di Benedetta Centovalli
Ieri mattina alla radio ho sentito la notizia di un ragazzino palestinese di dodici anni ucciso da soldati israeliani a Ramallah, in Cisgiordania. I militari avrebbero sparato contro un gruppo di ragazzi che lanciavano sassi. Una mattina come un’altra. Tanti morti anche giovanissimi la cui tragedia rischia di non farsi più sentire. Non ne siamo colpiti, non ne siamo scandalizzati. Rumore. Poi silenzio. Quello che passa tra la notizia e il momento in cui dovremmo comprenderne il senso. Meglio allora tornare di corsa al rumore. Sta accadendo a tutti noi una cosa terribile: ci stiamo abituando. Ci siamo abituati ad alzarci la mattina e venire a sapere dell’ultimo attentato in Israele, in Iraq o altrove. Ci siamo abituati alle frasi di circostanza che descrivono la situazione, alle immagini e ai reportage che si ripetono.

Un mese fa ho comprato Tour de France Soundtracks dei 
Nel 1917 un generale inglese conquistò la Mesopotamia e alla fine della prima guerra mondiale l’Iraq fu assegnato alla Gran Bretagna. Il primo bombardamento aereo non è stata la carneficina di Guernica ma la campagna inglese in Iraq tra il 1920 e il 1924, come racconta il comandante delle operazioni militari Arthur Harris: «Gli arabi e i curdi adesso sanno cosa vuol dire un vero bombardamento in termini di vittime e danni; adesso sanno che nel giro di quarantacinque minuti un intero villaggio può essere praticamente spazzato via».
The Observer di domenica scorsa era succulento assai. Una ricostruzione storica di Weatherman, gruppo terrorista statunitense degli anni Settanta, un’anteprima su Kill Bill, l’ultimo film di Quentin Tarantino, un’intervista a Kenneth Branagh su celebrità e depressione, una a Lord Heseltine, pezzo grosso della destra inglese, un servizio su Grayson Perry, artista travestito da bambola che dipinge abusi sessuali sull’infanzia, un articolo sulle coppie lesbiche che fanno conoscenza in rete, notizie su un piano del governo britannico per mandare all’università gli studenti poveri e su un dispositivo da far indossare ai pedofili per tracciarli elettronicamente.
All’inizio degli anni 70 del secolo scorso eravamo teenagers e ci aggiravamo nelle medie inferiori, negli inizi delle superiori. Ora non riesco a ricostruire il momento esatto, ma il luogo e la persona sì. Siamo fra il ’71 e il ’73, a Torino, il mio amico Giorgio Prandi e io, a casa sua, in corso Palermo. Giorgio mi esibisce con entusiasmo un LP. La copertina è colorata: una strana creatura se ne sta minacciosa in una landa a strisce colorate sotto un cielo blu, più chiaro all’orizzonte. Ossa di carcasse biancheggiano in lontananza. Una quindicina di zanne o denti compongono una scritta: 



La camorra diviene crimine quando perde,
Un film può essere valutato come prodotto cinematografico, e poi – se ha una certa rilevanza – come interprete dei propri tempi o come sintomo.

Mentre leggevo il romanzo dell’estate di Nazione Indiana che si è sviluppato prima in coda al pezzo di Raul Montanari per poi passare alle lettere di Moresco, ho avuto la sensazione che non solo i testi si sono persi di vista quasi subito, ma che nelle varie derive tematiche l’unico tratto continuativo fosse la trasformazione dei due autori in personaggi. Niente di strano, così come non è poi strano che il botta e risposta del blog porti a parlare di altro e ancora d’altro. Anche gli articoli di giornale sull’imam sciita sventrato dal tritolo o sull’assassino di Rozzano o su George Clooney a Venezia fanno del loro oggetto un personaggio, anzi la prima cosa che deve fare chi li scrive è, come si dice in gergo, “inquadrare il personaggio”. Non c’entra niente che si tratta di informazione che deve (dovrebbe) riportare solo dati e fatti. Ed è chiaro che, come personaggio, un killer delle periferie o un divo di Hollywood funzionano meglio di un ministro dell’agricoltura o di un amministratore delegato, una delle ragioni per la quale non sappiamo quasi nulla o addirittura ignoriamo l’esistenza di molte persone influentissime.