“Il romanzo breve di Omar Viel è un’eccezione nel panorama italiano. Anzi, non sembra proprio un romanzo italiano. Non ci sono morti ammazzati, né commissari, né il tipico colore locale a tinte forti delle nostre faide, né quello a tinte pastello delle nostre genealogie famigliari tanto Kitsch quanto amate dall’import-export editoriale. Il cosmopolitismo non è un valore, ma lo diventa se, in un certo momento storico, il provincialismo letterario di una nazione si vanta di avere l’esclusiva su quella che di solito viene definita “la rappresentazione della realtà”. Come se la realtà fosse l’oggetto esclusivo del romanzo, e non invece l’esistenza dei singoli personaggi che di quella realtà cercano di sperimentare le molteplici possibilità.“
“Presero alloggio fuori hora. Due letti, un fornello elettrico e, oltre il giardino, quell’isola custode di meraviglie. Ace affittò uno scooter, Luna si occupò delle provviste. Visitarono spiagge e promontori, salirono e discesero le chine di quell’isola arenata come un cetaceo sulle secche del Mediterraneo.
Solo al tramonto si resero conto che Mick non era più nei loro pensieri.
Ace, dopo settimane di apatia seguite alla causa di divorzio, sentiva di nuovo battere nel petto i tamburi dell’esaltazione. Umile, curioso, si interessava alle conchiglie corrose dal salso, ai ciottoli levigati, alla leggerezza oracolare dei rami spezzati che affioravano dalla sabbia.
Presero l’abitudine di frequentare un ristorante del porto, dove pranzavano con mezedes e ctapodaki. Poi, la sera, si stendevano dove capitava, nel baricentro delle costellazioni, gli occhi fissi sul fulcro della galassia, finché Luna puntava il dito verso la stella che annunciava l’alba.
Con il passare dei giorni il corpo della ragazza si fece più muscoloso. Era possibile che Ace conservasseancora gli album per schizzi su cui annotava le misure di quel fisico. L’equilibrio delle forme nascondeva una regola e lui sapeva dove trovarla. Almeno finché Luna non smetteva di fargli da modello, si alzava e riprendeva a camminare. Allora lo stupore di Ace andava oltre ogni spiegazione, oltre ogni scienza. Le forme perdevano la loro armonia normativa e il canone si sviluppava in meccaniche imprevedibili.
Trascorsero sull’isola sei settimane. Nei giorni di mal tempo, quando il mare schiumava in una luce incostante, dedicavano intere giornate alla ricerca di Mick. Nessuno dei due pensò mai di chiedere al porto se da quelle parti si fosse visto un inglese con la pipa e i capelli rossi. Probabilmente si aspettavano di incontrarlo in un oliveto o seduto su una roccia, il Lexicon di Roscher posato sulle ginocchia, sfogliato dal vento. Non si preoccuparono nemmeno di nascondere a se stessi che cercarlo era solo un modo per rivedere una strada già percorsa nella luce sbagliata, un panorama invisibile dalla dorsale o il punto più impervio per osservare il tramonto. Se fossero stati una coppia di entomologi, si sarebbero limitati a cercare Mick Hornby sotto un sasso.
Mick, in realtà, non si era spinto a Lipsí. Non aveva nemmeno pensato seriamente di andarci. A Mykonos era balzato da un letto all’altro, immaginando che ogni amante occasionale fosse un barbaro superbo e balbettante, prostrato davanti ai suoi lombi di ellenista. Si era dimenticato di aver parlato con Ace. Londra era lontana e lui si sentiva in pace con se stesso. Aveva pensato persino di adottare un nuovo nome, Cleobi o Bitone – sì, il sereno Mick Hornby come Bitone, ma soltanto fino a sera, prima di scivolare nelle oscurità del mito e trasformarsi in un Atride, truce e infantile.
Dopo la telefonata, era rimasto a Mykonos solo un’altra settimana. Sei giorni in tutto, il tempo di imbarcarsi sul volo per casa in compagnia di un’infezione che in quegli anni seminava il panico tra gli dèi, senza spegnere la sete di Afrodite.”
di Elvio Carrieri Ti dico che l’uomo di cui mi chiedi ha causato la rovina di un chitarrista e la fortuna di un trombettista. Gli hanno sgranulato il femore. Menato, venti contro tre, gli hanno fatto il cappotto.
di Massimiliano Gusmaroli Ma il mio volto è anche per la vita,
il tutto che si para intorno, paesaggi
di alberi muri scorci d'orizzonte pianeta
che lo sguardo raccoglie nei suoi viaggi
di Lisa Ginzburg Che fosse brava a leggere le carte ora lo sapevamo tutti. Si era sparsa la voce: tornata dalla Francia (da Tolosa), ai Casoni adesso ci viveva con quel suo lavoro strambo, ma un lavoro – e chi lo avrebbe mai detto, cinque anni prima quando se n’era andata via, raminga e senza pace, che si sarebbe saputa reinventare così, con tanta forza e stranezza.
di Carlo Lucarelli Appoggiato a uno scaffale di quella libreria nuova di zecca c’è un ragazzo e ha letto i miei libri. Mi dice che gli sono piaciuti e vengo a sapere che è sardo. Gli dico che c’è un autore Sellerio di Cagliari che mi piace molto, chissà se lo conosce. Si chiama Sergio Atzeni. Lui sorride e dice: “sono io Sergio Atzeni”.
di Miriam Corongiu Se la favola antica e moderna de “La lucina” arriva al nostro inconscio quasi esotericamente, sottilmente, rispolverando il fine ultimo della favola stessa, ne “La luce inversa” è l’ipotesi di un futuro salvifico, concretizzato dall’invenzione tecnologica, a polverizzare tutte le nostre fortezze interiori.
di Gianni Usai Non avrà vent’anni. All’uomo riporta alla mente fantasie contorte e pervicaci mal di pancia che si fanno parole; sogni e incubi dimenticati o mai ricordati che riaffiorano tra le righe e si propagano in vite aliene, da vivere per interposta persona fintanto che gli si dà forma.