di Maria Moresco
Il brevetto è nato nel ’700 in ambito anglosassone per proteggere la proprietà intellettuale di manufatti meccanici per una durata di vent’anni. La persona che otteneva il brevetto sulla propria invenzione doveva essere in grado di usare, riprodurre e riparare l’invenzione medesima, di averla sotto controllo. La mentalità del brevetto comunque appartiene solo a una parte del mondo, in quanto in certe culture come, per fare un solo esempio, in quella indiana, non si considera il sapere come qualcosa di esclusivamente privato, ma come tramandabile all’interno di una comunità.
Tutta la questione dei brevetti è regolata da norme giuridiche che amano presentarsi come neutrali e universali. Il concetto giuridico si presenta come “disinteressato”, come garante di norme e diritti. Il problema è che rispetto a certe problematiche odierne il sapere della scienza e la semantica del diritto formano un ibrido con caratteristiche tutte sue, in cui le norme vengono riempite di contenuto “scientifico”. Ci sono cioè scelte giuridiche che aiutano gli scienziati a affermare se stessi e i propri interessi. Il diritto dunque non è né neutrale né disinteressato.

Accade spesso, se si ascoltano spot pubblicitari televisivi o se si sfogliano certe riviste patinate, che i termini Piacere e Godimento siano usati come sinonimi. Invece, caro lettore, devi sapere che sussiste tra essi una complessa ed articolata differenza e che proprio il confronto tra questi due concetti è un tema fondamentale nel dibattito psicoanalitico e filosofico contemporaneo.

Dicevamo strano periodo, questo. Nei primi tre mesi del 2004 un significativo numero di raccolte di racconti italiani, e sottolineo italiani, ha inondato le librerie. Si vede che lo stato di salute della nostra narrativa non è poi così malandato. Si vede che sono in tanti a pensare che valga la pena misurare la temperatura della nostra capacità di rappresentare il Paese e noi stessi.
A scuola è muto, dicono: forse gran pensatore – mio figlio? – o forse è scemo. Robusto – diciamo grasso – e non mette il grembiule. E non piange e i suoi capricci sono in forma di coriacee ostinazioni. Non che sappia molto di lui, solo che è un ragazzino distratto e chiuso e – come dice sua madre – patologicamente solo.
[Seconda puntata del racconto per le criature. Potete stampare il delfinotto qui di fianco e occupare la criatura con i pennarelli per un paio di minuti, giusto il tempo di fare quella benedetta telefonata che rimandate da stamattina. Nota del curatore: avevo scritto una canzone di argomento delfinesco. Credo che la si possa ascoltare cliccando 
La discussione – anche aspra e inelegante – in corso in questi giorni su Nazione Indiana in seguito a uno scritto di Massimiliano Parente, è a mio parere utile e interessante e permette di riprendere e approfondire alcuni degli argomenti che sono già stati affrontati più volte nel nostro primo anno di vita. Per quanto mi riguarda, ho già detto come la penso a proposito di alcuni degli argomenti sollevati anche adesso in uno scritto intitolato Lettera da Leuca, già pubblicato
Ragioni forti per dare un numero alle repubbliche ve ne sarebbero state ben più che da noi. Penso agli USA del periodo successivo alla guerra di secessione (1861-1865), definita anche, sulla base di interpretazioni storiografiche assai diverse, il secondo e decisivo round della rivoluzione americana, la guerra di liberazione degli Stati del Sud contro l’egemonismo industrialista e nordista, la guerra politica, religiosa e sociale contro l’infamia dello schiavismo, la guerra del liberoscambismo filobritannico sudista contro il protezionismo manifatturiero del Nord, la guerra dell’economia della piantagione contro il mondo urbano fondato sulla produzione di beni di consumo durevoli e sul factory-system.
[Ecco il racconto “fatto in casa” destinato ai visitatori di Nazione Indiana dotati di criature, siano esse reali o interiori.






