➨ AzioneAtzeni – Discanto Terzo: Giacomo Casti
Discanto Terzo*
– Salta, salta, rondinella – gracida un rospo e Juanica salta una pozza lunga quanto un uomo è alto. – Corri – frusciano le canne. – Salta – gracidano i rospi. E Juanica salta e corre come mai avrebbe pensato di saper correre e saltare. Da Apologo del giudice bandito di Sergio Atzeni Correte gente a vedere correte gente a ascoltare è arrivata è arrivata Aleni la coga legge il futuro il passato e il presente di uomini donne bambini e animali a libera offerta e balla per voi le antiche danze di Arbarei Da Bellas mariposas di Sergio AtzeniApologo di Juanica
di
Giacomo Casti
I
Le bambine giocano con le pietre, concentrate. Bicus, si chiama il gioco. Si fa con cinque piccole pietre, ne tieni in mano una e ne lanci in aria un’altra, ne tieni due, poi tre, poi quattro. Poi sempre più difficile. Tutti sanno giocare a bicus. Le bambine, e i ragazzini che più in là si divertono con il cavallino di legno che gli ha fatto tziu Fieli, il maestro del legno. Sa giocare a bicus Andrìa, lo strano del villaggio, che guarda senza dire niente seduto laggiù nello spiazzo, e le donne che, di fronte a casa di Donna Maria, rammendano le grandi lenzuola chiare. Probabilmente sa giocare a bicus anche Grogu, il randagino che si aggira da queste parti e che di notte va a dormire dietro la chiesa di San Giovanni. E sanno giocare a bicus anche i muri di ladiri delle abitazioni del villaggio, e sa giocare a … Un momento, cos’è quel polverone che si vede laggiù, nella strada che arriva dalla città? Si avvicina sempre di più, sempre di più, e adesso tra la polvere si intravedono le figure, cavalli e cavalieri … Uno, due, tre, sei, sette soldados de su Vissurey che vengono in questo paese, non capita spesso. Certo, ogni tanto arrivano uno o due esattori del Barone a riscuotere gli odiosi tributi, ma mai così tanti. Dev’essere successo qualcosa di importante, per farli arrivare così all’improvviso, in una mattina di primavera come tante dell’anno del signore 1478. Uno dei cavalieri si avvicina alle donne, chiede con tono perentorio di parlare coi probiviri o con l’uomo di chiesa, le donne gli rispondono che gli uomini sono tutti ai campi e che l’uomo di chiesa è morto l’anno prima e il nuovo non è ancora arrivato. Nel frattempo sono scesi da cavallo anche gli altri, si aggirano per lo spiazzo che funge un po’ da piazza del paese. Le donne chiedono se possono fare qualcosa, l’uomo che sembra il comandante dice: – Sì, stiamo cercando qualcuno. E voi sapete chi è. Fa un nome, ma nessuno lo ha mai sentito, lì. – Strano, perché è proprio di queste parti, e ci risulta abbia amici e parenti, qui. Chissà, magari uno di quei ragazzini lo sa. Ehi, niño, avvicinati un attimo. Sì, tu, il più grandicello. E così Franciscu, impaurito, si avvicina. Non ha il tempo di guardarlo negli occhi che – Aaaah! – il soldado gli stringe forte la guancia tra le dita e dice: – Magari tu lo sai, dove sono Gunale e la sua banda, eh? Franciscu si contorce dal dolore, piagnucola, non sa cosa dire, chi lo conosce, questo Gunale. All’improvviso una pietra colpisce sulla testa del soldado, poi due, poi tre, poi una voce che dice: – Lascia stare mio fratello, brutto scimunito! La voce della piccola Juanica, a cui rispondono le risatacce degli altri soldati e la loro ironia: – Beh, capitano, questa volta ha trovato pane per i suoi denti! Bernat, capitano del drappello, lascia il ragazzo e si dirige a passo svelto verso le bambine, all’altezza di Juanica sta per sferrare un terribile manrovescio quando si sente afferrare il braccio e spingere di lato con notevole forza, fino a cadere. È Andrìa, lo strano del villaggio, col suo curioso modo di parlare: – Qui-qui-qui non c’è … niente-niente … Gunale … capito? Qui-qui-qui … tutti … totus … todos bravos.. buenos cristianos … – Hei, Capitano, qui mi sa che tra bambini e scemi, le fanno la festa, eh! – ridono sguaiati i soldados. Capitan Bernat si rialza, sputa per terra e sguaina la spada. – Hai fatto un grave errore, cabron. Chiedi perdono! – E qui, purtroppo per lui, Andrìa fa un secondo, impavido errore e, invece di scappare, tira fuori il coltello che, come tutti, tiene sempre con sé. Bernat non ci pensa due volte. Con un affondo buca la pancia di Andrìa e, con cattiveria, ritraendo la spada, apre sin quasi a squarcio. – Ricordatevi questo nome, il nome di Gunale! – dice, mentre ringuaina la spada. – La prossima volta che saremo qui, non sarà solo uno scemo a pagare per colpa sua! Risale a cavallo e parte al galoppo verso il villaggio vicino, seguito dai suoi. La prima ad avvicinarsi ad Andrìa è Juanica, che si inchina e, piangendo, gli dice: – Sei coraggioso, Andrìa, sei proprio coraggioso, bravo. Andrìa la guarda e, con una specie di sorriso, a parole sue, gli dice: – Tu-tu-tu … brava, Juanica. Tu … adesso … mio coltello. Io … stanco … E poco prima di chiudere gli occhi, le prende la mano e vi ci posa sopra il coltello.II
Eh, ne è passato di tempo – dice tra sé Juanica, riaprendo gli occhi. Con lentezza esce dalla capanna, guarda tra le canne, intravede il sole che sta per sorgere, riattizza il fuoco e mette a riscaldare il caffè, questa strana bevanda arrivata da poco da chissà dove. Le piace, ci aggiunge il cardamomo e il finocchietto per insaporirlo, si domanda da quanto ormai sia diventata la prima cosa che beve al mattino. Anni, decenni, forse secoli. Sì, quello schiavo moro conosciuto tanto tempo prima le aveva fatto proprio un bel regalo. Dopo che lei gli aveva in pratica salvato la vita. L’aveva trovato mezzo morto e in fuga, con alle spalle i soldati de su Vissurey. Una storia che conosceva bene. L’aveva curato e l’aveva nascosto. E lui, per ringraziarla delle cure, le aveva regalato i primi chicchi di caffè della sua vita. Nessuno cura come Juanica, nessuno conosce la palude meglio di lei. Non ricorda più da quanto tempo c’è finita dentro, ma una cosa la sa bene: quello è stato il momento in cui è rinata, quello il momento in cui ha iniziato a vivere davvero. Senza più padroni, senza più paura. Sempre sola, in compagnia dei suoi gatti. Decine e decine. I gatti la cercano, la trovano, la venerano, e lei ricambia. Ogni tanto Juanica, famosa per la sua bellezza, si sveglia ancora di soprassalto, nel cuore della notte, quando sogna di essere inseguita e di sentire dietro di sé le voci, le grida, l’abbaiare ringhioso dei cani e lo zoccolio dei cavalli. Ma è acqua passata, tempo trascorso. Un’altra vita. Ora, Juanica è diventata per tutti Aleni, la coga. La sua avvenenza si è trasformata in saggezza, e quella che chiamano sa Illetta è diventato il suo regno. In pochi si avventurano dentro le infide paludi dello stagno. Ci capitano i fuggitivi, ci capita qualche pescatore coraggioso, ci capita chi conosce i poteri di Aleni e ne va alla ricerca. Così Juanica, diventata Aleni, è la persona che cerchi quando vuoi guarire da un male che nessun dottore può curare, quando vuoi toglierti di dosso il malocchio, quando hai bisogno del consiglio giusto, quando la notte senti l’alito del demonio vicino al tuo viso. Lei prende le sue cinque pietre, le lancia in aria sei volte e costruisce un esagramma, sul quale legge la tua vita e quello che ti aspetta. Non sbaglia mai. Così, giorno dopo giorno dopo giorno, Juanica diventata Aleni ha visto il mondo cambiare sotto i suoi occhi, lo ha visto cambiare e rimanere sempre uguale, ha visto virtù e meschinità, paura e coraggio, gioia e dolori di un popolo che è cambiato rimanendo sé stesso, un popolo che ancora aspetta qualcosa che lei sa non potrà arrivare che da sé stessi, e arriva solo quando uomini e donne decidono di ribellarsi al destino che pare inevitabile. Ma quel destino, a volte, è solo il ventre molle del passato in cui, per sopravvivere, non bisogna avere paura di affondare la lama.
* Azione Atzeni- mode d’emploi
di
Gigliola Sulis e Francesco Forlani
‘E scoprirai quello che resta di un uomo, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui’. Sergio Atzeni, Il figlio di Bakunìn Il 6 settembre del 1995, inghiottito dal mare come l’amato Fleba il Fenicio, Sergio Atzeni perdeva la vita nelle acque dell’isola di Carloforte. Sardo, appena quarantenne, era stato militante comunista, anarchico leader studentesco, impiegato insoddisfatto, sindacalista, pubblicista. Dopo la fuga dall’isola, tra l’Emilia e Torino, divenne correttore di bozze, lettore di manoscritti per case editrici, sontuoso traduttore – un testo su tutti: Texaco di Patrick Chamoiseau. Per tutta la vita fu intellettuale rigoroso, poeta e scrittore immaginifico, autore di romanzi-mondo come Apologo del giudice bandito, Il figlio di Bakunìn, Il quinto passo è l’addio, Passavamo sulla terra leggeri, e di una cascata di racconti tra cui Il demonio è cane bianco, I sogni della città bianca, e Bellas mariposas. Come nel Figlio di Bakunìn, pensando oggi a Sergio, ci chiediamo: che cosa resta di uno scrittore, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui? Per rispondere a questa domanda, abbiamo invitato degli autori legati all’opera di Atzeni a dare nuova vita ai personaggi o ai luoghi o alle atmosfere della sua opera. Interpretando, riscrivendo, stravolgendo creativamente, in totale libertà. Un coro di voci diverse per una raccolta di racconti brevi, una rifrazione e moltiplicazione di frammenti post-atzeniani. Assolutamente vietata l’agiografia, e ‘massima penalità per chi si prende troppo sul serio’, come scriveva Sergio in uno dei suoi ultimi articoli per “L’ Unione Sarda”. Nasce così il gioco del discanto*, da intendere sia come far decantare delle buone pagine in nuove storie sia come costruzione di voci in forma di polifonia medievale.*
Francesco Forlani ‘Nella Sardegna magica in cerca di Sergio Atzeni, “Reportage”, n.10, 2012, ripreso nel 2017 da Minima Moralia Gigliola Sulis, ‘Chi era Sergio Atzeni?’, “Le parole e le cose”, 22 novembre 2012Si può seguire il PODCAST su:
⇨ Youtube
⇨ SPOTIFY
