto vada così male. Le teorie del complotto – vecchie di almeno due secoli – non sono l’emblema dell’ignoranza ma una risposta razionale alla follia per la quale nessun atto politico sembra essere più razionale, sono un dispiego di cose che non vediamo mediante quelle che vediamo.
Una volta perso l’orientamento, il primo consiglio è sempre quello di muoversi in linea retta fino a trovare l’uscita dalla selva oscura; la logica è ineccepibile, ma non funziona in un labirinto dove l’Intentio recta è proprio il meccanismo dell’inganno. Rassicura però pensare che se solo si scoprisse da dove è entrato il Diavolo, sarebbe facile coglierlo sul fatto e sconfiggerlo, ché il destino del demonio è sempre questo “libero per entrare ma obbligato per uscire” (Goethe). Come nelle rappresentazioni medievali si comincia dalle qualità per risalire poi alla sostanza; così il diavolo è senza cuore, crudele, violento, uccide per diletto e non c’è nulla al mondo che possa redimerlo, neanche un Dio. Il diavolo è il cancro, la causa prima, non generata da uomo e da donna, fonte dello smarrimento di un essere che altrimenti sarebbe di buoni sentimenti e per natura giusto e pietoso.
Al male impersonificato si può sputare addosso meglio che a un contratto triennale di apprendistato, e esercitando la memoria si scopre che nei secoli passati fu sempre il suo maleficio a sviare gli esseri umani. L’ipotesi paradossale di Descartes – quella di uno spirito ingannatore che mi costringesse a dubitare di ogni mia certezza – si è trasformata in una tesi accusatoria in piena regola, con testimoni, precedenti e luogo a procedere. Raskol’nikov aveva ragione, Alëna Ivànovna era solo una vecchia usuraia, dannosa al rinnovamento morale del mondo. Bene ha fatto ha ucciderla.
E della critica della ragione resta solo, come scrisse Adorno, l’alzata di spalle con la quale ogni medico ha da sempre espresso la sua segreta intesa con la morte.
