➨ AzioneAtzeni – Discanto Nono: Paolo Fresu e Lella Costa
da Passavamo sulla terra leggeri
di
Lella Costa e Paolo Fresu
Passavamo sulla terra leggeri come acqua, disse Antonio Setzu, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata dai venti e pioggia benedetta. A parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti, eravamo felici. Le piane e le paludi erano fertili, i monti ricchi di pascolo e fonti. Il cibo non mancava neppure negli anni di carestia. Facevamo un vino colore del sangue, dolce al palato e portatore di sogni allegri. Nel settimo giorno del mese del vento che piega le querce incontravamo tutte le genti attorno alla fonte sacra e per sette giorni e sette notti mangiavamo, bevevamo, cantavamo e danzavamo in onore di Is. Cantare, suonare, danzare, coltivare, raccogliere, mungere, intagliare, fondere, uccidere, morire, cantare, suonare, danzare era la nostra vita. Eravamo felici, a parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti.da Passavamo sulla terra leggeri di Sergio Atzeni
Nota (non musicale)
di Claudio Loi
Sergio Atzeni, le ossa di Giuda e la tromba di Paolo Fresu Mi sono aperto il petto e ho scoperto di avere un cuore africano Questo verso – leggermente satanico – di Sergio Atzeni arriva da una sua poesia e ci racconta di un uomo e di un artista che ha sempre vissuto all’interno di un irrisolto conflitto emozionale. Ma ci ricorda soprattutto la grande attenzione che Atzeni aveva verso il ritmo, la passione infinita e sterminata per il pulsare dei suoni, per le pelli che vibrano e ululano se percosse da ossa ancora vive, il ritmo irregolare dello scrivere e del creare. Il cuore africano di cui parla Atzeni e quello di chi è stato protagonista suo malgrado di una delle più violente e terribili mutazioni che gli esseri umani hanno conosciuto. Le voci e le canzoni che dall’Africa sono traslate nel nuovomondo hanno continuato a pulsare e a riprodursi, hanno dato vita a quell’immenso mare di suoni di cui è fatta la nostra vita: emozioni che per pura semplificazione chiamiamo blues, rock, jazz e tutte le forme ibride e intermedie possibili. Roba seria che Atzeni ha sempre preso in debita considerazione. Sogno albe africane lontane dalle voci dal mondo Narra lo scrittore in un nervoso desiderio di fuga e redenzione. Le voci del mondo sono quelle voci che lui ha descritto in modo magistrale nei suoi scritti, nei romanzi, negli articoli giovanili. Voci senza voce, fuori dal coro, senza una logica da rispettare, suoni che arrivano dal nulla, che si contaminano, che diventano nuova lingua e alfabeto che non ha bisogno di essere soggiogato dalle regole della grammatica. Quel mondo ha sempre affascinato Atzeni e la sua opera è un lungo e periglioso cammino nei sentieri poco battuti della cultura popolare (o meglio pop). Senza troppe infrastrutture ideologiche e teoretiche, con la sola potenza del suono, dei profumi, degli sguardi. Corri treno, batti il ritmo, canta la tua canzone Nell’opera di Sergio Atzeni appare evidente che il suono e quindi la musica non è solo scuola e accademia ma qualcosa che ci portiamo dentro, che ci attraversa e avvolge. Sono mani che battono il petto, l’incedere fragoroso di mille gambe, il boato di animali che corrono e volano, un treno che ci trasporta lontano con la sua voce, il suo ronzio, il motorik del suo passo. Atzeni è ben cosciente che quella cosa che noi chiamiamo ‘musica’ è sempre presente nell’intimo delle cose: basta cercare, crederci, immaginare e ascoltare: come le pietre di Sciola finalmente liberate dalla loro stessa natura. Di notte muta in scimmia e danza, canta imitando i suoni del sassofono, prega senza sapere più che dica… Ecco un’immagine quasi kafkiana che Atzeni ci consegna nel quinto passo in cui è spontaneo immaginare una sottesa autobiografia. Riemerge la voglia di cambiamento, la mutazione agognata ma impossibile, la solita diaspora tra quello che siamo e quello che non possiamo essere. Ma conosciamo anche la medicina che ci può aiutare a risolvere la questione e ritroviamo in tanti passaggi dello scrittore. Dosi misurate e quotidiane di Mingus, Barbieri, Parker possono farci arrivare là dove desideriamo essere e divenire. La musica come strumento di liberazione sembra un abusato luogo comune ma è pur sempre una delle più vitali soddisfazioni che ci possiamo permettere. …come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci.. Acqua che scorre e suona, e viaggia e trasporta saggezza e ricordi. Acqua e suoni che arrivano anche alle orecchie (sempre ben aperte) di un trombettista di Berchidda che le accoglie e le sfama, le cresce, le trasforma. Nella musica di Paolo Fresu è facile ritrovare le parole di Atzeni, anche quelle non dette, soprattutto quelle. La musica di Fresu si incunea negli interstizi lasciati liberi in quelle storie, le completa e le anima. E non è solo colonna sonora o complemento di arredo è qualcosa di più intimo e connesso, è la naturale evoluzione di un pensiero pensato proprio per essere funzionale a nuove ipotesi estetiche. Una follia che è persino difficile da descrivere ma che riconosciamo subito nelle note che percepiamo nella trasposizione cinematografica del figlio di Bakunin, nel vibrante dialogo con Lella Costa, in tante altre occasioni. Stessa passione per il ritmo, per le voci che arrivano dal basso, e un costante richiamo a quella forma libera di pensiero che è l’improvvisazione che nasce e si consolida nella musica popolare più arcana, nel jazz e nelle visioni di Sergio Atzeni. Ballavano tremolanti nelle chiese, al suono delle ossa di Giuda…Si può seguire il PODCAST su:
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