TQ: fenomenologia di una generazione letteraria allo specchio: Federica Sgaggio

Sognai che ero una farfalla
che d’esser me sognava
guardava in uno specchio
ma nulla ci trovava
-Tu menti-
gridai
si svegliò
morii.
R.D. Laing


Intervento di Federica Sgaggio sull’incontro dello scorso venerdì svoltosi a Roma intitolato, Generazione TQ, Oltre la linea d’ombra. Ne seguiranno sicuramente degli altri qb. Avviso ai naviganti: comportatevi da persone civili.

Nel pezzo che sul Sole 24Ore ha dato pubblicità all’iniziativa Tq del 29 aprile, leggo che i promotori si dicono mossi dalla «volontà di superare la linea d’ombra che finora» li «ha protetti e uscire finalmente allo scoperto»; che «i tempi sono maturi per parlarne tutti insieme».
Io credo di avere qualcosa da dire. Da domandare, forse.
E mi va di cominciare così: io sono da questa parte qua.
Dice: quale parte, mia cara?
Da quella dei tq, per capirci.
Parlo – facciamo, per semplificare – da dentro (su, fate i bravi: non ditemi «ecchi tte vòle, a’ fata?»).
No, al seminarione Laterza non c’ero.
Ma se dovessi scegliere da che parte stare starei dalla parte di chi è andato al seminarione Laterza,

e non dalla parte di chi, come Massimiliano Parente, scrive che Gilda Policastro gli ha procurato un’erezione, che Veronica Raimo è molto più bella del fratello, e che Giorgio Vasta è pallido e calvo come l’Osservatore di «Fringe» (e meno male che c’è Google images).

Non saprei se per questioni generazionali o no – ne dico dopo, e poi non ho idea se un ventisettenne o un quarantanovenne siano o no tq; non so se essere tq sia un sentimento o una condizione oggettiva, insomma – di certo non mi sento né di destra né anziana né fuori moda né appartenente all’universo di quei «nostri padri o fratelli maggiori hanno più potere, ma valgono molto meno di noi» o a quella «generazione che si porta sulle spalle innumerevoli e conclamati fallimenti» di cui qui – – parla Nicola Lagioia.
Perciò sappiate, cari tq, che starò dalla vostra parte (quasi) qualunque cosa accada, ma non rinuncerò a dire alcune cose, da «amica», e non da «frazionista».

La primissima è questa.
Molti di voi scrivono per giornali importanti, lavorano per case editrici belle e importanti; alcuni vanno in tv.
Eppure, dite di «voler superare la linea d’ombra».
Cosa intendete, esattamente?
Parlate di visibilità?
Ne volete di più?
Se al di qua della linea d’ombra (sia pure a un insoddisfacente livello 1, poniamo), ci siete voi tq, in quale profonda oscurità si trovano quelli che non scrivono per giornali importanti, non lavorano per case editrici belle e importanti e non vanno in tv?
«Eh, ma quelli potrebbero benissimo non meritare altro che la più profonda delle oscurità», mi si potrebbe obiettare.
Sicuro.
Ma chi decide che qualcuno merita di superare la linea d’ombra e altri no?
E su quale parametro? Non su quello delle copie vendute o del «successo» personale, se Vasta si domanda qui – – «possiamo continuare a pensare che abbiano tutti torto perché non ci leggono?».

Un altro punto che mi ha mosso qualche riflessione riguarda il fatto che l’iniziativa – pur non aperta a tutti ed evidentemente destinata a un gruppo di invitati – sia stata pubblicizzata prima ancora di aver luogo.
La pubblicizzazione del seminario ha avuto il significato di avvertire i lettori del Sole 24Ore dell’esistenza di un gruppo chiuso di persone che da tempo riflettevano su alcune questioni?
Diversamente, se il gruppo già si considerava – con le virgolette o no – «comunità», io non mi spiego perché si giudicasse necessario pubblicizzare l’iniziativa prima ancora che il gruppo avesse raggiunto – faccio per dire – una «piattaforma» comune su cui chiedere eventuali adesioni a esemplari umani dei livelli 2, 3 e 4 trans-linea d’ombra, o magari anche dei livelli 0 o meno 1 del paesaggio cis-.

C’è anche quest’altra cosa. Se non ho capito male (e potrei), i tq pensano che abbia senso porsi il problema dello statuto «professionale» dell’intellettuale. Mi domandavo: ma esiste l’«intellettuale» o esistono le «professioni intellettuali»?
E quando si chiede «che lavoro fai?» a qualcuno che svolge una professione intellettuale, costui o costei rispondono più facilmente «sono un intellettuale» o «sono un insegnante», «sono uno scrittore», «sono un giornalista» (ammesso che il giornalismo sia una professione intellettuale)?
In altri termini, vista dall’altra parte: che lavoro fa un «intellettuale»?

In franco e aperto disaccordo sono, poi, su due questioni.
La prima è l’approccio generazionale; la seconda la ricerca di un «anno zero» al quale fare risalire una repentina virata dello spirito dei tempi, che si suppone aver informato di sé il profilo di un’intera «generazione».
Un cinquantenne operaio precario licenziato da un’azienda manifatturiera e un trentenne insegnante precario condividono le conseguenze della nichilizzazione del lavoro come grandezza politica oppure la generazione?
Ha senso – mi domando – pensare che il problema della crescente insignificanza dei diritti dei lavoratori sia periferico rispetto alla questione della generazione?
E ha senso – mi domando – identificare (lo fa Antonio Scurati qui la prima guerra del Golfo come l’istante in cui, vedendo «cadere le bombe su Baghdad in televisione mentre» si sorseggiava «birra sul divano», un’intera «generazione ha assunto una postura spettatoriale che» le «impedisce di dare un’unghiata al mondo»?
Cosa significa? Che la guerra è uno spettacolo solo perché non ne abbiamo esperienza diretta? Che i racconti dei nonni non hanno avuto su di noi alcun impatto emotivo? Che studiare la storia non è servito a niente? Che l’attivismo politico o anche solo il ribellismo (posto che significhino qualcosa) non davano alcuna possibilità di «leggere» le guerre come eventi autentici e non spettacolari?

Io non so se, come dice Scurati, i giornali di carta stiano morendo.
So che non stanno affatto bene, e che la democrazia interna ai luoghi di lavoro – e non solo nei giornali – è gravemente malata.
Ma penso che fino a quando le forme della rappresentanza dei cittadini non avranno trovato un senso – ovvero fino a quando il problema che ci si pone non diventa politico (e non dico che sia una cosa facile; però bisogna ammettere che è tutt’un’altra prospettiva rispetto a quella assunta da tq) – qualunque desiderio di intervenire sulla realtà non potrà che tradursi in una questione intorno alla visibilità, in trasformazione di sé in simbolo; nella creazione di un «marchio».

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37 Commenti

  1. Io, quando mi chiedono “che lavoro fai?”, se devo dare una risposta precisa, esatta, esaustiva, rispondo “il precario”. Ho iniziato a dare questa risposta quando ho realizzato, per dire, che uno schiavo della Georgia del XVIII alla domanda “che lavoro fai?” probabilmente non avrebbe risposto “l’agricoltore”, o “lavoro nel campo dell’agricoltura”.

  2. Curioso, davvero, promuovere un incontro su una generazione eternamente giovane che fra quindici anni si chiamerà gli under 60 e invece di Moravia e Fellini rimpiangerà Foster Wallace, Tarantino e un’idea di vecchaia. A me pare, a pelle, ma è appunto una mera impressione, limitata alla lettura di qualche intervista e reportage giornalistico con commenti vari dei promotori, oltre che di questo post, che tutto quello che rimarrà di questa iniziativa siano i soliti due o tre nomi della mia ‘generazione’, che reclamano più ”potere’ di quanto già non ne abbiano già, a livello editoriale. Credo che fra cinque-dieci anni, queste persone acquisteranno più potere a livello editoriale, perché sono già, e lo sapete benissimo (Nicola, Mario, sto parlando con voi), parte di un ricambio di establishment. Spero di sbagliarmi, e che al seminario ci siano stati interventi sui contenuti, e che al di là dello specchio della libera stampa, si sia affrontato il tema del ‘potere’ .

  3. Alla riga sette c’è un “già” di troppo, scusate, volevo dire: “di quanto già non ne abbiano”

  4. Caro Winston (anonimo Winston) non leggo ‘il giornale’, sono una persona di sinistra e mi interessa molto quello che accade dalle ‘mie parti’, quindi ne scrivo, criticamente, perché vorrei che certe cose cambiassero, per esempio gli aut aut del tipo: se cerchi di fare un discorso sul ‘potere’, trasparente, guardando gli assetti reali e le loro possibili future evoluioni, e magari ti senti di dirlo pubblicamente, allora fai il gioco delle lobby giornalisitche di destra. Eh no, così non vale è troppo facile. Un saluto.

  5. Questa cosa delle generazioni ha veramente rotto. Anche questa cosa degli intellettuali ha rotto. Anche il volere per forza identificare un “evento spartiacque” è un giochino che ha rotto, un modo per illudersi di avere un rilievo che non si ha nel flusso del divenire storico.
    Il problema è una sconvolgente mancanza di identità, di personalità, se vogliamo, da parte degli scrittori e da parte degli editori. Gli scrittori sanno che se non rientrano nei soliti giochini di potere non vanno da nessuna parte e gli editori pensano che se non pubblicano roba standard non vendono nulla. In mezzo a questi estremi di miseria, ballonzolano le conventicole. Per carità, alla fine si tiene tutti famiglia, o per lo meno un affitto o un mutuo da pagare.
    C’è da dire che l’epoca storica non aiuta.
    Credo che un’epoca più conformista di questa non ci sia mai stata.
    Nei libri di storia futura (se ci saranno) questa parte di storia dell’occidente sarà denominata Epoca del Livello Standard Indifferenziato.
    Almeno Parente, ha mordente. C’è anche la rima.
    Ormai per leggere qualche articolo di critica sagace bisogna sfogliare il Giornale. Segno dei tempi.

  6. Comunque l’articolo di Parente è forte. Veramente. Mi piace quel ragazzo. Certo, anche lui però dovrebbe trovarsi un lavoro. PR in qualche discoteca della Puglia andrebbe bene. Magari sul cubo ballano la Policastro e la Raimo.

  7. Non credo neppure io, in senso stretto, alle generazioni, ché poi trenta-quarantenni significa autori che agli estremi possono avere 20 anni di differenza, quindi immaginari generazionali per nulla condivisi, però, Massimo, anche il tuo tipico “o tempora o mores” ha un po’ rotto.
    Io di quello che diranno nel futuro i libri di Storia me ne sbatto bellamente. Sarò morto.

  8. Scusate l’acidità, ma sono in preda a una immane risata ideologica: ebbene sì, continuo a pensare che un “manifesto” che appare sul Sole 24 Ore si scredita automaticamente, al di là dei contenuti specifici che propone. Pensate che spasso: nei resoconti dell’incontro della Generazione TQ si legge della volontà, da parte degli intellettuali autoconvocati, di voler sottrarsi “alla logica del mercato”, di voler provare “a scegliere un lessico e categorie nuove, che non ricalchino schemi di ideologie”, oppure di voler sfidare “questa realtà” … E da dove lo fanno? Dall’organo di stampa che più di ogni altro esalta il mercato e il liberismo, dal quotidiano che più di ogni altro promuove l’ideologia dominante, da quello stesso giornale che non ha esitato a esaltare il ricatto di Marchionne contro gli operai Fiat, costringendoli alla “realtà” d’una nuova schiavitù … Scusate, ma proprio non ce la faccio: mi viene da ridere.

    Va bene, provo a togliere il ghigno dal mio viso e a entrare nei contenuti … Si parte dalla volontà di “provare insieme a ricostruire un orizzonte comune”. Sulla base di che? Di “un nucleo di idee dalle quali ripartire”, e che siano in grado di rispondere ad alcune domande capaci di “rimettere a fuoco la figura dell’intellettuale”. Già, ma per fare cosa?

    Non ho trovato grandi risposte. Parrebbe per contare di più in quanto intellettuali … Ma proponendo quali contenuti? Quale visione della società? Quale modalità di cambiamento? Cercando spunti, ho trovato solo alcune frasi fatte (tipo “decifrare meglio il mondo che ci circonda”) e … No, scusate, ho anche trovato il grande contenitore del Sole 24 Ore … Riprendo a ridere, scusate-scusate …

    Condivido la parte finale dello scritto di Federica Sgaggio. La questione è politica. Ma sapranno, questi intellettuali TQ, dire qualcosa di dirimente e di fondamentale? Sono troppo preso dal mio ghigno per crederci …

    PS: a differenza di Scurati e della generazione che tratteggia (falsa, troppo “letteraria”; basti pensare che poi ci sarebbero stati Seattle, Genova, etc), allo scoppio della Prima Guerra del Golfo io uscii di casa per manifestare contro. E non eravamo pochi. Chissà perché nessuno si interessa mai alla generazione dei “militanti”: trasversale, fluida, intelligente e stronza, senza età, anonima, precaria e instabile da sempre, non intellettuale ma che non disdegna il pensiero, teorica quando serve, pronta a dare e ricevere mazzate, presente, sporca, erronea …

    NeGa

  9. Non era esattamente un “o tempora o mores”, Gianni, ma per il resto concordo pienamente con te. Non è roba da perderci il sonno.

  10. Salve a tutti. Do il mio contributo alla discussione, riportandovi qua sotto il testo di una mia email mandata l’indomani di TQ ai partecipanti, per tentare di fissare un tavolo di discussione concreto.

    Care e cari tutte e tutti.

    Avendo bazzicato per anni il mondo della poesia, adesso vedo riproposte in ambito narrativo le stesse problematiche di evanescenza e perdita di mandato sociale ecc. (mi scuso per la rozza sintesi) e ciò mi fa paura, lo confesso, perché avete tutti sotto gli occhi la fine che sta facendo la poesia. Le cose sentite venerdì sono quasi quindici anni che le sento tra i poeti (la mia prima raccolta è del 1996). Ora si stanno spostando tra gli scrittori e questo mi fa sudare un po’ freddo. Per la poesia si dice “C’è voglia di poesia, tutti scrivono poesie, le canzoni sono piene di poesia ecc.” però il mercato è pari a zero. Eppure si fanno laboratori di poesia nelle scuole (tantissimi), c’è un sacco di volontariato, festival ecc. ma niente: nessuno compra un libro di poesie che sia uno (tranne di Alda Merini, of course).

    Benissimo dunque la penetrazione nelle scuole, i festival dove vanno i non-lettori ecc. Ma questo mi pare che si faccia già, o sbaglio? Almeno io lo faccio e lo vedo fare. Mi direte: facciamolo ancora di più. Certo, rendiamolo ancora più capillare e sistematico.

    I risultati comunque saranno a lungo termine, generazionali, dunque al massimo li vedranno i nostri figli. (Illuminante al proposito è l’approccio ecologico di Bronfenbrenner, cfr. Ecologia dello sviluppo umano) E intanto?

    Ognuno faccia del suo meglio nel proprio ambito. Io come traduttore ho fatto quello che vi ho detto e un altro punto importante, ad es., sarebbe ottenere una percentuale sul venduto delle traduzioni (il pagamento è sempre forfaittario, sia che il libro venda poco o molto). In Germania (tanto per rompervi di nuovo con un suggerimento che temo sia stato travisato) è previsto che il traduttore, oltre al forfattario, percepisca una percentuale sulle vendite. Ma come ci si arriva? O trovi l’editore illuminato, o procedi per vie legali, crei il precedente. Le conquiste delle società si sono ottenute anche nei tribunali, se è necessario, no?.

    All’ottica “quanto sono disposto a rinunciare io”, auspicabilissima, aggiungerei: “Quanto sono disposto a fare per gli altri miei compagni di strada [magari rinunciando a qualcosa io]”? Detta meglio, è la we-rationality di Robert Sugden, secondo cui per decidere quali azioni intraprendere non bisogna pensare “questa azione ha buone conseguenze per me”, ma “questa azione è la mia parte di una nostra azione che ha buone conseguenze per noi”.

    E qua veniamo all’altro punto che temo anch’esso sia stato un po’ frainteso venerdì. Per incidere realmente la prassi deve essere sistematica e avere un effettivo potere contrattuale, sennò sono microazioni più o meno individuali, più o meno collettive. Che si faccia realmente sistema e che tutti noi (nessuno escluso) si pubblichi con quegli editori che erano presenti venerdì, e dunque Mininum, Fandango e Laterza – che sono l’avanguardia dell’editoria di qualità. Che comincino quelli che hanno maggiore peso contrattuale, e dunque Flavio, Michela, Valeria, Antonio, Vanni, Federica e via via a macchia d’olio con una moral persuasion Saviano, Giordano, Piperno, ecc. e parallelamente tutti gli altri. Insomma che l’operazione Veronesi-Fandango e Lucarelli-Camilleri Mininum fax diventi Sistema. Non a caso anche qua c’entra Sudgen. Oppure che qualcuno di noi fondi la “nostra” agenzia letteraria, raccolga tutti (italiani ma anche stranieri) e qualcosa succederà.

    Allora vedrete che l’asse del mercato comincerà a inclinarsi nel giro di un paio d’anni, avremo più potere contrattuale e anche la dominazione delle grosse catene librarie che soffocano le piccole librerie indipendenti (altro problema innegabile) dovrà cominciare a ripensarsi.

    Buona giornata.

    Flavio

  11. Mi pare giusto lottare per ottenere posti da menestrello anche per le nuove generazioni. Si potrebbe sfilare con a capo il capace critico Andrea Cortellessa (alla cui persona rinnovo ovviamente il sostegno per ospitare con ampio merito, nella parte est del suo corpo, il più esteso parco nazionale della letteratura d’Europa, aperto tutti i giorni con onorario continuato), sotto lo slogan “per descrivere un paese grande, non ci vuole un menestrello grande, ma un grande menestrello “ e chiedere la fondazione immediata del ministero alla finzione pubblica.

    A parte gli scherzi, non conosco Massimiliano Parente, lui non conosce me e siamo pari. Però come umorista non è male. A me sono piaciuti diversi p(est)assaggi del suo articolo. Per esempio quello circa la promozione di una raccolta firme per far diventare capoluogo di provincia il vasto critico letterario Andrea Cortellessa, almeno la parte nord-ovest. O quest’altro, l’adagio assai riassuntivo dello spirito dell’evento, il cui contenuto mi sembra condiviso anche da Federica Sgaggio: “ casta mia casta mia per piccina che tu sia tu mi sembri una badia “. E quest’altro ancora, che sarebbe il principale precetto che a MP, il quale dimostra di avere felice vena autoironica, avrebbe impartito il mitologico padre: “ metti la testa a posto, figlio mio, altrimenti rimarrai un disgraziato: se proprio non ce la fai a delinquere, come sarebbe bene, almeno smetti di scrivere e drogati o prostituisciti come tutti “ consiglio che in parte MP pare aver assimilato, visto le testate pelate per cui scrive e il prossimo lavoro di PR nelle discoteche della Puglia. Non so invece giudicare il suo lavoro di promoter della show-writer Gilda Policastro.

    Per il resto, non sminuirei troppo l’esito del con sesso rom ano. Quella di chiedere a tutte le tv del mondo di ignorare la letteratura è li stanza più forte, perché, è il raffinato ragionamento “ se le tv sono costrette dal senso di colpa culturale a dare spazio a noi che siamo bravi ma non contiamo un cazzo, per rappresaglia daranno spazio mille volte di più ai cialtroni che contano! “ Non fa una grinza. Lo stesso sarebbe per i giornali… Ma anche la richiesta di chi usura immediata degli Assessorati alla Cultura; ancora di più il rifiuto di qualsiasi finzionamento pubblico per almeno 5 anni, che fa concorrenza sleale agli scrittori più creativi ma iso lati che non hanno alcuna protezione politica; il giusto proposito di darsi da fare come scrittori per inventare parole nuove, per sostituire quelle sciupate, a partire dalla parola cultura. Naturalmente io mio allineo all’appello dei TQ più radicali di riprendere dagli antenati il gusto sacrilego di spernacchiare gli scrittori che vogliono incidere sulla realtà, che del resto esiste solo dopo che gli scrittori l’hanno inventata.

    Formidabile e condivisibile lo slogan di lancio del gruppo TQ: agli artisti le cose che riescono meglio sono quelle a rovescio.

    Ps: scusate la brevità, ma ora mi sto addormentando.

  12. La lettera di Flavio Santi offre spunti interessanti.

    Un primo appunto: non era già Mallarmé a lamentarsi della perdita del mandato sociale? E non scrisse, proprio a partire da ciò, quello splendido poema che è “Erodiade”? E se fosse, questa condizione di separazione dalla vita sociale, la caratteristica dell’arte tutta nel tempo del capitale? E non hanno tentato sempre di resistere, gli artisti, a questa condizione di separatezza? Talvolta “fecendo gruppo”, talvolta chiudendosi in uno “sterile sciopero” individuale, altre ancora politicizzando la propria arte, non c’è periodo storico dove gli intellettuali non abbiamo ripensato se stessi, la propria collocazione, la propria “funzione sociale”. Sempre fallendo, o riuscendoci solo in fase acute di scontro … Insomma, non c’è periodo dove non si affronti, in un modo o nell’altro, il rapporto tra pensiero (e linguaggio) e realtà (che poi questo è il problema, ovvero la consapevolezza della crisi della “rappresentazione” e della “rappresentanza”). Proprio per questo sapore di già-sentito il rischio dell’operazione TQ è quello di apparire come un’ambigua richiesta di contare di più, ovvero di assumere più peso nel mercato delle lettere o del pensiero. Mercato e pensiero cambiano se cambia la società; se non cambiano, detto brutalmente, ogni intellettuale dovrà fare i conti con la marginalità (o farsi embedded, certo) … Ma se si vuole che cambito, ecco, allora si torna alla politica …

    @ Larry
    O mio simpatico amico, approvo quell’intento di recuperare “il gusto sacrilego di spernacchiare gli scrittori che vogliono incidere sulla realtà”, però, permettimi, che la realtà esista “solo dopo che gli scrittori l’hanno inventata” è una evidente e tragica (comica?) contraddizione …

    NeGa

  13. Io al convegno c’ero e me ne sono andato in anticipo, deluso. Non sono intervenuto perchè non mi piaceva il metodo – cinque minuti per uno in mezzo a centocinquanta persone, e ognuno diceva la propria senza un reale discorso, senza un ragionamento “forte”, un autentico filo conduttore; era pressoché inutile intervenire così.
    La cosa che m’aspettavo era una discussione “estetica” (invece non mi ricordo chi, forse Ostuni, ha espresso la propria gioia per il fatto che, dopo un’ora di dibattito, non si parlasse di estetica), e cioè m’aspettavo che ci chiedessimo più o meno: quali possono essere oggi, venerdì 29 aprile 2011, le traiettorie di pensiero e d’espressione per chi si professa romanziere o critico o poeta? Quali i linguaggi? Quali sono gli sbocchi possibili e quali i naufragi definitivi? Nell’ambito d’una crisi antropologica radicale che include la cultura come la famiglia, la religione come la politica, l’economia come la scienza, cosa può provare a dire ancora uno scrittore? Che contributo di senso può dare? E’ ancora fattibile darlo? Oppure, travolta da una iper-modernità sempre più veloce, onnivora e nichilista, ogni sensatezza, ogni cognizione “poetica” del mondo diventa pia illusione?
    Quali potrebbero rivelarsi i maestri (è sterile sottolineare ancora il ruolo molesto e/o dannoso dei sessantottini e post-sessantottini, ed è presuntuoso fare a meno di maestri), quali i discorsi passati da riprendere e magari sviluppare? Chi ci ha detto e ci dice ancora qualcosa d’essenziale?
    Perché un romanzo del 2011 non può somigliare non dico a un romanzo del 1911 o del 1951, ma neppure a uno del 2001? Forse neppure a uno del 2005?
    Come può lo spazio interiore, il respiro del linguaggio e dunque del pensiero stare al passo con tempi così severamente impegnativi? Come si coniuga l’umanesimo con la tecnica? La riflessione con facebook? La concentrazione con l’ipod? La durata con l’ebook? Una storia narrativa con le nuove sconvolgenti scoperte della fisica? Una lirica con le prospettive di un’umanità perpetuamente connessa, interfacciata, mescolata, disillusa di tutto ma al contempo bisognosa di speranza su tutto?
    Finché sono rimasto, ovvero fino alle otto e mezza di sera, s’è discusso invece di temi che andavano dal mercato editoriale alla visibilità, dall’aspetto economico della professione intellettuale al ruolo di librerie e biblioteche e trasmissioni tv, per poi tornare all’ossessiva diagnosi dei nostri mali – diagnosi che i convegnisti, definendola pars destruens, non hanno mancato peraltro di denunciare come inutile in quanto oramai troppo sviscerata.
    L’unico intervento pertinente (a parte Vasta, che m’è parso sfiorare nella sua prolusione alcuni temi più “metafisici” che fisici, più sostanziali che formali se così posso esprimermi) è stato quello d’una giovane regista di cui non rammento il nome la quale ha drammaticamente, con un’eloquenza semplice e spietata, ricordato a noi tutti che mentre continuiamo a parlarci addosso la vita scorre, e fra poco la generazione TQ sarà QC, e poi CS, e poi…eccetera eccetera.
    Aggiungo due cose velocissime riallacciandomi al discorso (che condivido) della Sgaggio: a) le questioni che ho sollevato le ritengo profondamente “politiche”; b) le questioni che ho sollevato non sono soltanto “intime”.

  14. TQ, ossia “Tutto Quoto” del doppio commento di Gambula.

    @Flavio Santi: che “fine” sta facendo la poesia?

    un saluto,

    f.t.

  15. Questo è masochismo. Una convention in casa Laterza di autori in cerca di etichettatura che si definiscono TQ è imbarazzante e sembra fatta apposta per offrire il destro a un personaggio come Massimiliano Parente – di cui non vedo l’ora di leggere Contronatura, e non scherzo – che, per fare l’outsider, all’incontro ci va da insider già pregustando di andar via – se ne sarà accorto qualcuno? – per scrivere il suo pezzo sul Giornale dove pubblica perché, ennò, lui mica fa camarilla con la sinistra culturoide! e insomma, di tutta l’operazione a sfondo marketing, l’unico che ha saputo vendersi qualche gadget, ovvero la propria immagine “contro”, è stato Parente, che secondo me il pezzo scimmiottante sui TQ ce l’aveva in tasca ancora prima di entrare nel salone, e per il quale il commento del dj di Radio Rock ( ” Dopo aver sentito questi qui Berlusconi lo voterei subito”) deve essere stato provvidenziale, per la sua marchetta da uomo libero però, perché lui no, non ha paura! no, non ha paura! di scrivere per l’house organ del Potere in Carica.

    Lo scrittore, il giornalista, l’insegnante: non hanno che un mezzo lecito per comunicare: i loro libri, i loro articoli, e, su tutti, le loro classi! dove l’insegnate può invitare, tra le altre cose, a informarsi sui giornali e a formarsi sui libri.

    Il resto – un pizzico di sincerità evvia! – non è che il tentativo di elemosinare un poco di attenzione per ottenere quanto più potere coi mezzi meno creativi e più convenzionali e salottieri possibile.

    Un saluto,
    Antonio Coda

  16. continuo a pensare che un “manifesto” che appare sul Sole 24 Ore si scredita automaticamente, al di là dei contenuti specifici che propone

    Mi pare giusto lottare per ottenere posti da menestrello anche per le nuove generazioni.

    sono indeciso tra queste due
    sin-
    tesi

    poi rifletto e
    mi accorgo che l’indecisione è
    solo ap-
    parente (ma di chi?)

    perché la sintesi delle sin-
    tesi
    può darmi la quadra:

    continuo a pensare
    che
    per ottenere posti da menestrello
    basti un “manifesto” sul Sole
    24 Ore

    e la s-quadra:

    ben in-
    teso,
    al di là dei contenuti specifici
    che pro-
    pone
    , soprattutto
    per le nuove generazioni
    il miglior menestrello rima-
    ne sempre
    il parente, l’autentico
    ”manifesto” di
    se stesso – id est del più
    antico mestiere del
    mondo

  17. dai, parliamo un po’ di noi… anche se non abbiamo un cazzo da dire. bleah… s.s.s. (seghe-senza-sb*rra).

    lorenzo c.

  18. lobby-hobby-Hobbit

    Premesso che
    non amo la letteratura intesa nelle seguenti accezioni:
    Lobby
    delle aree geografiche o editoriali, Romacentrica-Romaperiferica- Vincenzoiotiammazzerò, delle appartenenze ideologighe manifesto Luna-Sole24 ore, delle estetiche Poesia del Ricercato (lettore) e Prosa del ritrovato pubblico
    Hobby
    Durante la settimana lavoro in banca e nei weekend mi scrivo un bel romanzo sulle più grandi rapine del secolo e/o durante la settimana rapino banche e nei we mi organizzo la contabilità
    Hobbit
    come delle società segrete, delle messe infinite, carbonara-amatriciana

    Credo che questa iniziativa sia importante, probabilmente non per le stesse ragioni invocate dagli ideatori dell’iniziativa (almeno da tutti) e spero di riuscire nei prossimi giorni a terminare un lungo e dettagliato post su ‘sta cosa. Per il momento vorrei ringraziare innanzitutto Federica Sgaggio per averci concesso la pubblicazione della sua riflessione che condivido dalla prima all’ultima riga. Lo spirito infatti che attraversa questo suo micro pamphlet rivela secondo me il giusto approccio verso questa iniziativa. A differenza del fuoco amico di Nevio Gambula (sempre pertinente nelle sue remarques, anche se mi domando ogni volta, ma un cazzo di dubbio, un’incertezza, una sospensione del proprio apparato cognitivo estetico sulla complessità del mondo, dei nostri piccoli mondi da qualche parte dovrà esserci!!) o di quello fatuo del Parente ( al di là della sua vena delatoria e finta balzacchiana qualcuno dovrà pur dirgli che si veste assai male) Federica si domanda assai serenamente: visto che si è più o men tutti d’accordo nel dire che le cose in letteratura e non solo, non vanno poi così bene, non vale forse la pena tentare di uscire dai propri micromondi e tentare di condividere delle azioni sul reale?
    Com ho avuto modo di dire nel mio intervento a margine dell’incontro alla Laterza ho sempre pensato e agito (vd la quasi trentennale esperienza rivistaiola) che le dinamiche tra le persone, il loro interagire attraverso la creazione di spazi politici ed estetici e condivisione di progetti politici e artistici, sia di gran lunga e quasi sempre più interessante dei risultati effettivi che soprattutto nelle prime fasi si raggiungono. Da qualche anno in Italia stiamo assistendo a questo tipo di aggregazione: sia che si prenda in considerazione la lodabile iniziativa di Primo Amore, Camminare camminare, o quella di Pordenone Legge, solo per citarne due, e questa è una bella e buona notizia.
    Senza anticipare nulla del mio intervento vi riporto solo una proposta, concreta, che lo conclude. Giulia Blasi proponeva in altra sede alla TQ di riprendere ” un’iniziativa promossa da Patrizio Zurru libraio di Cagliari denominata Scrittori Socialmente Utili in cui uno scrittore (o più di uno) in una libreria, e lo si mette a servire i clienti. Dando consigli, parlando dei libri che preferisce, con una sola regola: può consigliare tutti i libri, tranne i suoi.”
    Ecco, in uno slancio e rigurgito di operatività mi sono chiesto: perché non creare una Task(abile)Force in grado di :
    : cartografare il territorio librario indipendente (sondare la disponibilità di un centinaio di librerie ma soprattutto di librai in Italia). considerando come indipendente che ne so una libreria come i Comunardi a Torino o la Ex libris (Mondadori) a Capua ovvero cercando di utilizzare il titolo indipendente in modo contestuale e non talebano
    – sondare la disponibilità degli scrittori rispetto alle librerie aderenti all’iniziativa
    – Stabilire una calendarizzazione scegliendo una settimana dell’anno o anche un mese da dedicare a questo tipo di iniziativa)
    – Mettere su un piano di informazione e comunicazione degli eventi in modo da valorizzare quel circuito TQ librai
    – Preparare degli adesivi leggeri con su scritto TQ consiglia questo libro con cui aggirarsi per i megastore e senza farsi sgamare descaffalizzare dei testi importanti e dopo averli taggati metterli in bella vista , di panza sui tavoli

    Qualcuno obietterà, certo ma se a fare ‘sta cosa ci fossero scrittori di venti o cinquant’anni, che cosa cambia?
    Nulla, rispondo io e infatti quello che molti considerano un limite (io stesso) l’aver limitato la guest list ai trenta quarantacinquenni, dovrebbe essere secondo me solo un punto di partenza, una base da cui cominciare per finire, anche, altrove. Cosa fare, si chiedono in tanti. ma anche capire, con chi, fare, mi sembra importante.
    effeffe

  19. è interessante questa riunione da La terza.
    Consiglio di leggersi il pezzo direttamente dal blog dell’autrice perchè contiene link a molti articoli.
    Interessante perchè un gruppo di persone che lavorano (bene o male poco importa) con la parola e la cultura in generale si sono messe in cammino.
    Per ora è anche buffo, perché credono di essere degli esploratori che aprono nuovi viottoli nella foresta e invece non fanno altro che battere strade asfaltate comunissime che si trovano pure nello stradario della telecom. Banalissime, cominciando dal nome che non fa che denotare il perenne tormentone generazionale (facile fuga per non parlare delle cose serie della letteratura). Ok un agenerazone sgomita, ma lo fa facendo fuori accuratamente e, malignamente la generazione futura: dove cavolo sono infatti quelli VT (dai venti ai trenta?). Altrettanto banale la data di inizio di questa nuova epoca (?) data che coinciderebbe con la prima guerra del golfo. Ma non era una delle tante date scelte per segnare la fine del postmodernismo? e allora in cosa consisterebbe la novità cronologica del TQ scurati? Nell’aver scopiazzato senza citare la fonte? bella novità :-)
    Però oltre alle cose buffe ci sono anche cose molto interessanti, dette anche da La Gioia, da Giorgio Vasta e molti altri, forse anche da scurati.

    Questi TQ sembrano privi di coraggio però … però, forse, non solo lo sono, ma ne sono anche pienamente coscienti e questo potrebbe essere positivo.
    Se c’è davvero una rottura tra, chiamiamole, generazioni (ma non è esatto perchè la parola generazione è un tormentone che va avanti da tutto il 900 con una impennata dopo la seconda guerra mondiale), se c’è davvero una rottura questa èvvenuta è in atto (e chissà come e quando si risolverà) fra chi ha oggi dai 20 ai 30 anni e tutto il resto del mondo, passato e futuro compreso. Quella rottura è veramente epocale, in ogni settore. E’ una rottura non lamentosa, non sofferta dallo psicanalista, MA Reale, come nessuna rottura è mai stata reale in passato. Non saranno (non potranno essere) degli epigoni. Ecco perchè mi sarebbe piaciuto (ma non è detto che non succeda) ascoltare soprattutto la loro voce, la loro scrittura (o chi ne fa le veci) o forse anche l’urlo silenzioso, ma non impotente. Invece i grandi assenti (anche nell’essere nominati) sono proprio loro. Loro che sono è una generazione qui e ora e che non è volata con la testa letteraria oltreoceano, è una generazione che quando scrive non si sceglierebbe, e non si sceglie, mai uno pseudonimo calco di uno scrittore americano come ha fatto tommaso pincio e forse è anche un generazione che non si chiamerebbe mai TQ.
    Quando henry james scriveva i suoi romanzi e i creava i suoi personaggi, la facilità dei viaggi portava gli americnai in europa, spinti dal loro sogno dell’europa sognata
    Dopo la seconda guerra mondiale è cominciato il viaggio inverso è l’europa ad essere andata in fregola per il sogno d’oltreoceano.
    A noi italiani poi, come riflusso, sarebbe tornat una snobistica modernità andata a male, una modernità tradotta dalla lingua (e parlo proprio di lingua delle sue strutture profonde) americana. Non è un caso se i riferimenti culturali degli scrittori nostrani provengono quasi unicamente dall’america immaginata, fino alla sigla dei TQ, che può anche essere che mediaticamente funzioni ma che culturalmente è un pessimo inizio, perché vorrà anche dire Trenta-Quaranta ma soprattutto vuol dire Tarantino-Quentin. Insomma il retro pagina dei cannibali, la concisa bandella degli editor;-).
    Però al di la delle palesi ingenuità (che griderebbero vendetta) … a me mette molta allegria che tutte quelle persone si siano riunite. Prima o poi avranno davvero il coraggio, non dico di superare la linea d’ombra, ma almeno di avventurarsi per un sentierino non indicato dal loro navigatore satellitare.
    Intanto però la mia vera speranza (che, se dio vuole, è l’ultima a morire) si concentra sul decennio dei ventenni sono sicura che la loro disperazione sarà in grado di riaprire il mondo in una maniera che da svariati decenni non siamo neppure più in grado di immaginare…
    Naturalmente il termine temporale e anagrafico è solo una grande sesquipedalica cazzata, perchè potrebbe esserci un quarantenne, un cinquantenne o anche un centenario con il cuore e l’intelligenza intatta che si decida finalmente ad aprire uno squarcio nella carta dipinta, ma marcia, del teatrino, altro che linea d’ombra ragazzi … è tutto molto più vicino, basta solo sfiorare quel muro di carta da parati per veder crollare tutto e tornare al rivedere cielo e respirare al di sopra, oltre il tetto di calcare e di ghiaccio.

  20. Georgia, tutte quelle persone hanno nomi e cognomi, percorsi, molto diversi e pratiche più o meno coraggiose. Molti di loro sono anche presenti in rete e hai avuto in passato l’occasione di apprezzarne lo slancio e il coraggio anche tu. L’errore che si fa è quello di considerarlo come un Blob su cui sta appiccicato un label. E comunque se son rose fioriranno, se son spine, come spero, pungeranno dove fa più male.
    effeffe

  21. @NG

    c
    Caro amico mio Nega, un altro amico mio della vita reale scoreggiona in carne e ossa, dopo averli letti, buttava via i libri, così, nella spazzatura, come si buttano gli involucri degli alimenti. All’epoca ero un ragazzino brufoloso, molto più idiota di ora, fatto che per molti non rusulterà credibile, ma tant’è. Mi scandalizzavo un po’, senza dirglielo al mio amicaccio, che ne temevo l’ira di artista d’avanguardia, teatrante ‘novativo e visionario che a uno come te penso sarebbe piaciuto tanto (anche a me piaceva, figuriamoci, ma più ora il ricordo che allora la consuetidine quotidiana). Pensavo che i libri andassero accumulati come valori mobili, conservati per andare a ripescarci robe, magari per usarli come artiglieria pensante contro eventuali tru(i)ppe nemiche. Poi lui il cervello lo fregò definitivamente (ché il cervello frega…), e io vigliacco potetti accumularne diverse migliaia, di libri, senza sentirmi reazionario borghese, come invece ero abbastanza. Peraltro affaticandomi assai a mantenerli minimamente in ordine, ‘sti cazzo di libri, che non vuol dire puliti, ma letti. Ci ho messo decenni a disfarmene totalmente (e infatti ora non ci ho un cazzo da fare e sono libero di razzolare in qua e in là nel letterativo). Cosicché, senza voler offendere nessuno, tantomeno i pochi che mi sono ancora amici, posso permettermi il lusso di pensare originale, e quello ancora più ambìto della contraddizione filosofica. Però Nega, la mia era una contraddizione davvero tragicomica, a fini di ridanceria. Se invece vogliamo esser seri, bisognerebbe almeno declinare al plurale la parola realtà, se essa vuole davvero dire qualcosa per un artista. Indicando per esempio il fatto che le realtà sono davvero tante e inclassificabili, come suggeriva autorevolemente Borges agli scrittori. Per finire, sono contento che cogli il punto, dimostrando all’intero mondo che non stiamo a bambolare i pettini. Infatti, grazie addio, anche a me risulta che il TEMPO sociale e il TEMPO letterario (artistico) sono separati almeno da Mallarmé in qua. Next time.

  22. Georgia, tutte quelle persone hanno nomi e cognomi, percorsi

    francesco lo so, è per questo che mi fa sorridere che si chiamino TQ e che datino l’inizio alla prima guerra del golfo ecc.ecc. Mentre mi mette allegria che si siano riuniti.
    Però da quel che ho letto ho avvertito un disperato e disperante eccesso di autoreferenzialità.
    Naturalmente più che sapere i nomi e cognomi mi piacerebbe leggere gli interventi, sapere chi ha parlato ecc. (in rete si trova poco: la gioia, desiati, scurati, vasta e poco più … un po’ poco per la verità per farsi una idea se davvero ci sia qualcosa di buono (anche se non nuovo, come vogliono farci credere a mo’ di spot)

  23. in realtà le elaborazioni sono in corso, a breve, ne sono certo, si potranno leggere interventi degli uni e degli altri, interventi come questo di federica, per intenderci lontano anni luce proprio da quella autoreferenzialità che tu, ed io con te, detesti.. Il fatto che intercorra un po’ di tempo mi fa ben sperare. Vuol dire che si resiste alla tentazione della comunicazione “in tempo reale”, ovvero dell’informazione senza comunicazione.
    effeffe

  24. @ EffeEffe
    Dubbi, molti; ma quando non sono sicuro mi taccio. Quando intervengo, invece, è perché sono certo di quel che dico. Che poi possa risultare sbagliato, è nell’ordine del discorso … Comunque, per fare il pedante, più che di “fuoco amico”, trattasi di gavettone distaccato. Non sono amico se non dei miei amici.

    @Larry
    Non avevo dubbi sul tragicomico. E non avevo dubbi sul “punto” da cogliere. E poi, per stare in tema, la lingua è una realtà: quella comune serve alla comunità, quella letteraria alla letteratura. E non sono propriamente la stessa cosa: e difatti, come sottolinei, il loro “tempo” non coincide, e non solo da Mallarmè in qua, anche da prima, anche da molto prima (Barthes direbbe da quando la scrittura si fa contrassegno della proprietà), pur convivendo entrambe nello spazio-mondo che tutti ci accoglie e disfa …

    NeGa

  25. (Francesco mi ringrazia, qui e anche sul thread che con una nota ha aperto su Fb, ma io ringrazio lui e NI.
    Mi invita a rispondere anche qui, e io lo faccio).

    Aggiungo solo due cose e ne ripeto una terza.

    Non sono sicura che quel che ho scritto contenesse l’esplicito invito a fare qualcosa di concreto.
    Mi fa piacere che in controluce ci si possa vedere questo; però resta il fatto che io penso che la questione della cittadinanza sia preliminare alla questione della letteratura.
    In altri termini, credo che quando la politica è ridotta, nella migliore delle ipotesi, a fervore petizionario, ogni interrogativo intorno alla possibilità di intervento sul reale si riduca per forza e necessariamente a una questione posta intorno alla propria visibilità.

    Aggiungo che ai miei occhi, le relazioni di lavoro – permanenti o precarie -sono cruciali in qualunque analisi di quel che accade.
    Cosa può fare, su questo, un intellettuale?
    In quale modo interviene?
    ***Usando gli stessi mezzi – poniamo: i giornali – che al loro interno stanno uccidendo dissensi, motivazioni, speranze?
    E se lo fa, cosa ne posso pensare, io, se non che – al diavolo i mezzi – ciò che conta è il fine, ovvero rendermi visibile?***
    Non è produttivo ignorare o sottovalutare il fatto che il tramite attraverso il quale noi veniamo a conoscenza di ciò che si muove nel mondo sia un mezzo creando il quale vengono calpestate i più elementari fra i diritti dei lavoratori (anche se sono lavoratori intellettuali forse, hanno comunque dei diritti! Anche se non sono in miniera, forse, hanno comunque dei diritti!).
    Non ha senso evitare di porsi di fronte al problema «ma cosa fa, giorno per giorno, il giornale per il quale da collaboratore esterno io scrivo? Quale realtà “inventa”? Come “usa” i suoi lavoratori? Ha un’idea di ciò in cui consista il diritto-dovere di dare le notizie? Ha un’idea del suo ruolo politico e civile, o serve solo a semplificare la realtà, a premasticarla, di modo da renderla digeribile?».

    Quanto al resto: volevo anche dire che la residualità politica della categoria politica del lavoro, l’ideologia aziendalistica, la retorica del profitto e dei conti che devono tornare, non ha inquinato solo ciò che con accenti a volte deferenti e a volte con un approccio da realpolitik (che a me par degno di miglior causa) chiamiamo «mercato» (editoriale), ma anche e soprattutto la nostra vita civile.

    Non vorrei apparire apocalittica, però mi sembra di poter dire che la politica come rappresentanza è morta; e con questo *non* intendo sostenere che il Parlamento non sia espressione del Paese.
    Intendo dire che il principio (il «senso»?) maggioritario ha ucciso il senso della rappresentanza, della negoziazione degli interessi legittimi delle parti sociali.
    L’Italia ebbe le leggi su divorzio e aborto con la Dc partito di maggioranza relativa, non riesco a dimenticarlo.
    Invece, la nostra vita civile è ancorata all’idea del testimonial.
    Tant’è che la sinistra – letta attraverso la lente dei giornali (con le avvertenze di cui sopra, ovviamente) – si interroga più volentieri sulla questione del leader che sui contenuti.

    Infine.
    La discriminante generazionale come punto di partenza può andare bene, certo.
    Però, secondo me è mediaticamente seducente assai più che politicamente o socialmente significativa.
    Svia.
    Semplifica.
    Banalizza.
    Semplicemente, sfugge al punto. Che io credo sia, ancora e sempre, le relazioni di potere, e come vengono esercitate.

  26. @NG
    mettiti un paio d’occhiali, Nevio, perché hai sbagliato mira e di brutto. E concentrati sul resto, è alla portata di tutti, perfino alla tua.
    effeffe

  27. @ Effe Effe
    non ti ho capito; ma non importa (evidentemente, se è alla portata di tutti non è alla mia portata).

    NeGa

  28. E’ dal 1948 che gli intellettuali italiani di sinistra firmano petizioni e chiedono un mandato sociale che puntualmente non ottengono.
    Sarà perchè sono già egemoni dove possono esserelo (case editrici, stampa, università) anche se piangono miseria (quando sento Scurati che chiede di uscire dalla linea d’ombra mi vien da ridere)?
    Sarà perchè hanno divorziato da tempo dal senso comune, cioè non hanno assolutamente niente da dire a gente che deve motivare un lavoro manuale, crescere dei figli e sperare in un futuro diverso da finire sulla Garzantina?
    Sarà perchè dove la chiacchiera abbonda e fa abortire il significato il silenzio e l’opera valgono più dell’ennesimo aforisma?
    Sarà perchè questa cosa di contarsi e fare numero coi sodali, per uno che avesse una testimonianza personale veritiera e necessaria da dare suonerebbe, come dire, poco virile?
    Adesso che i partiti non sanno che farsene degli intellettuali (la televisione porta più voti), assisteremo alla nascita del partito degli intellettuali, insieme a quelli dei pensionati e degli inquilini?
    Questi sarebbero trentenni?
    Siete nati vecchi, figlioli.

  29. Che si faccia realmente sistema e che tutti noi (nessuno escluso) si pubblichi con quegli editori che erano presenti venerdì, e dunque Mininum, Fandango e Laterza – che sono l’avanguardia dell’editoria di qualità.

    Leggo questa benintenzionatissima frase nell’intervento di Flavio Santi, e mi viene in mente che forse, a non esser lì quel giorno, ho commesso un errore di marketing.

    (In verità non non ero lì in quanto – giustamente – non invitato: non sono né T né Q, ma ormai irrimediabilmente C).

    Naturalmente, resta sempre da capire che cosa si dica di una cosa quando si dice che quella cosa è “di qualità”.

    “Più fondi agli atenei di qualità” (Gelmini, 24-7-2009). “Non saranno dati più soldi a pioggia, ma si punterà alla qualità della ricerca” (Gelmini, 19-4-2011). “Del resto siamo tutti d’accordo, ritengo, sul fatto che la qualità della scuola è data prima di tutto dalla qualità delle persone che la rappresentano” (Gelmini, 4-9-2009). Eccetera.

  30. «fino a quando le forme della rappresentanza dei cittadini non avranno trovato un senso – ovvero fino a quando il problema che ci si pone non diventa politico (e non dico che sia una cosa facile; però bisogna ammettere che è tutt’un’altra prospettiva rispetto a quella assunta da tq) – qualunque desiderio di intervenire sulla realtà non potrà che tradursi in una questione intorno alla visibilità, in trasformazione di sé in simbolo; nella creazione di un «marchio“».

    io all’incontro ero presente, e ho posto una questione simile con argomentazioni che riguardavano il senso di «corresponsabilità» rispetto a un destino comune che esigerebbe, oltre al rigore professionale, prese di posizione – non solo politiche, ma proprio civili, direi (visti i tempi) – molto nette su questioni fondamentali.
    Non so però se sia questo il pensiero prevalente. Fino ad adesso, non mi pare, ecco.

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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