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Lettera da Leuca #2

di Antonio Moresco

Ma sì, prendiamo ad esempio il caso di Simenon, che è assolutamente eloquente. Con una simile operazione di rovesciamento e legittimazione “alta” di Simenon -ma non solo di Simenon- è un’intera epoca che parla, che si presenta, che fornisce i suoi codici, esibisce il suo nauseante conformismo e la normalizzazione cui è sottoposta la letteratura, come qualsiasi altra cosa vivente. Hanno messo in testa a Simenon la parrucca di “grande scrittore”, il mantello coi gradi, e siccome la mossa viene fatta da un certo tipo di casa editrice, viene ripetuta a pappagallo su giornali, riviste, ogni recensore e mediatore, per mostrarsi aggiornato, alla page, non fa che ripetere che Simenon è un grande scrittore.

Quello sì che è grande! Così “umano”, che si fa leggere bene dai nostri poveri cervelli comprati, va giù come vaselina. Solo questa piccola cosuccia dell’”elemento umano”, della debolezza umana, la caramella umanistica. Com’è umano! Cazzo, com’è umano! Questi sì che sono personaggi umani! Si crogiolano tutti in questa “umanità” di maniera, mentre in realtà continuano a comportarsi come delle merde, come singoli, come specie, il pianeta non ce la fa più a reggerci, gli abbiamo rotto troppo i coglioni con la nostra ottusità, avidità, ferocia, con la nostra “umanità”, fra un po’ la farà finita con questo fardello, ci darà il benservito, la vostra chance l’avete avuta, adesso avanti i topi, le formiche, le mosche!

Anche qui, io non ho niente contro Simenon. Anzi, se è per quello mi sono simpatici i figli di puttana che sbancano il casinò. E non saprei neanche dire quanti libri suoi mi sono sciroppato nella mia vita, fin da ragazzo e anche dopo, anche adesso, e probabilmente continuerò a leggerne di tanto in tanto, quando me ne verrà voglia. Ma questa operazione generale di paludamento e legittimazione è intollerabilmente falsa, ci passano dentro troppe altre cose su cui non si può tacere, non la si può accettare. Simenon grande scrittore? Bisogna rompere questo tabù, bisogna dire che non è vero, è una balla, una balla colossale. Simenon è uno scrittore incantevole, morbido, furbo, gratificante, che conosce a perfezione i suoi polli, che attiva immediatamente meccanismi psicologici e culturali di riconoscimento e adesione e il lettore, nella sua libertà, può avere anche voglia di tutto questo. Ma non è un grande scrittore. Gli manca sempre qualcosa. Non ce la fa. E lui lo sa, in genere non ci prova neanche perché lo sa. Quando ci prova si vede lontano un miglio che non ce la fa. Trasforma questa debolezza in un punto di forza. Checché ne dica Gide, ne dica Céline. Provate a leggervi “I Pitard”, per esempio, presentato comprensibilmente dall’editore con una frase di lode di Céline sul retro. Provate a leggere senza paraocchi questo romanzo. Bello il quadro, la pittura, l’ambiente. Tutto sodo. La nave, le due vacche sul ponte, il rumore dei loro zoccoli durante la burrasca, ecc… Davvero bello, semplice, vivo, corposo, efficace. E mica personaggi fighetti, ma “gente comune”, avida, attaccata ai soldi, piccola borghesia con la sua bella merda al culo, di quelli che stanno saturando buona parte del mondo, in questi anni. Ma andate avanti, guardate cosa succede quando il quadro si dram-matizza e Simenon deve rendere in qualche modo l’idea dell’impazzimento della moglie del capitano. Quella imbarazzante scena in falsetto dove prende in mano il timone e spara quelle penose battutine fintoisteriche che potrebbero essere uscite dalla penna dell’ultimo scrittorino. Lì il libro, proprio quando dovrebbe uscire dall’atmosfera, dal quadro, e dovrebbe tirare fuori qualcosa di più, crolla completamente, si spegne. Non ce la fa. Invece un grande scrittore ce l’avrebbe fatta, Dostoevskij ce l’avrebbe fatta, anzi avrebbe dato il meglio proprio lì, anche Céline ce l’avrebbe fatta, anche quello sbarellone di Faulkner ce l’avrebbe fatta, tanti altri scrittori davvero grandi ce l’avrebbero fatta. Che cazzo mi vieni a dire, Céline? Ti sei bevuto il cervello? Io mi ero fidato, avevo comperato subito il libro. Perché hai scritto una cazzata simile? Lo so che eri anche un bastardo. Ma che razza di artista! Perché ti è uscita questa cazzata da scrittore spompato? Solo perché Simenon non era del côté di quelli che stavano sui coglioni anche a te? Cosa c’entri tu con questa fuffa letteraria per lettori allevati, questa morfina? Ho letto addirittura che c’è chi fa di Maigret un erede dei personaggi cavallereschi, dei poemi cavallereschi, come altre figure di investigatori seriali che non capiscono un cazzo, non scoprono un cazzo. Questi “cavalieri” borghesotti e mediocri che, con tutta la loro “umanità”, ci stanno portando tutti quanti alla rovina!

Questo sgobbone epigono soft e pieno di collaudata, postnaturalistica grazia, che ha continuato per tutta la vita a fare sempre le stesse formine con gli stessi stampini, questo scrittore-macchina che liscia sempre il pelo al lettore dal verso giusto, che non ha grilli per la testa… Una pacchia per gli editori! Uno che non rompe i coglioni. Che va subito al sodo, fattura! Piace al “pubblico”, a quella cosa che è stata fatta diventare il pubblico. Macché libri che ti possono “cambiare la vita”! Puro intratteni-mento, qualcosa che ti fa sentire meno merda di quello che sei, più “umano” attraverso l”umanità” di Maigret che guarda le debolezze dei suoi poveracci che delinquono dalla brasserie, dal tinello buono con la signora Maigret, dopo un buon bicchiere di vino. Un rassicurante teatrino del crimine per tenere al guinzaglio i lettori e accompagnarli in visita guidata nel giardino zoologico della vita. Mentre altri scrittori “di genere” hanno fatto ben altro nel corso del tempo, e anche nel Novecento. Che straordinari scrittori di fantascienza, per esempio! Che corpo a corpo scomodi, duri, con le verità terribili di questa epoca! Che forza di invenzione, coraggio, capacità di rischio, hanno mostrato scritori come Philip Dick, per fare solo un nome, forzando le gabbie del genere!
Cosa ci dice invece Simenon con il suo ron ron? Sime-non è sempre tarpato! Ma è tarpato perché non ce la fa a uscire dal quadro, non ne ha la forza, il coraggio, l’abnegazione, la radicalità. Mentre proprio questo è visto dai tarpati come un suo grande merito. In realtà si autolimita! ci viene detto. Lui sì che ha il pudore di autolimitarsi, per altruismo verso il lettore. Ma se volesse! Cazzo, se volesse! Vedreste che sfracello farebbe! E’ solo che non vuole. Che ha senso della misura, stile, maniera, che non vuole spaventare il lettore. E così ci fa tutti contenti, editori, lettori, è un filantropo, un benefattore dell’umanità, lui sì che sa far girare la macchina di merda per il verso giusto. Se siete ancora di quelli che cercano qualcosa di più nella letteratura, vi deluderà sempre, è giusto che vi deluda. Se non vi aspettate niente, non vi deluderà mai. E’ il termometro di questa epoca. Uno scrittore per lettori rassegnati, che non chiedono più niente alla letteratura, alla vita. Simenon non ti da mai niente di più di quello che hai già, che sai già, ti fa solo perdere un po’ del tempo che ti divide dalla tua morte mentre succhi questa gradevole caramella letteraria. Ti rende solo un po’ più morto di quando hai cominciato un suo libro.

Il messaggio che viene lanciato a scrittori e lettori è: siate degli onesti epigoni, dei piccoli artigiani che sgobbano per noi e alla fine sarete premiati. In questa epoca non si può avere di più, non si può fare di più. Non si potrà mai più fare di più, d’ora in poi. Continuate a voler fare di più, a voler guardare più in là, e vi faremo cagare sangue!

Siccome Simenon non era in grado di fare di più, ha fatto questa piccola cosa non nuova ma a suo modo geniale. Ha replicato all’infinito un personaggio accattivante anche se (o proprio perché) prevedibile e l’ha reso endemico attraverso un’inesausta ripetizione seriale. Ha occultato questa assenza dietro il meccanismo esibito del riconoscimento e della ripetizione. Ai lettori non chiede niente, solo rassegnazione al proprio ruolo, il piacere di continuare a convivere con la propria rassegnazione e la propria resa, senza farli sentire in colpa, ma anzi facendoli sentire maledettamente “umani”, gratificati per di più dagli intellettuali fun-zionari altrettanto arresi e asserviti, che amano farsi vedere in sintonia coi gusti del “grande pubblico”, che la sanno lunga… Simenon non è un grande. Simenon è un vicolo cieco per gli scrittori. E’ assolutamente segno dei tempi che uno scrittore come Simenon venga imposto in questi anni, proprio in questi anni, come un grande, da una casa editrice giubilata e giubilatrice, par-tita con ben altre ambizioni. Una saldatura tra rassegnazione, re-sa, logica del profitto e normalizzazione fanno sì che uno scrittore come Simenon venga presentato oggi come modello di grande scrittore. E tutti che fanno finta di niente. Bisogna avere il coraggio di guardare dentro questo gioco. Non sono cose senza im-portanza. E’ così, è attraverso meccanismi simili che si opera sulle menti. E poi schiere di servi che non possono che fare di sì con la testa, per costruire il consenso. E’ così in ogni campo, in questa epoca. Accettate la nostra briglia e avrete anche voi il vostro posticino di scrittori “di genere”. Oppure al massimo, se avete la puzza sotto il naso, potete fare anche il “genere letteratura”.

Sì, perché la diffusione pervasiva pilotata dei “generi” generizza anche la “letteratura”, con il mantenimento di spazi, sia pur terminali, per una scrittura evocativa della letteratura, formalmente accurata ma senza più nulla dello smottamento e dell’invenzione e dell’immersione, della crudeltà e dell’incanto che attraversano la letteratura, ma che può dare anch’essa le sue piccole soddisfazioni.

Non bisogna stare in queste gabbie. Né in quella del “genere” né in quella del “genere letteratura”. Occorre un movimento che attraversi da parte a parte sia la “letteratura di genere” che il “genere letteratura”.

Simenon è il modello vincente per lo scrittore di questa epoca che non ce la fa, che non ce la deve fare. Se uno non ce la fa, non ce la deve fare, se non ce la fa proprio a essere “originale” tanto più che l’originalità è addirittura bandita dall’orizzonte teo-rico di questa epoca, o trasformata al massimo in piccolo logo, allora continui a replicare all’infinito sempre le stesse cose, lo stesso personaggio stereotipato e tutti sono contenti. Deve solo spingere, come Sisifo, all’infinito, sempre la stessa pietra. Lo stesso supplizio morbido che affronta lo scrittore, pur di non mettersi di nuovo di fronte al rischio, all’ignoto, alla creazione, devono darselo da soli anche i suoi lettori.

Pontiggia.

Ho letto nelle settimane scorse, su “Nazione indiana” e altrove, molti affettuosi necrologi su Pontiggia. Amici scrittori hanno raccontato aneddoti che mettono in luce la sua generosità, signorilità, di come ha seguito il loro lavoro, li ha proposti ai premi ecc… Tutte cose sicuramente giuste, vere, sincere.

Io sono stato in silenzio. Volevo continuare a farlo, ma vedo che le testimonianze continuano sui giornali, chi parla di vuoto incolmabile, chi lo definisce scrittore grandissimo, ecc… fino a generalizzare e a fissare una certa immagine. Il Peppo di qua, il Peppo di là… E allora mi sembra giusto dire anch’io la mia su questo argomento, raccontare anch’io la mia piccola verità, anche perché mi sembra abbia qualcosa a che vedere con tutto quanto ho cercato di dire finora in questa lettera. Non per rancore, malanimo o altro, ma anzi con dispiacere personale, tanto più di fronte a una persona che non è più in vita. Ma non è giusto non mettere in gioco la propria piccola, parziale e sofferta parte di verità, non è giusto mancare di rispetto anche ai morti non dicendo quello di cui si è fatto esperienza, trattandoli appunto co-me delle cose morte, senza sincerità, verità.

Così racconterò anch’io un aneddoto. Anzi due.

Il primo l’ho già raccontato in “Lettere a nessuno”. E’ una storia molto semplice e dolorosa. Avevo già quarant’anni passati. Non una sola mia riga era stata ancora pubblicata. I miei manoscritti venivano continuamente rifiutati. Un giorno ricevo una telefonata dalla Mondadori. Mi si invita ad andare là per parlare degli “Esordi”, un romanzo cui lavoravo da molti anni e che avevo portato di persona a Segrate in una giornata di forte pioggia. Vado. Ma l’editor è indeciso. Alla fine conclude che lo darà in lettura a Pontiggia, per avere da lui un parere definitivo. Io dico che mi va bene. Un po’ di tempo dopo mi viene comunicato che la scheda di Pontiggia è negativa, sconsiglia di pubblicare.

Non ero mai arrivato così vicino alla pubblicazione, mi sembrava l’ultima e definitiva porta che si chiudeva, l’ultima chance che se ne andava. E questa volta era stato Pontiggia a dire di no, non un lettore qualsiasi ma uno scrittore. Aveva avuto tra le sue mani il filo della mia vita di scrittore e l’aveva reciso. Sono pas-sati altri cinque difficili anni prima che riuscissi a trovare una fessura dove finalmente passare.

Secondo aneddoto. Questo invece non credo di averlo mai raccontato a nessuno. Bisogna andare ancora indietro, di una decina d’anni. Allora non avevo ancora iniziato “Gli esordi”. Ma avevo cominciato a scrivere, in un monolocale della periferia di Milano, dopo un lungo periodo di vita in giro per varie città, una piccola cosa intitolata “Clandestinità”. Un giorno, che ero in casa da solo con l’influenza, mi è presa improvvisamente l’angoscia di dover passare l’intera giornata a letto senza avere niente da leggere. Mi sono alzato, mi sono lavato la faccia sul lavabo, mi sono vestito e sono uscito. Ho raggiunto la più vicina libreria. Il caso ha voluto che vedessi sugli scaffali un libro di Pontiggia uscito da poco, intitolato “Il giocatore invisibile”. Mi è venuta voglia di leggerlo. Un po’ instupidito dalla febbre, l’ho preso, me lo sono ficcato nei calzoni, perché non avevo assolutamente i soldi per comperarlo, e sono uscito così, senza connettere bene, sperando che la cassiera non si insospettisse vedendo quel rigonfio abnorme, da maggiorato, sotto la patta dei miei calzoni. Ma non mi ha fermato nessuno. Sono uscito. Sono tornato a casa. Mi sono spo-gliato. Mi sono rimesso a letto e ho cominciato a leggere.

Il fatto che, dieci anni più tardi, a sbarrarmi la strada fosse stato esattamente lo stesso scrittore per cui avevo corso il rischio di rubare un libro in un momento difficile della mia vita (ne ho ancora in casa la copia), aveva reso per me ancora più doloroso questo rifiuto.

Cosa voglio dire con questo? Che Pontiggia in realtà era una merda, che i libri che apprezzava e appoggiava non erano buoni? Niente di tutto questo. Pontiggia era sicuramente anche un uomo buono, generoso e tutte le altre cose che hanno scritto di lui. E a me in particolare colpisce il fatto che ha cominciato a scrivere tardi, che prima lavorava in banca, la storia del figlio, ecc… Tanto che mi domando, con dispiacere: perché proprio a me è toccato conoscere questo suo altro aspetto? Perché, tra tanti che ha aiutato, pare che io sia il solo ad averne fatto un’esperienza così negativa e così dolorosa? “Gli esordi” era peggiore di tutti gli altri libri che ha favorito? Meritava davvero di essere buttato fuori? Perché tutti hanno la consolazione, il sollievo di ricordare di lui in questi giorni un gesto di generosità, di bontà mentre io devo raccontare questa spiacevole cosa?

Potete immaginare l’insofferenza, il dolore che ho provato in seguito leggendo certe sue frasi nei suoi libri saggistici. Piccoli sarcasmi generici da uomo di potere, sul fatto che ormai si pubblica tutto, che l’Italia è piena di “grandi scrittori” ma che quelli che difettano sono gli scrittori, che il guaio non è che certi scrittori non riescono a pubblicare, ma che alla fine ci riescano, ecc… Ecco, quando leggo queste cose io provo orrore. Tutte quelle smorfie sprezzanti, da letterato, dietro la maschera della cordialità, della bonomia… Perché in realtà era anche lui una figura di piccolo ma significativo potere nell’editoria e nella cultura, e svolgeva perciò anche il compito delle persone preposte a questo: quello di includere e di escludere.

Pontiggia era un bravo scrittore, scriveva limpido, trasparente, pulito, lavorava molto bene sulla frase e la tirava fuori alla fine così come noi la vediamo. Anche se a me pare che il compito dello scrittore non si esaurisca in questo. Forse Pontiggia -ma è solo una mia stupida idea- era esattamente quella cosa di cui ho parlato prima, uno scrittore che praticava il “genere letteratura”, per cui c’è immediato riconoscimento. Uno che stava dentro, in modo terminale, in questo piccolo quadro. Forse anche Pontiggia è uno scrittore “di genere”.

“Ne vale la pena?” Tiziano e altri si domandano.
No, no, mille volte no!
Ma non è una buona ragione per darsi per vinti.

Ho buttato giù queste cose in una località vicino a Leuca, nella punta estrema del tacco dell’Italia, questo paese comprato, in una piccola casa di pietra sopra una scogliera a picco sul mare. C’è anche qui molto caldo, pare -a dare retta ai giornali- che la Terra non sia così calda da ben cinque milioni di anni. Molto prima cioè di quando abbiamo avuto la delirante idea di metterci a camminare in bilico su due sole zampe. Io sono inquieto, sbatto contro gli stipiti delle porte con le spalle e la testa, mi mordo a sangue, continuamente, l’interno delle labbra, delle guance, la lingua, mentre mangio, nelle lacerazioni della mucosa si formano crateri di grandi afte che rendono penoso mangiare. Di notte microscopiche formiche carnivore salgono sul letto dove dormo nudo per il caldo e mi mordono con tanta forza da svegliarmi. Di mattina il lenzuolo e il cuscino sono pieni di marmellata di formichine sfracellate. “E’ per il caldo! Sono incattivite, affamate!” spiega la donna che ci ha affittato la piccola casa. Qui di fronte alla scogliera, un po’ più in là, a 35 metri di profondità, sono stati avvistati dei barracuda. “E’ per il caldo!” spiega ancora la donna “I mari si sono riscaldati troppo. Sono arrivati fin qui da lontano. Ma sono piccoli! Si è no un metro di lunghezza!”

Non c’è problema, signora. I bagnanti non mancano. Se devono crescere, cresceranno!

Scusate se sono stato un po’ lungo, ma certe volte le cose che mi vengono in mente sono così tante che faccio fatica a fermarmi.

Quest’anno la nostra piccola “Nazione indiana” ha rotto l’uovo. L’anno prossimo muoverà i primi passi. Ci sono tra noi molte affinità. Ma anche le diversità sono molte, così marcate da apparire talvolta inconciliabili. Nessuna persona sensata ci scommetterebbe sopra un soldo bucato. Eppure, eppure… chissà che il bello non debba ancora venire!

Un abbraccio

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26 Commenti

  1. Dopo aver letto le due lettere e alcuni commenti, mi accodo.
    Bene!
    Penso sia chiaro a tutti i frequentatori di N.I. che l’unico vero scrittore in questa riserva-setta(ma anche in Italia tutta) sia Antonio Moresco.
    Moresco crea “vera inquietudine, tormento, lucidità”.Però… Moresco parla e si preoccuppa del “pubblico”, francamente mi lascia perplesso.
    Del pubblico credo non dewbba preoccuparsi, a preoccuparsi del pubblico ci sono già i vari Scarpa, Nove, Montanari ecc.
    Moresco parla di conoscenza e ricerca, sono curioso di leggere la seconda parte de i “Canti”. Somma allegoria, pornografia allo stato puro, e brado, fusione, quindi visione, nella prima parte.
    All’inizio (“La buca”), ok…ma bisognerà chiedersi quanto pensiero di “proposizione”(che è sempre di vista e costruzione!) sia capace di far passare una simile scrittura!
    Voglio dire: quanto è grande il mondo di Moresco? o forse stanno per imprigionarlo in una rete?
    A volte penso che Moresco non sappia gridare, non sappia bene modulare la voce per tutta l’estensione dei suoi 56 anni(cfr. tirata anti-simenon); tempesta poi di livore Pontiggia, ma ammetta Moresco di essere un “evaporato”(come ogni grande e vero scrittore),la smetta però di illivorirsi, non è da uomo grande e buono! Piuttosto dica sinceramente che Pontiggia era una merda, perche proprio ora sta a sfoderare bon ton?!
    A 56 anni non ci si può “angelicare”, la sua parola non è angelica, se no sarebbe morto a quest’ora!
    Apra il suo mondo, la faccia uscire veramente dalla patta e avremo un Hugo o un Dostoevskij!
    Come si può reclamare pubblico quando si hanno uscite del genere:”Qui di fronte alla scogliera, un po’ più in là, a 35 metri di profondità, sono stati avvistati dei barracuda. “E’ per il caldo!” spiega ancora la donna “I mari si sono riscaldati troppo. Sono arrivati fin qui da lontano. Ma sono piccoli! Si è no un metro di lunghezza!”

    Non c’è problema, signora. I bagnanti non mancano. Se devono crescere, cresceranno!”

    Proprio non capisco come resista ancora in Moresco questo illegittimo desiderio di vamopirizzazione. Voglio dire: chi ha orecchie per sentire sente, se si grida, invece, bisogna stare attenti e guardarsi dalla moda, che è forse quella cosa che più sta “avvicinandosi” a Moresco, proprio come nel Salento i barracuda!!

  2. Io di Moresco ho letto “Canti del Caos” e “L’invasione” e devo ammettere che sul serio ha delle pagine impressionanti; quanto questo basti a dargli più della fama da profeta che gli hanno cucito addosso, non so, ma glielo auguro. Quanto alla discussione che si trascina di seguito alla prima lettera da Leuca, mi pare francamente stucchevole e delirante. Parliamo di Moresco.

  3. Riporto qui l’ultimo intervento di Andrea su lettera da Leuca 1, togliendo deliberatamente i riferimenti alla polemica che si è trascinata in quei commenti. Speriamo di aprire una pagina nuova:

    “…mi viene in mente una cosa che dice Mozzi, che lui ha imparato a scrivere lavorando nell’ufficio stampa di un sindacato di artigiani. Lì il suo mestiere era precisamente scrivere “gestendo l’ambiguità del linguaggio”: dire e non dire nel migliore dei casi, raccontare balle per conti terzi nel peggiore. Mozzi ha sviluppato la gestione dell’ambiguità linguistica nei suoi lavori, è una delle sue fissazioni, ma non scrive mai cose teoriche dove dice e non dice. Leggete Vibrisse, la sua rivista in rete, è sempre chiaro, concreto, perché un’altra sua fissazione è l’insegnamento, e a cosa serve un insegnante che dice cose ambigue?…” (Andrea)

    Moresco, Busi, Stevenson, Mozzi… gli scrittori veri fanno della concretezza e della sintesi visionaria la loro poetica. Considerano, a ragione, “sufficiente” e sufficientemente scandaloso ritrarre la realtà così com’è; o piuttosto: distorta in partenza dal loro sguardo peculiare, ma ancora più vera proprio per questo. Questo sguardo è intollerabile per il potere, qualsiasi potere (anche quello di un bibliotecario che sceglie quali autori ordinare e quali no).
    Una nota sulla questione Pontiggia. Più di un commento ha rimproverato a Moresco di avere avuto una caduta di tono e di stile nella parte finale della lettera, ricordando la sua cattiva esperienza del Pontiggia consulente di Mondadori. Pontiggia non era affatto una merda, non mi risulta che Moresco lo pensi e non capisco bene perché dovrebbe scriverlo se non lo pensa; il bon ton a cui accenna il primo di questi commenti c’entra poco (come c’entrano poco i riferimenti ai tre scrittori citati e al loro rapporto col pubblico, ma lasciamo perdere). Pontiggia poteva sbagliarsi, ed era suo dovere esprimere un giudizio sollecitato. Io ho fatto l’esperienza opposta dello scrittore morto due mesi fa, ma trovo le parole di Moresco molto interessanti e molto rispettabili almeno sotto due aspetti. Anzitutto la reazione alla peppologia o peppagiografia, che è spuntata anche da queste parti. C’è stato un accorrere a dire: Era amico mio! Mi voleva bene! Io mangiavo il gelato con Peppo! In secondo luogo l’umiltà di dirci: molti di voi mi considerano uno scrittore puro, un combattente della parola; ma questo combattimento non ha senso al di fuori del suo esprimersi in una parola organizzata e LEGGIBILE, cioè nelle pagine di un libro pubblicato da un editore che lo renda disponibile al maggior numero possibile di occhi, di teste pensanti, di cuori e di pance. Si sta parlando di un autore rifiutato (nell’episodio citato) da Mondadori e poi pubblicato da Feltrinelli, anche grazie al titanico lavoro di Tiziano Scarpa, che si è prodigato più di chiunque perché Moresco venisse percepito nella sua giusta dimensione: è di grandi editori che si parla, è alla massima amplificazione della propria voce che Moresco ambisce, con pieno titolo e piena ragione.
    Questa è l’ennesima lezione di umiltà: lo scrittore che crea mondi dissonanti, perturbanti, e che lavora alla magia di un linguaggio senza eguali in Italia, apre una pagina amara della propria vita di autore, ci si mostra nell’atto di chiedere, di insistere, di ricevere un rifiuto, perfino di coltivare un rancore. La vita dello scrittore vero è fatta anche di questo, e se ne trovano testimonianze fra il tragico e il comico nelle pagine biografiche dei grandissimi. Perciò la diversione su Pontiggia della lettera di Antonio ha un valore di messa in gioco integrale, di disprezzo per la propria immagine pubblica, che a me sembra ancora più toccante proprio perché sui contenuti (il giudizio sul Pontiggia lettore) non mi trova d’accordo.

  4. Caro Andrea,
    se per te tutto questo è fumoso, vuol dire che non ti è chiaro di cosa stiamo parlando. Ebbene, stiamo parlando di qualcosa che non esiste mai in forma definitiva, di qualcosa che non si tocca e nemmeno si vede, e dunque neppure può essere fumoso. Stiamo parlando della comunità avvenire, che tuttavia noi, dico noi due, ma anche tu e gli altri, stiamo costruendo con la discussione quotidiana, pur senza conoscerci personalmente, ma fidando nel mutuo scambio di idee e di esperienze. Molti pagherebbero perché ciò non accadesse, perché nel mondo regnasse il silenzio. Non dimenticare che Montanari, solo qualche giorno fa, preso dall’ira, aveva minacciato di chiudere la finestra dei commenti! Ora certamente si è ricreduto, ma il pericolo è quello: tacere perché non ne vale la pena, perché ognuno può dire la sua, perché nessuno ti sta ad ascoltare o perché qualcuno vuole censurarti. Noi, al contrario, speriamo vivamente che la parola possa tenere sempre desto il discorso comunitario e ci adoperiamo perché il silenzio, magari ironico, non cali sulla comunità. E’ questo il nostro contributo alla comunità avvenire. Che cosa c’è di fumoso in tutto ciò?
    Con affetto
    Enrico De Vivo e Gianluca Virgilio
    http://www.zibaldoni.it

  5. Caro Montanari,
    noi per la verità non siamo per nulla stufi di aver condotto con te e con altri questa disputa etimologica. Non ci riteniamo dei pedanti e le etimologie le andiamo a ricercare solo perché ci fanno meglio capire le cose, non per utilizzarle in esibizioni da erudito. E mai come in questo caso andare all’origine della parola ci è sembrato importante per impostare nel migliore modo possibile il dibattito, per centrare l’argomento, per non divagare. E difatti non abbiamo divagato. Mentre discutevamo su che cosa significava in origine la parola “communitas”, noi abbiamo formato una “communitas”, obbligandoci reciprocamente e donandoci le nostre parole reciprocamente (e tu non te ne sei nemmeno accorto!).
    Ebbene sì, per noi il termine comunità significa proprio questo, “mettere in comune il dono della solitudine”, la tua e la nostra e quella di tanti lettori e commentatori che si sono ritrovati nelle giornate del solleone a discutere su questioni che evidentemente li riguardavano profondamente e intensamente. Non si spiegano altrimenti i 53 interventi destinati al commento dell’articolo di Antonio Moresco. E se questi interventi non riguardavano direttamente l’articolo di Moresco, è altresì vero che tutto partiva da lì e dalle domande rivolte da Gustavo P. a lui, in primo luogo. E dopo, ricordi cosa è accaduto? Dopo un nostro intervento, sei intervenuto tu per dirci che sbagliavamo, che eravamo degli ignoranti et similia. Non siamo offesi, per carità, non lo siamo mai stati. Ma ora notiamo che sei tu ad interrogarci, ancora con una certa ironia, e con qualche burbanza e supponenza, anche. Ma non importa. Ci chiedi che cosa vogliamo fare e ci rimproveri che nei nostri discorsi mancano le proposte concrete. Tranquillo, non vogliamo proporvi un supersito, magari all’insegna del “vogliamoci tutto bene”, e neppure vogliamo boicottare l’editoria e gli scrittori moderni. Mai sostenute queste cose. Ognuno deve seguire fino in fondo la sua strada ed inoltre, lo abbiamo scritto a chiare lettere, noi non siamo contro l’editoria moderna, anche se certe concentrazioni ci spaventano. Ma questo è un altro discorso.
    Quello che noi vogliamo è semplicemente quello che stiamo facendo e continueremo a fare, ovvero fondare e costruire nel tempo, giorno dopo giorno, discussione dopo discussione, in luoghi anche diversissimi e con persone anche diversissime una dall’altra, una vera comunità, cioè quello che in Italia, e forse anche altrove, manca, perché questo mercato delle lettere ha diviso ciò che doveva essere unito, respingendo nella solitudine chiunque azzardi un discorso comune. E tu, nei tuoi primi interventi, e un po’ anche adesso, hai fatto proprio questo nei nostri confronti, hai tentato di respingerci nel silenzio dal quale eravamo venuti, e in parte, ma con qualche titubanza, ci respingi anche ora, quando dici che “sul web c’è posto per tutto e per tutti”, sottintendendo con questo che è inutile che ci dimeniamo tanto, perché il nostro angolino ci è riservato e, dunque, possiamo stare tranquilli. Comprendi, caro Montanari, che queste tue parole, interpretate nel loro significato migliore non vogliono dire altro che: “avete una rivista, statevene lì dentro e non rompete i coglioni”? Certo che abbiamo una rivista, ma non ci interessa coltivare il nostro orticello, se abbiamo tutt’intorno il deserto. Vuoi una proposta concreta? Essa arriverà al momento giusto, quando saremo in grado di stabilire un contatto più vero, quando ognuno di noi avrà riconosciuto la ragione dell’altro, ma, prima di tutto, avrà messo da parte ogni pretesa da prima donna, da grande scrittore o grande intellettuale che ha dei precisi interessi privati da tutelare e scrive solo con questo fine, quando le tue domande saranno senza l’ironia che ora le contraddistingue e chiederanno non avendo già pronta una risposta che elude quella dell’interlocutore e, quindi, le sue ragioni. Allora potremo davvero incontrarci e vasocomunicare. Ma ora, in questa fase preliminare, in cui dobbiamo rintuzzare i tuoi continui attacchi delegittimanti, le tue etimologie, la tua supponenza, come possiamo pensare a un colloquio sincero e a un progetto comune, cosa vuoi che venga fuori di “concreto” dall’associazione, che risulterebbe certamente forzosa, di persone che non si rispettano? Se tu ti affidi solo a un vocabolario in circolazione nelle università, senza capire che le parole non hanno solo un passato, ma anche un avvenire, come puoi fidarti di una proposta tesa a immaginare una nuova comunità? Ci puoi dire tu che cos’è per te, se esiste, una comunità? E non venirci a dire che i nostri discorsi suscitano disinteresse. Ammetterai che non avete avuto mai un numero simile di commenti prima che noi prendessimo la parola (e se Gustavo P. è l’unico commentatore del nostro articolo postato da Benedetti è perché la discussione è avvenuta altrove, non ti pare?). Ammetterai che, prima dei nostri interventi, il dibattito non era mai uscito dalla ristretta cerchia dei collaboratori della vostra rivista e da pochi, pochissimi commentatori fin troppo beneducati o fin troppo maldicenti. In realtà, noi comprendiamo bene i motivi “per cui in pratica uno non sa bene come mettersi in relazione” con noi. E’ semplice, noi non amiamo gli esibizionismi, le pose da star della cultura e della letteratura, i narcisismi, e tutto quanto il gran varietà delle lettere contemporanee che Costanzo invita nel suo salotto. Chiunque comprenda tutto ciò, non avrà difficoltà a parlare con noi.
    E veniamo alla questione Moresco. E’ la seconda volta, caro Montanari, che cerchi di metterci contro di lui, e per la seconda volta dobbiamo pubblicamente smentirti. Se noi abbiamo interrogato e in qualche modo polemizzato con Moresco, ciò è accaduto perché ci interessavano le sue risposte e consideravamo utili le sue reazioni, che in parte sono venute e in parte ancora attendiamo. E poi non è vero che tutti noi abbiamo postato sotto Moresco dei commenti che non lo riguardavano. Moresco, qui si è parlato anche di te, in effetti, ma non solo di te! Noi ripetiamo a Moresco una cosa che riteniamo ancora valida, che nel dibattito che noi auspichiamo sulla moderna comunità, non basta mettere innanzi la propria opera, ma bisogna “esordire” ogni volta insieme con gli altri, mettendosi sempre in gioco, in modo tale che la nostra voce si faccia voce dell’intera comunità e non diventi il lamento sulla propria esistenza. Se per te, Montanari, questo significa non capire Moresco, allora noi non lo abbiamo capito. Ma capire Moresco per noi, significa aprire la porta del futuro e andare al di là di Moresco, nel luogo comunitario dove tutti noi, insieme, “vogliamo esordire”.
    Con affetto
    Enrico De Vivo e Gianluca Virgilio
    http://www.zibaldoni.it

    Primo poscritto sull’AUDIENCE.
    Tu dici, caro Montanari, che intorno ai nostri interventi c’è disinteresse perché hanno ricevuto un solo commento. Bene. È vero. Però se tu leggi il blog sul quale scrivi, cioè NI, ti accorgi che la quasi totalità dei pezzi pubblicati dai suoi redattori (non da noi quindi) riscuote una media di ZERO commenti. Cinque pezzi su sei scritti da te, ad esempio, hanno avuto ZERO commenti; una buona decina di pezzi di Moresco, ZERO commenti; idem i pezzi di Voltolini e di altri: o nessun commento o 1-2 commenti. Ci sono commenti vivaci, e in quantità superiore allo ZERO (ma sempre in una media tra l’1 e il 6-7) soltanto in pochissimi pezzi di Carla Benedetti e di Scarpa. Infine, soltanto in 3 occasioni si registrano commenti che vanno oltre la diecina. Vediamo quali sono queste occasioni.
    La prima è quella della discussione sui BLOG, provocata da Scarpa e Benedetti, che ha suscitato una sessantina di interventi in tutto, per lo più di bloggers incazzati, ma anche di gente che esponeva le proprie idee. La seconda è stata quella provocata dal tuo pezzo sul sesso: 36 interventi, quasi tutti contrari allo spirito del tuo testo, che possiamo ben dire non è piaciuto che a sparutissimi lettori. La terza è quella del commento alla lettera di Moresco: 54 interventi, fin qui. Ripetiamo: in tutte le altre occasioni, gli altri pezzi dei redattori di NI riscuotono invece, in media, un numero di ZERO commenti. Ma torniamo alle tre occasioni di dibattito che fin qui hanno avuto anche un successo di pubblico. Se leggi bene, caro Montanari, ti accorgi che in tutte e tre le occasioni, e non parliamo per vanteria, la nostra presenza è stata fondamentale, rilevantissima, orientando l’interesse del cosiddetto pubblico, sia nei commenti positivi che in quelli negativi. Anche quando il dibattito si è spostato dal tuo pezzo sul sesso a quello su Moresco, è stato perché noi abbiamo chiesto di spostarlo, prontamente seguiti dai lettori, i quali ci son venuti dietro, per criticarci o contestarci, non perché ci amano particolarmente, ma perché vogliono sentir parlare delle cose di cui noi parliamo, ossia della comunità che manca. E sono le stesse cose di cui, se guardi ancora meglio, avevano scritto anche Benedetti, a proposito dei bloggers, e Scarpa, definendo gli stessi bloggers peggio di Liala. Anche il tuo pezzo sul sesso, come ricordi, ha suscitato una “sommossa popolare” (ricordi i toni non proprio felici con cui ti sei rivolto ai lettori?) proprio in nome della “serietà” e contro ogni “ironia”, concetti espressi da Benedetti ancora a proposito del suo intervento sui bloggers e ripresi da noi nel nostro primo intervento pubblicato su NI a cura di Scarpa e della stessa Benedetti. Difatti, partendo dal tuo articolo, ancora una volta sùbito la discussione si era spostata sulla “comunità”, e da lì è poi continuata su questi stessi temi, non sul “sesso parlato dagli uomini”, che in effetti non interessava a nessuno. D’altronde, nessuno dei redattori di NI è intervenuto a parlare di sesso, ma solo di comunità (vedi Moresco, ma anche Inglese, Voltolini e altri, per vie diciamo indirette).
    Questo per dire, o meglio per ripetere, a te e agli altri, la seguente osservazione, che avevamo già fatto (ma qui si fa presto a dimenticare, ecco un’altra cosa da analizzare): oggi l’isolamento di chi parla, a qualsiasi titolo, da qualsiasi pulpito che non sia ufficiale e allineato, è totale, globale, paragonabile a niente che storicamente si sia visto fin qui a livello di organizzazioni sociali e comunitarie. I pezzi di Moresco, i tuoi, quelli nostri cadono nello stesso vuoto – ZERO commenti – in cui cade tutto ciò che è frutto di pensiero e di sangue: in un dimenticatoio indefinibile, in un isolamento assoluto che, questo è il paradosso, ha le belle sembianze della “comunicazione globale”. Alle volte è interessante leggere dei commenti scritti da certi lettori in una lingua nettamente chiusa, autistica, che non comunica niente, si avvolge solo su stessa o sproloquia in deliri offensivi e turpiloqui, senza provocare reazioni di sorta: sono i tipici commenti di chi ormai per mettersi in relazione usa solo internet e non sa dove andare a sbattere la testa per incontrare due occhi e una voce viva che risponda. “Viva” non nel senso di reale, ma che sappia prendere in considerazione l’”altro”, che “risponda” alle tue domande profonde.
    La lingua dei nostri interventi, invece, questo devi riconoscerlo, ti fa smuovere il culo dalla sedia, ti fa sobbalzare, almeno ti fa andare in cerca dei libri di latino che avevi abbandonato da anni, e forse a qualcuno fa anche venir voglia di uscire e di abbandonare questi schermi luminosi. Vedi, Montanari, è “difficile mettersi in relazione” con noi anche perché la nostra lingua e la nostra voce sono aperte sull’esterno e sugli altri, a dispetto della loro natura internettiana (il nostro, se vuoi, è un paradosso al contrario): sono una lingua e una voce che rifuggono l’isolamento e il narcisismo, e ricercano l’”altro” a costo della propria morte. Sono una lingua e una voce che ambiscono a fondersi con quelle di altri, non a dettare proclami da giustapporre a quelli di milioni di disperati. Non essere superficiale: qui non si sta facendo una questione di audience, né crediamo che Scarpa e Benedetti abbiamo postato i nostri scritti sperando di smuovere le masse. Lasciamo queste diatribe ai curatori dei palinsesti tv. Pensiamo alla sostanza, almeno qui dentro. E la sostanza della “verità” riguarda sempre poche persone, non dimenticarlo.

    Secondo poscritto sull’ ATTIVITA’ LETTERARIA.
    Per noi, dunque, almeno per il momento, l’unica concretezza possibile sta nella nostra proposta letteraria, consistente in un progetto di rivista che, a differenza di altri, parla chiaramente agli scrittori interessati a una comunità diversa da quella attuale, in cui il vizio della menzogna domina come una bestia immonda. Il nostro modo di fare letteratura ricerca la dimensione comunitaria, prima di quella individuale: ci ispiriamo allo zibaldone anche per questo, etc. E perciò cerchiamo contatti anche con gente diversissima da noi, perché siamo convinti che prima delle “nostre idee” sia necessario tenere sempre desta quella che tu chiami “dialettica” con le “idee degli altri”, e rinnovare perciò sempre le occasioni di incontro, a maggior ragione in una situazione come quella attuale.
    Per noi l’attività letteraria deve servire a far stare insieme le persone, non ad isolarle, magari in luccicantissimi progetti poetici stilati da editors mezzo sapientoni; a costruire una comunità che persegua la verità in tutti i campi del sapere e della conoscenza; a dare sollievo e a far pensare. Per questo riteniamo che le “opere” e gli “autori” siano secondari: nel senso che “vengono dopo”. Se infatti non esiste una comunità fondata sulla condivisione di un sapere, oppure, se non c’è la possibilità, per una comunità, di comunicare liberamente il sapere e le conoscenze, o ancora, addirittura, se la ricerca della verità, in una comunità, è continuamente inficiata da un uso surrettizio di tutti i mezzi e i linguaggi a disposizione (letteratura compresa): a che cosa servono gli scrittori e le opere? È ancora possibile, in queste condizioni, parlare di comunità? In chiusura di uno scritto che sarà pubblicato prossimamente in occasione della presentazione a Venezia di un suo documentario, Gianni Celati dice: “Ormai l’obbligo principale in tutte le attività è quello di fare dei prodotti di consumo e di facile smercio. Il che vuole dire che non può esserci alcuna ricerca se non nella direzione del cosiddetto marketing. Nella letteratura sta accadendo lo stesso e i libri diventano sempre più tutti uguali, scritti nello stesso modo. Mi sembra che il documentario rappresenti ancora uno dei pochi spazi di lavoro e di pensiero non completamente devastati, ancora un terreno di ricerca, con una straordinaria fioritura di esempi degli ultimi anni. Non so quanto durerà”.
    Noi riteniamo che oggi ci troviamo in una situazione grave, in una situazione in cui tutte le forme e i linguaggi sono facilmente “devastati e devastabili” dal marketing e dalla produttività industriale, al di là, spesso, anche dei più eroici tentativi “individuali” di resistenza. Perciò concordiamo con le analisi di Benedetti e Moresco, perciò siamo fissati con l’idea di comunità. Per tali motivi stiamo qui a discutere queste cose e, soprattutto, facciamo il tipo di rivista che facciamo, con le intenzioni che abbiamo illustrato (molte) altre volte, e in compagnia di persone che, sia detto per inciso, quanto ad autorevolezza e autorità (se è questo che ti interessa sapere) nei campi del sapere e della letteratura, non hanno niente da invidiare a nessuno, nonostante tu ti affanni ogni volta, dall’alto della tua burbanza pretenziosa, a definirci velleitari, ingenui e folcloristici.

    P.S.: Postiamo questo intervento anche in “Lettera da Leuca 2”.

  6. Tutti sì… però a me sembra di aver parlato della lettera di Moresco, santa madonna! Di Pontiggia, ecc.

  7. questa è invadenza, maleducazione!!

    proporrei ai redattori di N.I. di far sparire da questa finestra i due commenti degli Zibaldoni, non c’entrano nulla; avevano già il loro posto nella finestra su, quale il senso di riproporli?

    ora è troppo!!

    Zibaldoni ma siete proprio dei tafazzi, allora, eh!!!!

  8. Nella finestra di sopra, Lettera da Leuca 1, ho inserito un commento che credo vi interessi. Non lo posto qui per rispetto al dibattito e per non essere sgridato, anche se credo che interessi anche la presente discussione.
    Saluti.
    Ant. Mart.

  9. Cari amici,

    per le ragioni cui accennavo nell’altra lettera, ho avuto solo oggi la possibilità di leggere ciò che si è accumulato in queste settimane.
    Ringrazio tutti e rispondo a due o tre cose che mi stanno a cuore, con franchezza e cercando di argomentare.
    Ma prima voglio esprimere la mia solidarietà a Raul Montanari, pre-so particolarmente di mira con parole che arrivano in certi casi al di-sprezzo e all’offesa (“servo”, ecc…), che non posso condividere né nella forma né nella sostanza. Capisco che si possa apprezzare o meno uno scrittore, che si possa essere o meno d’accordo con un suo singo-lo pezzo (e, in questo caso, non mi pare ci sia niente di male a dirlo anche con forza), capisco che ci possa essere scontro -anche aspro- sulle idee e sulle forme. Ma questo atteggiamento da linciatori non mi piace e non lo accetto. Ho subito anch’io qualche volta, sulla mia pel-le, il linciaggio. Non posso stare perciò dalla parte dei linciatori, qua-lunque possa essere stata l’impulsività (ma anche la generosità) di Raul Montanari nel rispondere. Non ci sto. Questo gioco non porta da nessuna parte. E’ una sabbia mobile. Io e Montanari -che sono conten-to sia in Nazione Indiana- ci conosciamo appena, ci siamo incrociati solo poche volte e per poco tempo, ma ho letto un paio di suoi libri e non mi pare certo che meriti di essere trattato come scrittore nel modo come è stato trattato. Leggete, ad esempio, alcuni dei racconti conte-nuti in Un bacio al mondo, che mi pare rendano immotivata e assurda questa ansia mirata di denigrazione.
    Altra breve precisazione. Qualcuno pensa evidentemente che noi siamo una specie di Politburo che si riunisce e decide se mandare a-vanti l’uno o l’altro ecc… Non si sa se ridere o piangere. In realtà al-cuni di noi -e non solo quando è agosto- non si vedono e non si sento-no anche per mesi. Probabilmente esistono al nostro interno dei lega-mi forti e significativi, visto che stiamo assieme (ho cercato a mio modo di evidenziarne alcuni nell’ultimo scritto su Nazione Indiana), ma sono di altro tipo e di altra natura. E in ogni modo abbiamo pensa-to di chiamare questa nostra asimmetrica presenza in rete Nazione In-diana, non Nazione Prussiana.
    Rispondo adesso a un paio di questioni sollevate da alcune lettere.

    Il mio impegno “politico”, umano e sociale generale e la mia attività di scrittore.
    Io non vedo così separate le due cose. La mia vita è stata attraversata violentemente da entrambe e non sono mai stato -né mi pare di esserlo adesso- un ignavo. Si dà addirittura il caso che buona parte della mia vita l’abbia passata in un coinvolgimento e in un deragliamento politi-co forse inimmaginabile a chi mi chiede conto adesso di questo, e ab-bastanza fuori misura anche per gli standard di allora. Non voglio scendere in particolari, perché vedo che ogni cosa viene presa nel suo verso peggiore. Vorrei solo dire che forse adesso non starò facendo di più, ma ho l’impressione di non fare neanche di meno di quando ero sprofondato nell’attività politica rivoluzionaria separata.

    La comunità, gli scrittori, ecc…
    Gli amici di “Zibaldoni” insistono sul fatto (lo fanno qui e l’hanno fatto anche in una lettera a Carla Benedetti) che, in un certo senso e in una certa misura, l’attività dello scrittore non sarebbe del tutto legitti-mata (e sarebbe anzi facile preda quando non resa inerte dai micidiali meccanismi mercantili e di potere dominanti) senza la presenza di una “comunità che persegua la verità in tutti i campi del sapere e della co-noscenza”, che questo lavoro sarebbe più importante delle “opere” e che se non c’è questa comunità legittimante l’attività dello scrittore sarebbe in qualche modo contrassegnata da sterile narcisismo, isola-zionismo ecc… A parte il leggero brivido che mi metterebbe anche una comunità di questo tipo (in molti casi nelle società che si sono au-toprocamate tali gli scrittori e i poeti erano al bando come “antisocia-li” o si suicidavano), io credo che tutti noi che abbiamo dato vita a Nazione Indiana siamo sensibili al problema di creare un allargamento di spazio anche in questo senso, tanto più in un momento così irrespi-rabile e plumbeo della vita culturale e civile del nostro paese, altri-menti avremmo continuato tutti a fare solo quello che già stavamo fa-cendo, che era di per sé abbastanza impegnativo. Invece siamo qui a discutere anche di questo, perché ne capiamo l’enorme portata. Ma questo modo di porre il problema non mi convince, né mi convince questa sottovalutazione delle “opere” rispetto al contesto, che può a volte essere modificato anche dalle prime oltre che viceversa. Non a-vrebbe convinto neanche Leopardi (al quale voi vi richiamate con la vostra denominazione) che ha usato anzi parole dure a questo proposi-to. Ma anche sul resto del problema, così come voi lo ponete, il mio dissenso è profondo.
    Facciamo appunto l’esempio di Leopardi. Sapete bene che Leopardi ha lavorato per tutta la vita in una quasi totale solitudine culturale, po-litica e spirituale, che solo poche persone nell’Italia di allora interagi-vano con lui ed erano in grado di comprendere la portata di quanto andava facendo. Bene. Cosa doveva fare allora Leopardi? Smettere di scrivere per dedicare invece il suo poco tempo al tentativo di costruire prima questa “comunità”, che avrebbe sottratto il suo lavoro al rischio di narcisismo, isolazionismo ecc…? A me pare che sia stato meglio così, e che -nonostante sentisse la mancanza di tutto questo- il suo im-pegno, la sua radicalità, la sua intelligenza e la sua passione abbiano potuto incarnarsi in “opere” piuttosto che in discorsi generali sulle so-le possibilità, che abbia creato cioè, nel cuore stesso di questo dram-ma, degli organismi espansivi, che li abbia posti in questa ferita non rimarginata e che in questa tensione sia riuscito a raggiungere molte altre persone attraverso il tempo e lo spazio. Molte di più di quelle che sarebbe riuscito a raggiungere cercando -probabilmente senza riuscir-ci- di creare queste condizioni nel suo duro presente.
    Ma si potrebbero fare molti altri esempi di artisti e pensatori che hanno dovuto vivere in situazioni plumbee e senza sbocchi (dittature, tirannidi ideologiche o glaciazioni collettive di ogni genere e tipo). Eppure hanno compiuto ugualmente, umilmente, persino in assenza di una qualsiasi speranza, un gesto di incarnazione. Cosa dire allora di persone come Emily Dickinson, che ha scritto per tutta la sua vita in balia di questo sogno, senza alcuna consolazione “comunitaria”, o come Van Gogh e tanti altri? Che erano dei narcisisti isolati? Che la loro opera era senza reale leggitimazione? E perché pensare che oggi sia necessariamente meglio di ieri, solo perché le forme di questa stes-sa oppressione si presentano in modo diverso? Il fatto è che, da come la ponete voi, sembra quasi che ci siano due tempi. Uno per creare le condizioni culturali, politiche, sociali ecc… perché il gesto artistico e di conoscenza possa essere umanamente, socialmente e spiritualmente utile e legittimato. E uno in cui lo scrittore, legittimato dalla presunta presenza di tali condizioni, lo può mettere in atto. Le cose non stanno così. Non ci sono due tempi. La vita nasce quando nasce, l’onda si muove quando si muove, la ginestra di Leopardi fiorisce anche se non trova un ambiente favorevole e legittimante, ma anzi solo una parete di lava pietrificata, non aspetta il permesso di nessuno, se ne frega di chi, autoinvestitosi di questo ruolo, crede di poterle dire quando può fiorire e quando no. Ho già conosciuto in passato logiche di questo tipo, magari anche generose e in buona fede ma che possono risultare alla fine altrettanto padronali e castranti di quelle a cui intendono op-porsi. Confrontiamoci sì, ma da pari a pari, senza meccanismi mentali che possano mettere l’altro in inferiorità ideologica e in soggezione.
    Può darsi che, da tutto quello che abbiamo messo in ballo, possa ve-nire fuori qualcosa di buono. Io credo che sarà così. Però le posizioni devono essere libere, chiare, argomentate e -sia pur nello scontro- im-prontate a rispetto reciproco. Se no pazienza. Non tutto si può conci-liare. E ciò che non si può conciliare è meglio che resti inconciliato.
    Scusate la lunghezza di questa lettera, dopo la quale comunque non disturberò più per un pezzo, per le ragioni che già vi ho detto, ma an-che perché, nonostante e contro questo stato di cose, mi ostino a esse-re uno scrittore che scrive e che continua a esordire.
    Un caro saluto e un abbraccio,

    Antonio Moresco

  10. Vedo solo ora che vi site spostati di qua. Ho postato nell’altra “Lettera da Leuca” il mio intervento ulteriore sull’etimologia. Vedo anche che Moresco finalmente si è fatto vivo. Sono contento. Leggerò e vi dirò. Nel frattempo, però, leggetevi anche quell’altra cosa di là, che forse vi interessa.
    A presto.
    GP

  11. Caro Moresco,
    noi ti ringraziamo innanzitutto perché il tuo, a differenza di altri, finalmente è un intervento senza toni ironici, e ci dà pertanto la possibilità di chiarire il nostro pensiero che, evidentemente, finora non siamo stati in grado di esporre in forma compiuta e persuasiva. Lasceremo da parte i due capoversi iniziali della tua lettera, perché non ci riguardano personalmente, anche se, a onor del vero, dobbiamo pur dire che anche noi di “Zibaldoni e altre meraviglie” siamo stati oggetto di parole pesanti, anzi pesantissime. Ma del fatto pare non essersi accorto nessuno. Lasciamo perdere, non è di questo che bisogna parlare. Aggiungiamo soltanto che quando si scelgono i liberi “commenti” al proprio BLOG, come avete fatto voi, è normale, quasi naturale, che qualche squilibrato prenda la parola e dica cose insensate, anche offendendo; ma non ci si deve far caso, né è bene prendere a pretesto questi interventi volgari per passare sotto silenzio le ragioni di chi, invece, un equilibrio ce l’ha e dice cose sensate, almeno fino a prova contraria, o per ventilare e minacciare, a nome di tutto il “politburo”, interventi di censura ancor più deleteri per tutti. Proprio perché non siete “Nazione Prussiana”, evitate – o uno alla volta o tutti insieme, o come preferite – di alterarvi in maniere troppo rigide e marziali, e vedrete che il dialogo scorrerà più felice e rispettoso (sempre che uno abbia voglia di parteciparvi al dialogo, perché non è mica obbligato).
    Gli scrittori, le opere e la comunità avvenire, dunque: questi sì che sono argomenti che ci interessano. Noi crediamo fermamente che misurarsi su di essi significa oggi davvero dare un senso alla nostra attività quotidiana, che altrimenti rischia il vaneggiamento, lo sproloquio, il narcisismo, l’immunità.
    In realtà, caro amico, lo scrittore non sarebbe nulla senza una comunità, addirittura non avrebbe ragione d’esistere, perché, puoi tu dirci a chi lo scrittore dovrebbe destinare la sua scrittura, se non ci fosse una comunità pronta ad accoglierlo? Anche il più grande e ostinato e solitario dei poeti – rimasto solo, senza nessuno in grado di ascoltarlo, impossibilitato a “mettersi in relazione” anche con un solo altro uomo, probabilmente resisterebbe ben poco a scrivere, per cadere presto in un silenzio assoluto; il silenzio di chi è “immune”, solo con se stesso. Chi scrive, invece, deve sempre sperare in chi legge, altrimenti non può nemmeno cominciare a scrivere: la scrittura è una delle attività umane più ottimistiche e, per certi aspetti, folle, proprio a causa della sua intrinseca, obbligatoria speranza di un altro ben disposto verso di noi, pronto ad ascoltarci. Forse nessun altro mestiere, nessuna professione presuppone un “rischio d’impresa” così alto, come tu sai bene (pensiamo, per esempio, a certi racconti della tua esperienza di “ricerca di un editore”).
    Posta così, allora, la questione rivela una cosa, innanzitutto: che mentre desideriamo edificare la comunità avvenire, in realtà la stiamo già costruendo, modificando con queste nostre parole quella nella quale ora ci troviamo, e lo stiamo facendo insieme, donandoci il frutto delle nostre idee e delle nostre riflessioni in materia. Pertanto, consentici di dire una cosa in via preliminare. È sbagliato affermare, come fai tu, che secondo noi “l’attività dello scrittore non sarebbe del tutto legittimata senza la presenza di una comunità”, perché noi, invece, diciamo una cosa molto più radicale: che l’attività di uno scrittore oggi è DEL TUTTO ILLEGITTIMA se la comunità nella quale ricade è una comunità disgregata, apatica, teledipendente o mediatordipendente, e in definitiva non è una vera comunità. In questo senso dicevamo, seguendo, se leggi bene, le argomentazioni di Benedetti, che la questione è anche politica. Non nel banale senso dell’”impegno” – del quale, se vuoi, possiamo anche parlare, ma non qui, dove non c’entra assolutamente niente. Mica noi siamo Prodi e D’Alema, e tu sei Berlusconi!
    Noi, quindi, non stiamo qui parlando delle tue opere o di quelle di Montanari. E sappiamo bene che un uomo si giudica dalla sue opere e non da un intervento in un forum magari non meditato a dovere. Le opere hanno un’enorme importanza e quanto più grande è l’opera tanto più complessa e variegata e ricettiva è la comunità nella quale essa ricade. No, no, non abbiamo mai “sottovalutato le opere rispetto al contesto” né ci siamo dati una tabella di marcia, stabilendo due tempi, uno per le opere e uno per la comunità (ma dove le hai lette queste cose?). Perdonaci, ma dobbiamo pur dirtelo che sei lontano molte miglia dal comprendere quello che volevamo dire. Eppure, tutta la discussione sul ‘munus’ e sulla ‘communitas’ doveva almeno aver gettato una luce sulle idee in discussione. Inoltre, accusarci di logiche “padronali”, “prussiane” o “bolsceviche” (ancora una volta, scovate chissà dove) ci sembra così assurdo da farci sorridere, in un primo momento, ma poi da costringerci a un esame di coscienza: “Siamo stati forse noi così arroganti e superbi da aver dato l’impressione di voler, come dire, monopolizzare il dibattito, sopraffacendo gli altri?”. Se è accaduto questo, ce ne scusiamo con tutti i nostri interlocutori; forse però un motivo c’è, ed è da ricercare nel nostro timore che alcune ragioni di natura elementare fossero misconosciute, mistificate e passate sotto silenzio, il che ci ha indotto a pensare – sempre sulle ali di un entusiasmo disinteressato, mai con calcolo o frode – che una maggior forza nel sostenerle avrebbe dato ad esse più chances di essere sottoposte a verifica dagli altri. Il che finora non è accaduto, caro Moresco, purtroppo, e anzi il tuo intervento, per certi aspetti, ci dà conferma che i nostri timori non erano infondati.
    Ma in fondo, che cosa abbiamo detto noialtri? Abbiamo proposto una discussione sulla comunità avvenire, abbiamo detto che di essa comunità tutti quanti abbiamo bisogno, non a prescindere dalle opere, ma oltre le opere, che sono nate nascono e nasceranno comunque, anche alle falde dell’arido Vesuvio e della opaca Milano. Le opere ci importano, eccome, esse fanno parte del passato e costituiscono la nostra identità presente. Ma noi oggi vogliamo intuire l’opera del futuro e per far questo abbiamo bisogno di intuire anche il contesto nel quale quell’opera ricadrà, appunto la comunità avvenire. L’opera futura e il contesto futuro sono oggi privi di ogni contorno, nessuno sa che cosa avverrà, se i meccanismi attuali di controllo e selezione dell’immaginario letterario saranno più efficaci di oggi oppure più blandi, se vivremo in una comunità più disgregata e più vulnerabile di quella attuale oppure se la situazione odierna avrà un altro esito. Tutto questo con la politica, con l’impegno politico in senso stretto non ha nulla a che vedere, né qualcuno di noi ti ha mai chiesto un simile impegno. Ti abbiamo chiesto, invece, un impegno comunitario, che si espleta nel dibattito su che cosa fare per “creare un allargamento di spazio”, per dirla con le tue parole, in una società che riduce sempre più i luoghi della comune discussione. Il tuo ultimo intervento, ad esempio, è già un contributo valido a questo fine, sebbene sia inficiato da una fondamentale incomprensione delle nostre idee.
    Incomprensione, poi, rispecchiata per intero anche quando dici che certamente con le nostre parole non avremmo convinto Leopardi. Ma dimentichi che la solitudine di Leopardi è il frutto di una costrizione, non di una libera scelta. E che fu la società della Restaurazione, il “secol superbo e sciocco”, cioè la comunità mancante o disgregante, che lo costrinse in quello stato di solitudine; e se Leopardi ci diede le grandi opere che ci ha dato, ciò accadde perché, a dispetto della sua solitudine, coltivò sempre l’amicizia e il gusto per le relazioni umane: basti leggere l’Epistolario, che è uno dei più ricchi e belli della nostra letteratura per numero e qualità degli interlocutori, ma anche per l’aura comunitaria che lo pervade, per il continuo cercare solidarietà intellettuale, amicizia e profondità di pensiero nei luoghi più impensati, più impervi. Leopardi fu animato per tutta la vita da una grande utopia comunitaria, quella espressa proprio nella “Ginestra” che tu citi, nella quale puoi trovare non la solitudine, ma il DONO che Leopardi, “nobil natura”, fa DELLA PROPRIA SOLITUDINE agli altri, a noi, quando immagina l’unico riparo agli uomini contro la potente natura:

    “Costei chiama inimica; e incontro a questa
    congiunta esser pensando,
    siccome è il vero, ed ordinata in pria
    l’umana compagnia,
    tutti fra se confederati estima
    gli uomini, e tutti abbraccia
    con vero amor…”
    (vv. 126-132)

    Tutti dovremmo ospitare questa “utopia”, per dar luogo poi all’”onesto e retto conversar cittadino” che Leopardi auspicava, e che noi oggi stiamo riproponendo in questi pubblici conversari. Guarda meglio, Moresco, e ti accorgi che questa già non è più utopia, ma realtà che si concretizza nelle nostre mutue parole, che noi ci doniamo al di là di ogni logica mercantile, di ogni convenienza spicciola. Questa è la comunità che noi ogni giorno vogliamo costruire e irrobustire, allargandola sempre di più, fino a tessere una rete di relazioni infinita – rete di scambi anche di opere, perché no? – in cui non il cicaleccio abbia la meglio, o l’esibizione ironica, ma l’espressione vitale di questo essere minuscolo che si aggira per l’universo, che chiamiamo uomo.
    Né devi pensare che intendiamo porci a capo di queste relazioni, egemonizzandole (non siamo D’Alema…), o che intendiamo forzarle con conciliazioni artefatte. Sbaglieresti di grosso. Oltre a non essere dei politicanti, non siamo nemmeno dei santoni né dei preti, siamo solo due amici abituati a prendere sul serio gli altri e animati dalla ferma intenzione di mettere in pratica alcune idee, e nel farlo riconosciamo un unico mediatore: la comunità avvenire. Che, se sarà buona o meno buona, dipende anche da noi. Pertanto, qui stiamo innanzitutto (ancora) considerando soltanto la possibilità di fondare le basi di una comunità che discuta civilmente e senza interessi meschini o calcoli opportunistici relativi al ‘proprio’. Tali basi consistono nel rispetto (da parte di tutti, e verso tutti) e nella comprensione delle ragioni di chi è diverso da noi: senza queste cose, senza, quindi, come diceva Benedetti, prendersi sul serio, non è possibile andare insieme da nessuna parte. Per questo si tratta, per certi versi, di un discorso ancora tutto da cominciare.
    Noi abbiamo anche qualche idea “concreta” e operativa, lo avevamo accennato a Carla Benedetti in una lettera privata. Pensiamo a un convegno, magari da qui a un anno, di persone che, come voi e come noi, stanno facendo lo sforzo di immaginarsi nuovi modi di stare insieme, di ricerca e di elaborazione artistica (non solo in rete), innalzando le prime fondamenta di una comunità virtuosa. Certamente non ci sono solo “Nazione Indiana” e “Zibaldoni e altre meraviglie”, devono per forza esistere da altre parti altre analoghe esperienze. Noi pensiamo che si potrebbe provare a metterle insieme, almeno a discutere e a confrontarsi, ad ascoltarsi, creando quelle famose “sinergie” di cui parlava Dario Voltolini, che ci convincono molto. Potrebbe essere un convegno che potrebbe intitolarsi benissimo: “La comunità che manca”, e prendere l’avvio dai temi di queste discussioni estive. Dovrebbe parteciparvi gente quanto più diversa è possibile: artisti di ogni tipo, ma anche “mediatori culturali”, editors, filosofi e, perché no?, politici, se ce ne sono (ma dove sono!?) in grado di capire queste cose. A patto che sia gente interessata al tema della “comunità mancante” e alle “basi” di cui parlavamo sopra: rispetto reciproco, come dici tu, e, soprattutto, sforzo di attenzione e comprensione per le ragioni degli altri che ti stanno a fianco o di fronte – comunque sulla stessa barca, non dimenticarlo. Noi dubitiamo che si possa mai arrivare a costruire alcunché di felice e di serio, senza tali fondamentali presupposti.
    Un’ultima cosa, caro Moresco, ti chiederemmo, scusandoci in anticipo dell’impudenza (ma la nostra “franca lingua” ce lo impone): per cortesia, evita di aprire e chiudere le tue lettere con espressioni del tipo “non disturberò più per un pezzo” e simili. Dai l’impressione di essere intervenuto non per il piacere di farlo, ma perché costretto, perché dovevi difenderti o difendere e attaccare qualcuno. Non è questo che lo spirito comunitario richiede. Intervieni pure quando ti pare, con leggerezza o pesantezza, magari dicendoci: “questi non sono cazzi vostri”; ma non farlo con l’aria di chi compie un dovere al quale si sarebbe volentieri sottratto. Il nostro più forte desiderio è che tu sia ‘communis’, non ‘immunis’.
    A presto, dunque.
    Con affetto,
    Enrico De Vivo e Gianluca Virgilio
    http://www.zibaldoni.it

  12. Caro Moresco,
    sono appena tornato dalle ferie e leggo questa interessante, e tutt’altro che oziosa, querelle estiva sulla parola “communitas” nella quale sei stato tuo malgrado coinvolto, ma dalla quale non mi pare che sei uscito con le idee molto chiare (tu come altri). Senza fare troppe evoluzioni dizionaresche, sarebbe bastato leggere quanto afferma il grande Benveniste: “In effetti, ‘munus’ ha il senso di ‘dovere, carica ufficiale’. Esso ha formato dei derivati aggettivi: ‘munis’, ‘immunis’, ‘communis’. […] Se ‘munus’ è un dono che obbliga a uno scambio, ‘immunis’ è colui che non tiene fede a quest’obbligo di restituire. […] Di conseguenza, ‘communis’ non significa ‘chi condivide le cariche’, ma propriamente chi ha in comune dei ‘munia’. Ora, quando questo sistema di comprensione gioca all’interno di una stessa cerchia determina una ‘comunità’, un insieme di uomini uniti da questo legame di reciprocità” (in ‘Vocabolario delle istituzioni indoeuropee’, Torino 1996, pp. 71 e segg., capitolo sull’ospitalità). Inoltre, se leggi Benveniste, oltre l’Ernout-Meillet (ma leggilo bene, come suggeriva Paradiso), ti accorgerai anche del legame forte che lega il ‘munus’ a una certa idea di amicizia, che sarebbe una ‘forza sociale’, addirittura divinizzata nel dio Mitra.
    Be’, caro Moresco, d’accordo che non bisogna linciarli gli scrittori, ci mancherebbe, ma almeno, quando hanno le orecchie lunghe e si atteggiano a superuomini, vogliamo dirglielo che farebbero meglio a tacere e a frenare la loro aggressività? Oppure gli amici degli amici vanno difesi sempre e comunque, anche quando sparano cazzate?
    Michele Rustichelli

  13. Caro Rustichelli, intanto bentornato dalle sue vacanze. Sentivamo tutti la sua mancanza.
    Mi scusi assai se mi inserisco in questo dialogo fra lei e Moresco.
    Se oltre al Benveniste (il primo nome che ho sentito fare nella prima ora della prima lezione di glottologia I alla Statale di Milano, novembre 1977, docente il compianto prof. Evangelisti, donde ovviamente l’acquisto dei due volumi del suo libro giustamente paragonato al Ramo d’oro di Frazer, ecc., libro dal valore storico eccezionale, pieno di intuizioni e di forzature, come sanno anche i cani; libro che diversamente da un dizionario ha un valore in sé e non può né deve essere aggiornato, anche se qua e là ce ne sarebbe bisogno specie dove tocca temi che sfociano nell’ambito dell’antropologia, ecc.) vuole degnarsi di leggere con attenzione anche tutto il lunghissimo thread che ha portato alla discussione terminata non qui, ma nella colonna di commenti della lettera I, magari – ma dico magari, dal greco makarios, cioè “beato se…” – le verrà il sospetto che:
    1. La questione è stata risolta con reciproca soddisfazione: io rimango convinto che scrivere che comunità viene da cum + munus e significa “messa in comune del dono della solitudine” sia uhna forzatura, altri la pensano come me, altri la pensano diversamente, e il suo prestigiosissimo intervento, nonostante il tono didattico, non risolve un bell’accidente. Se si dovesse saltare il valore di munus come “carica” prima del suo slittamento metonimico a “obbligo – dono”, non si darebbe torto solo a me, ma, cosa curiosa, anche a molti dei dizionari citati proprio da Gustavo Paradiso, nonché al benedetto Ernout-Meillet. Tuttavia, sono prontissimo a riconoscere le ragioni di Gustavo e la legittimità da parte di De Vivo e Virgilio nel seguire Esposito e il suo filo interpretativo: l’ho già fatto. Ma di questo non gliene frega più niente a nessuno; ricevo lettere di gente esasperata che mi chiede di cassare i commenti o almeno di filtrarli, proprio in seguito al trascinarsi di questo dibattito. Io mi sono scusato ripetutamente del tono che ho usato durante la discussione, l’unica cosa di cui mi rammarico; nessuno si è sognato di scusarsi con me per parole come “servo” o per insinuazioni pesantissime come “tono paramafioso” e battutine perfiducce come l’allusione al fatto che il significato munus = carica mi stesse particolarmente a cuore, forse perché a me stanno a cuore le cariche cioè il potere (ragionamento stravagante, a dire poco, che si trova espresso chiaramente nelle pieghe della prima risposta che De Vivo e Virgilio mi hanno dedicato; scusatemi, amici, se lo cito, ma visto che si parla tanto delle mie “offese”…). Non sono nemmeno presidente dell’assemblea condominiale, figuriamoci che vita di ricerca del potere ho fatto.
    2. Il sottoscritto non si è mai atteggiato a superuomo, per il semplice fatto che in tal caso non avrebbe MAI accettato di entrare in una discussione in cui pesava, all’inizio, un pregiudizio odioso nei suoi confronti, che nasceva dai commenti più o meno demenziali al pezzo sul sesso pubblicato a luglio. Questi commenti, figli in parte della solita erotofobia, in parte di una totale decontestualizzazione di quel pezzo sia dalla sua destinazione originaria sia dal complesso di quello che ho scritto finora e che mi giustifica come autore, consentivano appunto che mi si desse allegramente del servo o si facessero battute ironiche sulle mie ben note connivenze col potere. Nonostante questo, irritato com’ero, sono entrato comunque in una diatriba di cui ho indicato quasi subito il vero punto, cioè non tanto la questione etimologica quanto l’insoddisfazione su come veniva trattato il pezzo di Moresco, in quella che in teoria doveva essere una colonna di commenti a lui dedicati. Basta deporre il Benveniste, togliersi la cispa dagli occhi e andare a rileggere, e si trova tutto; così forse si attenuano i rischi di sparare cazzate a vanvera, prima ancora di essere andati al supermercato a fare rifornimento per la nuova stagione. Ci provi lei a sostenere una conversazione di questo tenore: “Come dice lo stronzo Rustichelli…” “Ah, ecco l’ultima trovata dello stronzo Rustichelli!…” “Cos’ha oggi da dire quello stronzo di Rustichelli? Cosa opina, cosa argomenta, cosa suggerisce lo stronzo, oggi?”. E noti che stronzo è sicuramente un appellativo meno abrasivo di servo. Dia dello stronzo a un suo amico, e lui le mollerà una pappina in faccia; gli dia del servo, e non sarà più suo amico.
    3. Moresco ha scritto chiaro e tondo che noi due non siamo amici. O Moresco è un bugiardo o è un cretino. Oppure non è mio amico (ci siamo effettivamente incontrati credo tre volte, scambiando poche parole) ma riconosce quello che hanno riconosciuto molti altri: la disponibilità a rispondere e mettermi in gioco (nel silenzio generale in cui cadevano gli appelli agli altri “indiani”, quelli garbati di De Vivo e Virgilio e quelli scomposti stile Settis) e la conseguente partenza di un piccolo gioco al massacro tipico dei blog, per cui tu gli fai la battutina, io gli sparo l’etimo, tu tiri giù un po’ di parolacce, io torno dalle vacanze e disfo le valigie, ecc. Non certo tutti d’accordo, è ovvio: anzi, senza nessun accordo. Ma il risultato è esattamente il linciaggio di cui parla Moresco, o perlomeno un accerchiamento logorante, fatto di continue provocazioni, ultima la sua.
    Gente come lei e altri nomi facili da leggere (ma bisogna leggere) si è divertita a sufficienza in questo nobile esercizio, ed è ora di chiudere la storia. Altri hanno semplicemente sostenuto con molta passione le loro ragioni e da me hanno avuto il sacrosanto riconoscimento che meritavano; altri ancora, in pubblico e in privato, hanno dato ragione e sostegno a me. Niente di strano. Tutto abbastanza regolare. Quindi riparta pure per le sue vacanze, e oltre al Benveniste si porti dietro una buona stampata dei pezzi citati e dei commenti completi agli stessi. Se li leggerà con un centesimo dell’attenzione dedicata al grande glottologo penso che alla fine vedrà la luce anche lei, e si vergognerà un pochetto del tono saccente, ormai fuori luogo, fuori tempo, fuori fase, fuori tutto, e dell’ironia sulle orecchie lunghe (noto tra l’altro che, dopo la grande messa al bando dell’ironia, di ironia nei miei riguardi se n’è fatta massicciamente). Poteva dire la sua, citare Benveniste, e fare a meno di tirare in ballo superuomini asini innominati. Se la vergogna non scatta, pazienza, peggio per lei, per i familiari e per chi ha a che fare con lei.

  14. Caspita, Montananri è già tornato?!!? Anche la teutone deve averlo mandato via, a studiare meglio il latino prima di qualsiasi degnissimo rapporto… intellettuale. Facciamo una colletta per pagargli un’altra settimana di ferie? Che ne dite?

  15. Scusate, più di Montanari che trascura la teutone per replicare alle accuse, è sconcertante l’accanimento che avete nei suoi confronti, nemmeno la bella Lettera da Leuca distrae certe persone, nemmeno l’essere appena tornati dalle vacanze. Sareste anche divertenti da leggere se non ci fosse nel vostro modo di fare una scorrettezza verso Moresco e verso quelli che vogliono parlare del suo lavoro, infatti insisto nel dire che questa finestra di commenti era dedicata solo a lui, le polemiche dovevano restare fuori (potevate continuare nel grattacielo di Lettera da Leuca 1 se proprio avete una coazione invincibile). Ve lo dico chiaro e tondo, sono stufo di trovare le vostre pistolettate contro Montanari quando apro questa finestra. Mi pare un discorso ragionevole. Spero che altri siano d’accordo.

  16. Andrea, con te possono essere d’accordo solo coloro che vogliono mettere il bavaglio a chi vuol parlare liberamente, cioè i censori. Il tuo è un atteggiamento pericolosissimo, ma tipico, purtroppo, dei fautori delle netiquette di internet. E poi questa storia del “parliamo di Moresco, parliamo di Moresco”, come se Moresco fosse portatore del Verbo… A me sembra che ci sia anche altra gente che abbia scritto cose interessanti, e che non esista solo Moresco, dal quale si può anche partire in questa finestra, ma poi, nel corso del viaggio, lo si può benissimo lasciare a casa, se non ci dice più niente. Montanari si inserisce da solo, senza essere stato chiamato in causa, dove gli pare e piace. Per me è questa la vera violenza che ci tocca subire, la vera pistolettata, che si protrae ormai da mesi. Utile, però, a quanto vedo, solo a far venir fuori il peggio di ciascuno di noi, cioè il mussolinino che è in ogni italianino. Montananri provi a tacere, e vedrà che il dibattito si svolgerà, come si stava ormai svolgendo, nella più assoluta calma e libertà. Libertà anche di dire che lui non conosce il latino o che Moresco scrive cose che alla fin fine non sono interessanti più di tanto. L’accanimento non è contro una persona che nemmeno conosco, o, presumo, conoscono gli altri che pure si stanno lamentando dei suoi toni ormai da mesi, ma contro questo stato di cose assolutamente piatto della discussione, assolutamente sterile. Anche tu, Andrea, pur sollecitato più volte, intervieni solo adesso a fare la tua sparatina di lamentele. E’ possibile scrivere e parlare tra di noi senza darci addosso, ma anche senza false ipocrisie e magari con qualcosa di veramente serio e costruttivo da dire? Questo mi chiedo. Ma sono molto scettico. E sono convinto che quando ci si avvia verso la bagarre, non serve a niente fare i moralisti o i buonisti o i difensori della “pace”: se deve saltare tutto, che salti, anzi bisogna fare di tutto perché tutto salti e si estremizzi, perché tutto scoppi. Dopo verrà qualcosa di bello, di sicuro. Quella sì, sarà una vera pace da godersi. Non questa in cui facciamo finta di discutere di Moresco, ma in realtà ci mettiamo (vi mettete) solo in bella posa intellettuale da scrittori mezzi morti in difesa dei loro fortini.

  17. Caro Ant. Mart., quando scrivi:
    “Andrea, con te possono essere d’accordo solo…i censori” e poi scrivi,
    “Montanari provi a tacere” c’è qualcosa che sul piano logico, prima di chiedersi cosa succede nella realtà, non funziona. Ma se anche vogliamo andare nella realtà penso che il primo intervento di Montanari su quell’etimologia fosse dovuto, perché communis non significa “essere partecipe del dono della solitudine”.
    Poi, se tu mi dai del censore perché ti chiedo di scrivere interventi polemici su Montanari dentro un’altra finestra di commenti, in modo che questa sia leggibile, penso che sei in malafede oppure che non sei del tutto presente.
    Infine, quando scrivi:
    “bisogna fare di tutto perché tutto salti e si estremizzi, perché tutto scoppi. Dopo verrà qualcosa di bello, di sicuro”
    penso che non vorrei mai mettermi a ragionare con te, perché so che mi sentirei dare dei giudizi sulla mia personalità come questi:
    “..in realtà ci mettiamo (vi mettete) solo in bella posa intellettuale da scrittori mezzi morti in difesa dei loro fortini.”

    Volevo anche dire che è uscita la seconda parte dei Canti del Caos.

  18. Caro Montanari,
    anche a noi pare che l’intervento di Rustichelli (e di altri) sia “fuori tempo massimo” e che, come ogni intervento “fuori tempo massimo”, risulti un po’ stonato. Non ti nascondiamo, però, che la citazione da Benveniste ci sembra pertinente e azzeccata e in linea con quello che noi pensiamo della “communitas”. Non diciamo questo per tirare acqua al nostro mulino, anche perché noi non abbiamo un mulino. Abbiamo solo una volontà determinata di capire come stanno le cose e di intervenire, ove possibile, per migliorarle. Ecco perché cogliamo anche questa volta l’occasione, giacché ormai tra di noi “pace è fatta”, per chiedere a te che cosa pensi di questo argomento che, a partire (lo ricordiamo a tutti) dagli interventi di Tiziano Scarpa, Carla Benedetti ed Helena Janeczeck sui bloggers, sull’ironia, su Pontiggia e sulla “collettività che manca”, si è spostato poi su altri binari, ma ha mantenuto comunque un filo comune che noi riusciamo a distinguere bene. Insomma, ti chiediamo se tutte queste parole estive sono state il frutto di un’allucinazione collettiva oppure se ne è valsa la pena di discutere su un tema che a taluni è sembrato vago ed astratto, ma a noi sembra di fondamentale importanza per il destino di tutti, non solo dei letterati. Diciamo queste parole con tutta la modestia di cui siamo capaci, essendo consapevoli che il dibattito sulla comunità si sarebbe sviluppato comunque, anche senza il nostro intervento. Le parole, come le cose, hanno una loro necessità, e, dunque, una loro ragione, che conviene sempre interrogare. Noi abbiamo avuto la risposta di Antonio Moresco, che ci è parsa alquanto vaga e per certi versi fuori bersaglio, e, come sai, glielo abbiamo detto a chiare lettere in un nostro precedente intervento. Ora, al di là di tutte le polemiche (nel corso delle quali a volte, presi dalla foga del dibattito, abbiamo certamente ecceduto, e ce ne scusiamo), è a te che rivolgiamo la stessa domanda. Tu finora ci hai detto “che cosa non è” per te la “communitas”. Ci diresti adesso “che cosa essa è” per te?
    Ti sembrerà ozioso e pedante il fatto che noi insistiamo su una questione del genere. In realtà essa è per noi di capitale importanza, per due motivi: 1) Perché la nostra rivista si propone innanzitutto di fondare una comunità aperta di artisti, scrittori e lettori; 2) Perché la fondazione di una tale comunità è la condizione essenziale per la discussione ulteriore su qualsiasi altro tema che ci sta a cuore: la guerra, la scuola, il mondo dei bambini, quello della cultura, e quant’altro.
    Se non c’è comunità dialogante, sostanziale, non solo ufficiale, che si scambia idee e riflessioni come fossero doni, per noi non c’è nulla. E tu che cosa ne pensi?
    Con il solito affetto,
    Enrico De Vivo e Gianluca Virgilio
    http://www.zibaldoni.it

  19. Temo che la communitas come la intendete e proponete voi sia principalmente un ideale normativo.
    Kant dice: un ideale può essere raggiungibile e concreto; oppure può essere irraggiungibile in partenza, come per esempio la perfetta imitatio Christi che si propone il vero credente. Un ideale di questo secondo tipo dev’essere abbandonato a favore degli ideali concreti? No, perché indica una direzione lungo la quale camminare. Questo è un ideale “normativo”: suggerisce una norma, cioè un senso e una direzione, anche se il suo nucleo rimane inattingibile. Io posso camminare verso il sole anche se so che certamente non raggiungerò il sole, ma andando in questa direzione probabilmente passerò, o potrò fermarmi, in luoghi dove la natura è meno ostile di quella che nasce nell’ombra e nel freddo.
    Quindi, tutto il rispetto possibile per la direzione che indicate.
    Quello che è successo qui, in questi commenti, e anche in altre situazioni di dialettica del web che ho incontrato in passato, conferma un certo pessimismo di partenza sulla natura umana e soprattutto sulla psicologia dei gruppi e sulle dinamiche che si creano quando c’è l’immunitas.
    L’uomo è una strana bestia. Non c’è quasi nessun uomo che, visto da vicino o conosciuto intimamente, non sia affascinante. Una mia vecchia amica, Daria Bignardi (adesso giù con l’ironia sull’ex conduttrice del Grande Fratello, mi raccomando… non dico voi due, ovviamente), mi disse una frase memorabile, qualche anno fa. Aveva appena cominciato a camminare nel mondo pseudoVip, e si stupiva di incontrare da vicino persone che viste in tv o lette sui giornali le avevano fatto orrore, mentre ascoltate o “annusate” da vicino rivelavano una complessità, una tenerezza, un’umanità inattese. Daria mi disse: “Forse bisognerebbe restare chiusi in casa e odiare”. Conservare, cioè, la purezza del sentimento che un uomo ti ispira con le sue idee e il suo comportamento finché ti è lontano, perché la sim-patia che ti può suscitare da vicino corrompe la purezza di questo sentimento, ti confonde le idee.
    Questo non vale per le situazioni di gruppo, in cui si innescano fenomeni noti alla psicologia sociale, che si sintetizzano nel concetto di “responsabilità diffusa” (qualunque atto io compia è meno grave, perché non sono l’unico a compierlo). Studenti universitari americani hanno inflitto scariche elettriche a soggetti umani, perché gli era stato chiesto di farlo e soprattutto perché avevano visto altri farlo. Per fortuna le scariche elettriche erano fasulle, e i soggetti urlanti erano attori. Altri esperimenti hanno visto persone normalissime trasformarsi in carcerieri, aguzzini, torturatori. Ogni giorno sulle strade c’è un uomo con le gambe rotte che chiede aiuto, ma le automobili continuano a correre via, nella stessa direzione presa da quella che lo ha investito.
    C’è un fondo orribile che aspetta solo di salire in superficie, e lo fa più facilmente quando a picchiare si è in tanti. Un intero popolo, quello tedesco, si è trasformato in una massa organizzata di assassini e conniventi di assassini, e questo è successo solo mezzo secolo fa, e non si trattava di conflitti tribali ma di un popolo che aveva dato forse i massimi contributi al costituirsi di una civiltà europea moderna. I meccanismi erano gli stessi: conformismo di massa, perdita del senso di identificazione (io non ti infliggo dolore perché non vorrei fosse inflitto a me), espulsione all’esterno della comunità di elementi di tensione interna e loro identificazione come nemico.
    Poi, sorprendentemente, c’è la bellezza.
    Ci sono gli atti di pietà, quelli di moralità, di generosità gratuita, e ce ne sono tanti. Ci sono anche i libri, le parole, le immagini.
    I fiori nel deserto, o le ginestre, se preferite. Ma nella maggior parte dei casi, nella stragrande maggioranza dei casi, sono atti individuali. Mescolandosi con i gesti dettati dal conformismo di massa, e soprattutto mescolandosi con quel tran tran quotidiano, meccanico, che costituisce il 99% delle nostre vite e si sottrae alla nostra attenzione, questi gesti grandi e piccoli di bellezza e di miseria fanno la vita di una comunità così come essa è ora.
    La costruzione della comunità a venire è un compito nobile, un ideale normativo necessario, e ciascuno è giusto che dia del suo. Mi pare sia più o meno quello che stanno facendo quelli che sono qui dentro per il gusto di dire ciò in cui credono, e fare quella che io preferisco chiamare dialettica – ma davvero qui è solo questione di termini.

    Ciao a tutti. Sono sempre in vacanza con la blonde Fee di cui sopra, ma a una lettera così rispondo con molto piacere.

    PS Mi piacerebbe che anche Ant. Mart. desse il suo contributo, visto che finora ha invocato serietà e concretezza, ha fatto la filologia dell’oltraggio, se l’è presa con Federica, con Andrea, ma nessuno ha capito di preciso cosa desidera, cosa sogna, qual è il suo apporto alla communitas o alla dialettica o come la vuol chiamare lui. “Scrivere non è una cazzata”: giusto; ma tu cosa scrivi, cosa ci dici?
    La sua voce è quella di una persona intelligente; se ci dà anche i contenuti, e dalla pars destruens passa alla construens…

  20. Non mi sono letto tutti i commenti scatenati dal pezzo di Montanari e da quello di Moresco. Sono troppi, spesso prolissi e ridondanti, e a volte inutili. Ma mi hanno anche affascinato molte cose. E altre le ho imparate.
    Se Moresco ha parlato tre volte con Montanari, io gli ho parlato una volta sola. Eppure sono ammirato per l’energia che ha profuso nel rispondere fino alla fine a tutti questi interventi. Inoltre, da alcune sue risposte emerge, quasi incidentalmente, il mestiere dello scrittore. E dico mestiere nell’accezione più seria del termine. (Basta che non mi facciate cavar fuori delle etimologie! Comunque, la discussione sull’etimologia di “comunità” è un perfetto esempio di come ci si possa istruire – parlo a nome della mia cavernosa ignoranza – divertendosi. Se vi obbligassero a ripeterla altrettanto brillantemente, non ci riuscireste.)
    Ma vengo subito al dunque. Moresco ha centrato il punto fondamentale. E lo dico, perché si tratta di una delle poche cose che mi sembra di aver capito a proposito dell’attività letteraria. Non c’è necessariamente sincronia tra la nascita di un’opera e l’esistenza di una comunità dialogante. Ma non si tratta di un’ipotesi. Questo è un fatto. La possibile sincronia è probabilmente auspicabile, ma molto spesso non si è affatto realizzata. E anche se si fosse realizzata, questo conta solo relativamente per il destino dell’opera e delle comunità che ne saranno eredi, in tempi successivi. Il testo letterario, per sua stessa natura, non può che liberare progressivamente, e secondo gli imprevedibili itinerari degli incontri, le sue potenzialità semantiche. E anche questo è un fatto assodato. Come è del tutto ovvio che un autore e la sua opera si nutrano di comunità esistenti, ma anche solo sognate. E molto spesso le opere (grandi o piccole), nascono nel vuoto di comunità, in società che si stanno disgregando o che già sono disgregate. La letteratura è una roba strana. Possiamo immaginarla come un gran servizio che alcuni fanno al progresso dell’uomo, ma a volte è solo un purissimo veleno, e semmai funziona come antidoto contro le forze distruttive dell’uomo. Veleno che cura veleno. Non è una visione romantica, mi sembra semmai realistica. Prendiamo tre poeti sullo scaffale, a caso. Celan, Eluard, Hughes. Se uno li legge senza schermi, sono ordigni. Spesso, possiamo starne certi, le parole dello scrittore sono dirette contro qualcuno, contro una certa società. Insomma, non voglio farla lunga. Ma io non capisco questa pretesa di porre la scrittura sotto la condizione di una comunità realizzata (gli amici di Zibaldone). Mi verrebbe da dire: gli individui cerchino di fare comunità, come possono. E nessuno aspetti l’opera. Questa si farà o non si farà. (“L’uomo senza qualità” di Musil non ha impedito l’ascesa di Hitler e il nazismo.) E aggiungo, pensando alla poesia, ciò che diceva Fortini: “la poesia ha sempre un carattere conservatore”.
    La comunità non è un postulato. Quindi in un blog come NI il lettore può incontrarsi o meno con quanto trova scritto. Può reagire o meno. Ed eventualmente creare altre reazioni. Quindi un dialogo. E magari un incontro. (E qui dirò una potentissima banalità: io non posso vivere una comunità senza carne. Il dialogo telematico alla lunga mi lascia con la mia enorme fame di carne: di nasi, indumenti, timbri vocali, fiati, espressioni facciali, bicchieri, piatti, ecc. E non è poco.
    Ho già detto come la penso sugli scrittori in rete. Non hanno per me privilegi catechizzanti, di avanguardie o altro. Si mettono in gioco con la loro specifica pratica della scrittura, la loro intelligenza non pedante, e con tutte le loro idiosincrasie e fragilità. Però se non hanno patenti per catechizzare, nemmeno hanno l’obbligo di prestarsi al dialogo infinito, presentandosi sempre freschi a coloro che li interpellano. Gli incontri possono nascere o non nascere (se vogliamo fare la comunità). Altrimenti siamo società, istituzioni o servizi sociali (che è un’altra cosa): dietro lo sportello dalle 8 alle 18. Per questo gli Zibaldoni percepiscono con precisione la fatica e la riluttanza di Moresco. L’opera ha spesso una sua teleologia più evidente (e tirannica) di qualsiasi discussione tra conoscenti od amici. C’è una questione di economia delle energie. Non si può discutere sempre, comunque e di tutto. Anche per le discussioni ci sono occasioni. E non tutte si equivalgono, come le cacofonie della rete mi sembra dimostrino.
    Andrea Inglese

  21. È proprio così. C’è come una tensione perenne tra ricerca e statu quo, tra il naturale, innato nomadismo dell’anima e la stanzialità orribile delle nostre vite corporali. Internet interpreta alla grande questo orrore, che conduce a tutte le deformazioni portate in abbondanza in questo secolo, ma ancor vive e vegete perfino qui dentro, nella finestrella di un sito minuscolo. La stanzialità corporale deforma il mondo, se lo vorrebbe aggiustare al proprio sguardo limitato, se lo vorrebbe normalizzare e conquistare e mettere nel cassetto (o in un’”opera”…) – mentre l’anima scalpita, recalcitra, vuol volare.
    Forse è a qualcosa del genere che allude Baudelaire quando parla dell’”orrore del domicilio”: l’orrore che uno spirito libero non può non provare allorché avverte, anche dentro di sé in quanto uomo della folla, e anche nei luoghi che pensava più puri, questa continua pulsione all’oppressione dell’altro preservando l’”immunitas” e castigando il naturale, innato e nomade anelito dell’anima alla “communitas”, a una sorta di ideale normativo, per dirla con lei, Montanari; castigando la ricerca spossante di una legge che non sta in cielo né in terra, di una verità sempre bellissima. Uno spirito libero è contrario alla pulsione oppressiva del domicilio, prima che a qualsiasi cosa che sta fuori di lui, perché sente che questa dannazione della stanzialità ostacola sempre la verità. È contrario, quindi, a qualcosa che “anche lui” si porta dentro. Egli sa, tuttavia, che il bene è dentro di lui, ma sa anche che ancora più dentro c’è il male, e che la lotta non finisce mai, se non nel preciso momento in cui (sa, può, vuole) comincia a immaginarsi una possibilità di salvezza, una via di fuga per la sua anima. Fuga dall’”orrore del domicilio”, fuga da se stesso e dalla massa – dalla berlusconiana “ggente” – che irrobustisce soltanto il sentimento dell’”immunitas” e della sazia stanzialità corporale. Come hanno scritto Ciprì e Maresco, oggi c’è bisogno di essere contro il popolo italiano, e contro qualsiasi idea di popolo – aggiungo io – perché ormai chi parla di “comunità” in questi termini (cioè tra virgolette), qui come a Pontida o a Roma, puzza del bruciato dell’inferno da mille miglia, in quanto non parla delle possibilità di fuga dell’anima dalle pulsioni della massa assassina, ma solo del “proprio”, della propria bandiera e dei propri confini – e allora delle possibilità di irrobustire il proprio orribile domicilio, peraltro sempre più stretto, sempre più coincidente con l’indivisibile individuo indistinto. (Quando parlavo dell’esasperazione della bagarre, nel mio ultimo intervento, inserivo, provocatoriamente, il punto di fuga più estremo solo per esemplificare questo discorso).
    Certo, quindi, che siamo una somma di individui tutti di un pezzo, certo che siamo dei concentrati di solitudine, certo che siamo delle vite condannate alla tristezza meccanica della quotidianità – certo che solo dagli individui, dagli atti unici, proviene la bellezza e quant’altro. Però soltanto da quello che sta in comune veramente (non nelle idee di “popolo”) proviene una cosa ancor più importante di tutte: il sollievo alla propria condizione mortale, alla propria stanzialità a volte obbligata, l’uscita fuori, infine, dell’anima dalle prigioni del corpo, delle “comunità” ufficiali e burocratiche, della falsa vita. Soltanto camminando insieme incontro al sole, io vado oltre la mia solitudine e trovo finalmente un senso perfino nel ghigno o nel pianto del mio vicino, nella morte del mio compagno di strada, nella sua inverosimile resurrezione o vittoria. L’unica legge che può darsi l’uomo che anela alla comunità a venire, è una legge improbabile, ma non impossibile: la legge della verità sempre e comunque, ovunque, che, caro Andrea Inglese, va molto al di là delle opere di chiunque, Moresco incluso (e tu, checché voglia dirne, hai una concezione tristemente postromantica della scrittura e della letteratura). La verità non sa cosa farsene delle opere. Socrate non scrive.
    Mi pare che Montanari abbia intuito bene, sorprendentemente, il fulcro di tutto il discorso che si è andato svolgendo fin qui, e che la “comunità” alla quale si riferivano quelli di “Zibaldoni” non ha nulla a che fare con una idea di “legge” o “egemonia” prussiana, bolscevica o ingenua (ingenuo, anzi, a me sembra Moresco). Questa cosa mi fa molto piacere, e non mi interessa più stabilire se Montanari sia d’accordo sulla parola “communitas” o meno, sarebbe davvero una oziosa questione, non solo terminologica, ma pedantesca. Mi basta constatare che Montanari, come, credo, tutti coloro che abitano Nazione Indiana, è finalmente “con noi”, cioè sulla nostra stessa barca, anche perché ha messo a disposizione di tutti, infine, uno degli interventi più belli letti fin qui, qualcosa che mi sembra davvero utile a far venir fuori altre voci, altre idee, altri pensieri di fuga nel mondo.
    Ant. Mart.

  22. Pare sia uscito “Canti del Caos, parte seconda” e certamente non lo mancherò; Moresco è l’unico scrittore italiano che io abbia letto dopo Calvino (ebbi una piccola parentesi di Lodoli, spero non infici…….). Tra l’altro se ne parla su TuttoLibri delLa Stampa di sabato 6 settembre, in modo sospeso, non lontano dal tipo di analisi che fa Andrea Inglese: è l’opera che conta, la comunità è secondaria, va bene per le persone ma qui si dovrebbe parlare di letteratura.

  23. EN ATTENDANT MORESCO

    C’è l’idea, neanche troppo velata, nello scritto di Andrea Inglese, che scrivere all’interno di un forum, ovvero discutere della fantomatica communitas, costituisca una perdita di tempo, una inutilità rispetto al tempo pieno dell’opera. Parlare con gli altri, insomma, sarebbe sempre secondario rispetto allo scrivere racconti, romanzi e quant’altro. Moresco, allora, se capiamo bene quello che dice Inglese, farebbe bene a rimanere leggermente distaccato dalle discussioni, quasi infastidito, altero, perché il tempo dell’opera è quello che conta per davvero, che assorbe necessariamente l’individuo, lo scrittore.

    Ecco, noi sosteniamo esattamente il contrario. Almeno, oggi, qui, è possibile sostenere esattamente il contrario, perché questo è il momento di capovolgere una logica del buon senso letterario che serve ormai soltanto ai mercanti delle lettere. Il fine, il nostro fine, il fine di chi ha a cuore la communitas di cui abbiamo discusso indefessamente – il nostro fine, dicevamo, deve essere quello di far tesoro di tutto il tempo perso a parlare insieme, e provare a far partire da questo tempo perso la letteratura o un discorso comune su di essa – semmai è possibile, semmai qualcuno ne sia capace, perché non è detto che venga fuori qualcosa di buono. Prima delle opere, allora, noi vedremmo apparire all’orizzonte nuove forme, nuovi vascelli ebbri: gli scritti come questi nostri qui, come quello di Benedetti, di Montanari (l’ultimo, lucidissimo), di Moresco e di altri, sono luminescenze che rendono viva e vera la realtà della scrittura, le restituiscono una funzione di pensiero e di azione diversa, non immediatamente omologabile, non spendibile come un buono-spesa al supermarket delle belle carriere “Opere & Autori”.

    Illuminante e disarmante, ingenua e profonda, vorticosa e quieta al tempo stesso, come una storiella zen: questa è la scrittura avvenire, che scaturirà da lampi, lettere, pagine di diari, racconti sempre più meravigliosi perché non infiltrati da alcuna tecnica, romanzi non finiti – da tutto quanto ancora non è stato scritto o che si scrive di continuo o che cerca continuamente di essere scritto. Una letteratura del genere può nascere soltanto a partire da una nuova visione della communitas, da nessun mito romantico o postmoderno dello scrittore-genio, del grande-autore, dell’opera-verità. Perciò chi sta appartato a scrivere la sua “opera” sta ancora nel vecchio mondo, e non annusa quello che di enorme sta per accadere.

    A Montanari diciamo grazie perché ora noi pensiamo che abbia centrato il senso della nostra proposta, intendendo la “communitas” come un “ideale normativo”, nel senso kantiano del termine. È curioso come uno dei capitoli centrali del libro di Roberto Esposito sulla “communitas” verta proprio su Kant e sull’idea di “legge”: oh, se ci fossimo intesi già due mesi fa! Ma che importa! Ora è certo che parliamo lo stesso linguaggio, sia pure da prospettive non del tutto simili.

    Non credere però, Montanari, che la nostra concezione dell’uomo sia molto diversa dalla tua. Anche noi crediamo che la natura umana non sia poi così splendida come qualcuno ama dipingerla; e sappiamo altrettanto bene che guai a noi se ci fermassimo alla battuta di Daria Bignardi: “Forse bisognerebbe restare chiusi in casa e odiare”. Lungi da noi questa tentazione da misantropo impenitente! Del resto, ci riesce molto difficile immaginare un misantropo che doni qualcosa di bello alla collettività. E’ vero, è l’individuo che crea la bellezza, ma solo nella comunità, per la comunità, mai nel chiuso della propria casa, per sé. Scrive Karl Jaspers: “…l’uomo singolo non può mai, per sé solo, diventare veramente uomo. L’esser-se-stesso è reale solamente nella comunizazione con un altro esser-se-stesso. Se sono assolutamente solo, rimango nelle tenebre di un mondo tutto chiuso. Insieme con l’altro, posso manifestare me stesso nel movimento di un reciproco aprirsi”. (La mia filosofia, Torino, Einaudi 1946, “Reprints” 1981, pp. 25-26).

    Caro Montanari, tu riconosci che la vita della comunità oggi è questa e non altra. Ma il punto è che questa condizione che noi tutti viviamo è il risultato di una lotta immane che, senza saperlo, tutti noi conduciamo quotidianamente e in modo latente per impedire il continuo restringimento degli spazi comunitari, dove non conta la logica mercantile fondata sull’utile, ma il disinteresse dell’atto creativo che rifugge dalle “comunità” ufficiali e burocratiche e dalla falsa vita che esse determinano, come dice giustamente Ant. Mart.. Certo, anche un semplice blog può servire a questo nobile scopo. Ora però, secondo noi, bisogna fare un passo avanti; bisogna prendere coscienza che questa lotta è una risposta vitale dell’uomo contemporaneo – prima che dello scrittore – alla logica mercantile e utilitaristica sempre più invasiva, e bisogna fare di tutto per incoraggiare questa resistenza, per assecondarla, per favorirla, perché la posta in gioco è la nostra, personale, individuale possibilità di creare bellezza nella futura autentica dimensione comunitaria. Ecco perché è davvero un imperativo categorico kantiano quello che deve animare le nostre discussioni e i nostri scambi. E se qualcuno non se la sente, non importa, nessuno lo costringe a scrivere, ma non si aspetti nemmeno che noi tutti, comunitariamente, si stia in reverente attesa dell’uscita della sua prossima “opera”!

    Enrico De Vivo e Gianluca Virgilio
    http://www.zibaldoni.it

  24. Caro Raul, questa è una lettera per te, ma detta in pubblico. E il contenuto è semplice. Non sono stato presente quando la discussuione infuriava. La leggo ora, tutta insieme, e la trovo molto ricca di cose positive. Rispetto alle cose invece negative, come l’insulto alla persona e la violenza verbale, volevo solo dirti che ti sono completamente solidale. Per amicizia, naturalmente.

  25. non condivido quanto sostengono gli zibaldoni: la letteratura sono i testi letterari ed i loro personaggi, non una comunità di persone (non voglio politica, grazie). i personaggi letterari riusciti hanno una vita molto più interessante di tantissime persone (purtroppo??). con Moresco la situazione è intermedia: avendo letto attentamente e con piacere alcuni suoi libri, ancora non ho capito di che si tratta: diario, narrazione, flusso? Del resto non l’ha capito quasi nessuno, finora, neppure Pent, dunque sono in buona compagnia; non mancherò di comperare “Canti del Caos parte seconda”, tuttavia, mentre mancherò certamente le discussioni degli zibaldoni :)

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