La collettività che manca # 2
di Zibaldoni e altre meraviglie
Molti dei commenti ricevuti, anche dei più critici verso Nazione Indiana, contengono riflessioni importanti che vorrei riprendere, con i miei tempi, e con i miei modi, superando quel tono conflittuale che, a un certo punto, sembra aver preso il sopravvento. Così mi auguro che facciano anche gli altri collaboratori di Nazione Indiana. Intanto, prima di congedarci per le ferie, pubblico questa interessante doppia lettera mandata da Zibaldoni e altre meraviglie, la prima indirizzata a me, la seconda ai Lettori e scrittori di Nazione indiana (C.B.)
Cara Carla Benedetti,
noi, come vedrà anche da questa doppia missiva, non abbiamo alcuna fretta televisiva, quindi non si affretti a bacchettarci. Abbiamo urgenza, che è un’altra cosa.
Abbiamo l’urgenza dell’entusiasmo creativo, che non ci fa ammettere ferie, divagazioni o discussioni da salotto. Le nostre sollecitazioni in Nazione Indiana nascono da una tale urgenza, da niente altro. Noi non sappiamo se lei si rende conto del punto in cui ci troviamo (ma ci sembra che proprio l’altro giorno, in chiusura di un suo pezzo, si chiedesse qualcosa del genere, riferendosi all'”enormità della situazione attuale”), ossia se riesce a scorgere l’abisso che ogni giorno si allarga sempre di più nel mondo dell'(in)comunicazione nel quale siamo immersi.
Abbiamo contatti con tutti, siamo liberi di parlare di tutto, possiamo arrivare dappertutto – eppure siamo infelici e frustrati, lei per prima, che giustamente si lamenta dei suoi “utenti-lettori” (che però, non se ne scordi, sono “suoi” quanto nessun’altra cosa, spesso hanno addirittura letto i suoi libri e i suoi studi, sono a volte coltissimi: ma se si sentono “utenti” è forse anche perché sono trattati da utenti). E non parliamo ancora della comunità letteraria o intellettuale, della quale lei ha così bene trattato, e di cui d’altrocanto è facilissimo fare esperienza quotidiana scorrendo le pagine dei giornali (anche di quelli sui quali lei scrive) e delle false riviste; frequentando festival e reading dove si pavoneggiano o pascolano come allo zoo scrittori di ogni risma; provando anche solo a parlare con i cosiddetti “intellettuali” della faccenda della solitudine assoluta delle nostre vite nel mondo della (in)comunicazione globale.
Bene. Tutto questo per noi costituiva e costituisce un quadro di urgenza. Urgenza che abbiamo provato a tradurre e incanalare nell’unico alveo che conosciamo: quello della letteratura, dell’arte e della cultura. In che modo? Facendo quella rivista che lei ha cominciato a conoscere (www.zibaldoni.it), in cui il modello dello “zibaldone” è un’occasione (non un capriccio postmoderno, come forse potrebbe apparire ai suoi attentissimi occhi) per mettere in condizione i nostri pensieri e la nostra azione di dispiegarsi nella più assoluta calma, distensione e riflessione possibili, scevri da condizionamenti di ogni sorta e, soprattutto, capaci di mettersi in libero contatto con gli altri. Senza alcuna fretta o narcisismo: la nostra è una rivista con una cadenza trimestrale, se legge bene, non un BLOG che fagocita tutto nello spazio di pochi attimi, ma non digerisce niente. Sappiamo che “leggere bene” purtroppo oggi è un lusso, ma noi è soprattutto questo che cerchiamo e chiediamo a coloro che contattiamo e invitiamo a costruire con noi un luogo aperto e arioso di discussione: “leggere bene”, cioè perdere tempo e mettere la giusta fatica nel comprendere gli altri e nel prenderli sul serio, attardarsi nel dialogo (quanto tempo perde Socrate nelle sue interlocuzioni!), indugiare sulle cose fatte bene in vista di una comunità ancora di là da venire ma comunque ben visibile a partire da qui, da questi presupposti. Forse siamo tradizionali nell’impostazione: filtriamo il materiale che ci arriva, ci prendiamo la responsabilità delle scelte, contattiamo personalmente gli scrittori e gli artisti che ci interessano, rispondiamo a tutti quelli che ci scrivono o ci propongono materiali. Il fatto è che mettersi in cerca di un luogo comune di discussione richiede immani perdite di tempo (“perdite” secondo la logica mercantile, ma per noi “acquisti” notevoli), organizzazione minuziosa, attenzione disinteressata per gli altri.
Secondo noi, una comunità intellettuale può nascere solo dall’amicizia (intesa, platonicamente, come Eros che favorisce l’intonazione comune, non come melassa), dal desiderio di contribuire attraverso un’opera comune all’edificazione di qualcosa che infine oltrepassi noi stessi e faccia bene al mondo. Non a caso abbiamo scelto di fondare una rivista – alla quale, nonostante tutta l’anzianità di strumento e la tradizionalità, “si torna sempre”, come diceva Roland Barthes. La rivista è il luogo ideale per il dibattito delle idee (e non a caso pochi amano oggi le riviste, primi fra tutti gli editori, ma anche gli scrittorucoli pervenuti), in cui il contributo personale serve a un discorso comune in vista del superamento di se stessi.
La rivista non è un BLOG, non può mai esserlo, con tutta la buona volontà. Nel BLOG, qualsiasi forma esso abbia, si resta pesantemente ancorati all’ego, all’esibizione da vetrina, non si oltrepassa mai se stessi (e la sua analisi, a proposito di queste forme di scrittura, è esattissima). L’impedimento principale è la struttura stessa del BLOG: autoreferenziale, chiusa, narcisistica. La rivista è esattamente il contrario: in essa l’amicizia, come nei dialoghi platonici, è il presupposto necessario per la ricerca della verità, è l’unica condizione che può fondare e dare senso alla ricerca di un luogo e di un discorso comuni. L’amicizia intesa in questo modo, non come strumento-melassa nelle mani dei mediatori culturali di tutti i tempi, a maggior ragione di quelli odierni – l’amicizia, dicevamo, è la negazione più forte dell’egoismo e del narcisismo. Ed essa soltanto consente di giungere fino alle soglie della verità.
Noi crediamo altresì che il lavoro di Nazione Indiana, la sua ricerca, va in una direzione analoga alla nostra, e perciò siamo qui a “perder tempo” in queste discussioni, anche se l’utilizzo di un modello come quello del BLOG richiede forse ulteriori elaborazioni e sforzi di ascolto. Però un “blog che non è un blog”, o una “rivista che non è una rivista” è una bella intuizione, che va incoraggiata e sostenuta. Certo, a vedere i primi risultati, e anche a sentire i commenti degli stessi autori (tra i quali lei stessa), non c’è da stare allegri o da farsi troppe illusioni. Ma in fondo cosa si pretende? È questo il bello del gioco, di qualsiasi gioco: grande perdita di tempo a scrivere le regole, e poi perdita di tempo ancora più grande a giocare. Però se il gioco vale la candela, non c’è niente di cui preoccuparsi e tocca solo andare avanti, insieme alle voci anche le più difficili e dissonanti, senza disprezzare nessuno, mettendo tutto noi stessi in quello che facciamo. E con questo, cara Benedetti, chiudiamo (per ora). Nel salutarla con immutata stima, vorremmo rivolgerci adesso per qualche minuto ai lettori di Nazione Indiana, per precisare alcune nostre idee e, magari, per aprire altri fronti di discussione.
Enrico De Vivo e Gianluca Virgilio
Cari lettori e scrittori di Nazione Indiana,
noi non crediamo che gli interventi accorati, aspri di Benedetti siano un alibi per eludere le domande poste dai lettori, noi compresi, anche se la prima impressione è quella. Nei nostri interventi in Nazione Indiana abbiamo posto la questione della prassi letteraria (della “militanza“, come si diceva una volta), altri hanno posto altre questioni ancora più importanti probabilmente, senza ottenere grandi risultati in termini di discussione. Nemmeno da Benedetti, che invece insiste su altre corde, su altri toni, anche se dice che ha aperto “file mentali”, etc. Un motivo ci dovrà essere – ci siamo detti – perché una persona così acuta e intelligente glissi, svicoli dall’impellenza delle domande dei suoi (giacché quelli che argomentano sono innanzitutto “suoi”) lettori, per rigirare con sadismo quasi, con aggressività il coltello dei suoi caustici assunti nelle piaghe di tutti quanti noi: gente che scrive e gente che legge insieme. Qual è questo motivo? A Benedetti vanno riconosciuti due meriti, innanzitutto. Primo: il merito dell’entusiasmo, esercitato limpidamente in un mondo che del calcolo carrieristico ed egoistico fa la base di ogni cosa. Benedetti è una delle poche persone che, nonostante il ruolo ufficiale di mediatrice culturale che svolge, ha deciso (non da oggi) di mettere in discussione se stessa insieme alla vera comunità dei “suoi” lettori, non all’interno dell’assurda, inconcludente Comunità Letteraria Delinquenziale. Secondo: Benedetti mostra come pochi altri un senso vivo della letteratura, ci indica cosa possiamo farcene dei libri e dei pensieri che vi sono scritti dentro, è “impegnata” a mettere in evidenza il valore comunitario dello scrivere e del leggere. Non a caso la sua critica si interseca pericolosamente – saremmo tentati di dire “pasolinianamente” – con l’analisi impietosa del mondo dal quale pure è prodotta, prendendo rischi e colpi bassi senza risparmio. Questo è puro coraggio, che va riconosciuto come un valore e – detto senza alcuna piaggeria – rende perciò sempre stimabile il suo lavoro.
Tenendo dunque presenti questi presupposti, ci siamo dati la seguente risposta al quesito iniziale circa l’elusività delle risposte alle domande impellenti dei lettori: secondo noi Benedetti svicola e aggredisce perché l’obiettivo (del suo discorso) non è (ancora) stabilire chi sono gli scrittori e quali sono i modi poetici di espressione che vanno incoraggiati. Benedetti è ancora al di qua di un tale ragionamento, perché forse punta prima di tutto a definire in che maniera e se si può parlare (ancora) di una comunità letteraria o intellettuale nel mondo attuale. Naturalmente, leggendo la sua ultima missiva, verrebbe di pensare immediatamente che una comunità del genere di quella immaginata da Nazione Indiana è ben lontana dall’avverarsi. Se, infatti, la falsa comunità dei pedanti che governano le diverse discipline è chiaramente improponibile, questa qui in cui siamo, in cui molti di quelli che scrivono lo fanno innanzitutto per lasciare una traccia più o meno narcisistica di loro stessi, non è certo la “vera” comunità che tutti auspicano. Ecco l’atroce dilemma che, a nostro avviso, non consente (ancora) a Benedetti di affrontare le pur serissime questioni che noi e altri avevamo posto.
Se prima, infatti, non si scioglie questo nodo delle modalità della partecipazione, diciamo così, questo nodo tutto politico, a che serve – giustamente – perfino discutere di letteratura, di cinema o di qualsiasi altra cosa? Se, come qualcuno ha scritto qualche tempo fa, ci hanno rubato l’anima, come è possibile anche solo immaginare di impegnarsi in imprese tanto ardite e gagliarde come l’edificazione di una comunità letteraria e intellettuale, che dal possesso di certe facoltà profonde non può prescindere? A pensarci bene, quando abbiamo dato vita alla nostra rivista, partivamo anche noi da presupposti del genere: volevamo una comunità, non ci bastava essere o desiderare di essere scrittori, artisti, etc. Anzi, a voler dirla tutta, le stesse definizioni di “scrittore”, “artista”, etc. ci sembravano, e ci sembrano, assolutamente inadeguate. E poi, non è mai bastato a nessuno scrittore, in nessuna epoca, scrivere e basta, dipingere e basta, musicare e basta – se poi non esisteva un pubblico almeno immaginabile per le proprie opere. Un pubblico almeno immaginabile, cioè una comunità: perché senza comunità l’atto creativo è generato dal nulla e cade nel vuoto, nel narcisismo.
Noi – oltre tre anni fa – eravamo sperduti, isolati, in paesi lontani, ognuno con la sua bella poetica, i suoi manufatti aggraziati, i suoi scartafacci. Ma sentivamo una mancanza. Non ci fregava niente dei critici che scrivevano sui giornali i loro canoni per fare i loro loschi affari, volevamo mettere insieme degli scrittori e degli artisti con la nostra stessa esigenza/urgenza di comunità, non ci fregava assolutamente nulla degli editori e di pubblicare libri. Il progetto degli “zibaldoni” poteva essere il giusto punto di partenza: era un’idea aggregante, malleabile, versatile, che ci consentiva innanzitutto di girovagare in tutte le direzioni possibili per edificare quella cosa che ci mancava e che ci aveva spinto ad agire: la comunità. Inoltre era, questa nostra, un’idea “militante” fino in fondo: cosa c’è, infatti, di più naturale e antimercantile di un prodotto che non è un prodotto, di un libro che non è (ancora) un libro, quale appunto è uno zibaldone? Abbiamo capito che in questo modo potevamo aprirci tutte le strade verso la ricerca artistica, che è la cosa che maggiormente ci preme e ci spinge ad agire: ripetiamo, in un mondo nel quale conta solamente il prodotto finito e vendibile, non il prodotto in divenire, scabro, incompiuto.
Se dovessimo fare una considerazione a partire da quel poco che abbiamo fin qui costruito, forse diremmo che porre le basi all’interno di forme ben definite, come ad esempio una rivista, è un possibile punto di avvio – ferma restando la chiarissima coscienza del furto delle anime che abbiamo già subito e delle quali dobbiamo prima riappropriarci se vogliamo almeno cominciare a parlare. Ci tocca scontare questo gran castigo, che è la fatica del recupero di un’anima, attraverso azioni dure, scontri e polemiche, incomprensioni e disfacimenti. Dobbiamo farci capaci che qui è come essere sopravvissuti a una catastrofe, dopo la quale ci siamo ritrovati tutti muti: dobbiamo ritrovare un modo per parlare insieme, per capirci, dopo essere partiti alla ricerca della luce del “discorso comune”, per dirla con Eraclito. In un secondo momento verrà la discussione sullo scrittore e sulla sua poetica, anzi, come fa intuire Benedetti, questo è davvero l’ultimo cruccio.
Però, se nel corso di questa ricerca un qualche scrittore con la sua bella e rispettabilissima poetica non avrà mai offerto contributi al “discorso comune” suddetto, evitando di confrontarsi sulle possibilità dell'”armonia discorde”, volete dirci perché mai dovremmo leggerlo, oggi che tutti sanno scrivere un romanzo, una sceneggiatura e un sonetto, oggi che tutti sanno “far finta” con la penna in mano? Noi siamo convintissimi che se nelle opere (testi e azioni) odierne non vibra l’ardore della ricerca di una comunità, della ricerca del punto di intonazione comune, è bene non prenderle nemmeno in considerazione. Senza troppi patemi. Perché abbiamo bisogno di strade chiare da seguire per raggiungere il nostro obiettivo, e non dobbiamo ammettere distrazioni o indulgere a chicchessia. Chi scrive cazzate deve essere stigmatizzato; chi allestisce letteratura per fare spettacoli, per divertimento, per fare audience, deve essere messo da parte; chi scrive senza avere negli occhi e nel cuore la luce della comunità a venire, che parli pure da solo, tra lo squallore dei convitati di cera dei talk show.
Non bisogna aver paura nemmeno delle deviazioni che vengon fuori qui dentro, in Nazione Indiana. Si paga un prezzo per costruire qualsiasi cosa. Per quello che vogliamo costruire noi tutti qui dentro e anche fuori, si paga sulla propria pelle un prezzo durissimo, atroce. Benedetti ne sa qualcosa, come ne sappiamo qualcosa noi che facciamo “Zibaldoni e altre meraviglie”, e molti altri. Ma il prezzo pagato vale l’acquisto, ne siamo certi. Far cadere le proprie parole non nel vuoto, ma nel pieno di una comunità che ascolta e che cerca la verità, è un grande risultato, grandissimo. Non bisogna scoraggiarsi, né seminare rancori, né coltivare dispiaceri – e nemmeno allibirsi troppo spesso. Cosa credevamo, che bastasse metter su un paio di siti internet per riavere belle e pronte, integre, le nostre anime che ci hanno rubato, ovvero l’anima oltraggiata della comunità inesistente? Che ingenui! Bisogna sudare ancora, invece, sforzarsi, argomentare, perder tempo, scriversi, non comprendersi, poi cominciare a comprendersi, fino alla fine. L’unica cosa che conta, non ci stancheremo mai di ripeterlo, è aver presente e vivo come un fuoco inestinguibile il punto luminosissimo comune verso cui tendere incessantemente. Il punto verso cui concorrono le voci discordi, e in cui finalmente si ricompone l’unità dei molteplici.
Cordialmente vostri, anche in agosto,
Enrico De Vivo e Gianluca Virgilio
(www.zibaldoni.it)
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E’ sintomatico che il dibattito più acceso in “Nazione indiana” negli ultimi tempi si sia snodato intorno ad un articolo di Raul Montanari attinto in “Glamour”. Un pezzo leggero, molto leggero, ha attratto una discussione pesante, molto pesante. Cinque amici che parlano di donne come stessero al bar (mentre sono in un raffinato quanto asettico salotto milanese) hanno la capacità di scatenare una reazione che fa dimenticare l’effetto scatenante, il quale rimane in realtà ben poca cosa. Se una farfalla vola a Tokio scatena degli effetti che raggiungono me (Gadda). E così il punto di approdo di questa discussione consiste proprio in un ribaltamento della posizione iniziale: la fondazione di una autentica comunità. Montanari è – ripeto – la goccia che fa traboccare il vaso, l’ignaro iniziatore di un processo, dal quale presto esce di scena, per ricomparire come una scialba comparsa in un intervento di risposta che dice ben poco: “Tengo famiglia”, e altre cose del genere.
Ma egli ci ha consentito di dire qualcosa di molto importante: per dirla col vecchio Montale, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Non siamo dei quarantenni figli di papà attratti dal miraggio del successo, che porta con sé il denaro facile e la donna facile, immaginata non solo come disponibile al nostro piacere, ma sulla quale anche è possibile articolare un discorso che ne annulli la persona e ogni parvenza di affetto; la donna secondo l’iconografia più deteriore, che la rappresenta come un insieme di buchi da tappare, di superfici lucide su cui riflettere il proprio inguaribile narcisismo, la propria immagine sbiadita e incapace di vedere l’altro. Cinque giovani che fanno tutto questo, cioè che si posizionano in questo modo, in un appartamento milanese amorfo e privo d’ogni appartenenza, che dicono cose di questo genere, sono già una comunità, e che comunità! Ebbene, le voci che si sono levate subito, hanno detto chiaro e tondo, sia pure con toni e sfumature diverse e con qualche rara eccezione di consenso, questo: “Noi non siamo questa comunità, noi non vogliamo una simile comunità”. Grazie, dunque, a Montanari, che ci ha dato la possibilità di sapere queste cose, sia pure in negativo.
Ora, gli interventi che si sono succeduti a me paiono importanti perché, tolti al loro isolamento, che è l’isolamento nel quale ciascuno di noi opera, restituiscono l’immagine di una vera comunità pensante, che si ribella allo stereotipo e propone temi e strategie, proposte operative che tentano un diverso cammino, immaginano altri luoghi di colloquio, uomini animati da ben altro spirito che non sia la superficialità, l’amoralità dei giovanotti ritratti da Montanari. Non so se i redattori di “Zibaldoni e altre meraviglie” sono pienamente coscienti di tutto questo, ma sembrerebbe di sì, dal momento che il loro intervento ha chiuso con la caterva di critiche (anche aspre, anche offensive nei confronti di alcuni redattori di “Nazione indiana”), facendo il punto della situazione e spiegando che forse, a questo punto, il discorso va indirizzato verso la realizzazione della comunità inesistente, la quale, sia pure in forma latente, a mio avviso, già esiste. Certamente ha fatto bene Benedetti a, per così dire, voltare pagina, ad inaugurarne una nuova, in modo tale da superare, come lei stessa dice, il tono conflittuale che, a un certo punto, sembra[va] aver preso il sopravvento. Ora gli interventi dovrebbero essere mirati non tanto più alla polemica ad personam, più o meno giustificata, quanto alla costruzione della comunità inesistente. Bisognerebbe evitare che queste voci (quelle che si sono levate contra Montanari) alla ricerca della vera comunità rimangano voces clamantes in deserto, fare in modo che si incontrino, si armonizzino, divengano concerto. La comunità non è qualcosa che si costruisce una volta per sempre, ma ha bisogno di continue conferme. Essa si regge su un perenne colloquio, sullo scambio inesauribile di idee, di progetti, richiede un mutuo raccontarsi storie, nel quale vive non solo il piacere di chi racconta, ma anche lo sguardo attento e le reazioni emotive di chi ascolta. Se tutto tace, se nessuno più mi rivolge la parola, se io stesso non ho più un interlocutore, allora vuol dire che la comunità è morta. Ma così è morto anche l’individuo, il cui corpo non dice più nulla agli altri corpi nei quali dovrebbe essere in posizione di contiguità, cioè di comunicazione affettiva. Qualcun altro mi dirà come mi devo muovere, come mi devo vestire, come devo parlare, che cosa devo dire, che cosa devo scrivere. Qualcun altro mi pagherà se sarò obbediente, se non avrò un’idea personale, se sarò uguale agli altri. Chi sia questo altro, è presto detto: colui che ha potere su di me, che può darmi dei soldi per prezzolare il mio comportamento, la mia scrittura. Diventerò lo scrittore prezzolato al pari degli altri scrittori prezzolati, ma con loro non costruirò mai una comunità perché sarò il loro concorrente, il loro nemico (se ci fosse stata una donna nel clan descritto da Montanari, i cinque maschietti di sarebbero sbranati a vicenda). La mia comunità sarà quella che qualcun altro avrà per me preparato, la comunità dei servi prezzolati viventi nell’allevamento del potente che mi pagherà per consumare e per produrre. Io produrrò storie per gli altri che produrranno per me beni di prima necessità, cibo, vestiti, scarpe, eccetera.
Penso che la vera genuina comunità abbia in sorte di vivere sempre una vita parallela rispetto alla comunità fittizia costruita per sé dal potente. La vera comunità costruita sul fondamento dell’amicizia e dei rapporti d’affetto avrà vita lunga lontano dal potere, dove le diverse solitudini si incontrano e comunicano e si dicono il loro disorientamento e la loro frustrazione. Ma guai se il potente solo le volga lo sguardo! Esso all’istante la riduce in polvere, l’annienta e la fagocita, facendo piazza pulita in un baleno dei discorsi affettuosi, degli scambi sinceri, come anche della critica più severa e spietata. Lo sguardo del potente ti perde. Per questo motivo a me sembra piuttosto ingenua, nel senso italiano (cioè dettata da poca esperienza) e latino (propria di uomini che presumono di essere liberi) del termine, la proposta dei curatori di “Zibaldoni e altre meraviglie”. Io sono molto scettico che bastino i loro toni da santoni indiani, la loro gestualità sottintensa volta a ricondurre all’unità il molteplice, per dar vita a una vera comunità. Il potere è troppo forte per piagarsi a questi richiami. E tuttavia il loro tentativo è encomiabile e addita una strada da seguire. Il mio scetticismi nasce dalla considerazione che oggi anche la critica più feroce del potere e dei meccanismi letterari ad esso connessi (così bene messi in luce da Benedetti) funziona come un ricostituente per il potere medesimo, che di essa si avvale per ripristinare a un livello superiore i propri meccanismi di dominio.
Questo Moloch può essere abbattuto? Penso che non possa esserlo, perché la vita dell’umanità è regolata e diretta da questa potente divinità. Ma è possibile, pur sottostando a questo Moloch, non perdere di vista il senso più intimo della nostra vita, che rimane sempre negli affetti che legano il grande corpo dell’umanità. Se il potere è irriducibile alle ragioni dell’umanità, che almeno l’umanità sia irriducibile alle ragioni del potere. Forse questa è l’unica via d’uscita, l’unica ancora di salvezza che ci sia rimasta. Se il potente di turno mi paga per scrivere, io ne prenderò i soldi, giocando d’astuzia, ma continuerò a fare il mio lavoro per la comunità che ho immaginato, non per il potente che mi paga. Rischierò, rischierò di essere tagliato fuori, di non essere più iscritto nel libro paga del potente, rischierò di rimanere vittima della mia astuzia. Ma se la comunità, o la semplice immaginazione di essa, grazie al mio intervento sarà sopravvissuta e si sarà rigenerata, io avrò assolto il mio compito, sarà stato degno dell’umanità e non mi sarò venduto. Io la penso così; e voi?
Gustavo P.