Nantonaku

di Fabio Viola

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Scrive il critico Kato Shuichi della letteratura contemporanea giapponese: “Un fenomeno singolare degli anni Ottanta fu senza dubbio l’emergere di un nuovo tipo di romanzo best-seller, come Nantonaku kurisutaru (Quasi simile a cristallo, 1980) di Tanaka Yasuo, Noruwei no mori (La foresta norvegese, 1987, noto in Italia come Tokyo blues) di Murakami Haruki, Kicchin e Shirakawa yofune (Kitchen, 1987, e Sonno profondo, 1989) di Yoshimoto Banana. Questi libri acquistati da milioni di persone hanno dei tratti comuni. Diversi dai personaggi dei precedenti romanzi popolari, i protagonisti sono tutti giovani, non hanno legami familiari né preoccupazioni economiche, si muovono in uno spazio astratto, quasi artificiale, senza sentimentalismi, senza restare coinvolti con il destino di altri (questo corsivo è mio). Uomini e donne egocentrici, spesso intelligenti, spesso emotivi, e quasi sempre melanconici, che vivono una vita senza scopo. Si appassionano alle novità, alle cose che vanno di moda: vestiti, musica, vitto, località, e infine il rapporto tra uomo e donna; non fanno che andare a far spese, telefonare, incontrare gli amici, e andare a letto assieme. Né passione d’amore, né odio, né una forte personalità. I personaggi fanno questo, fanno quello, a casaccio, ‘nantonaku’, senza sapere perché, come l’ha definito Tanaka Yasuo. Sono ‘nantonaku storie’. […] Sembra proprio che, dovunque, la società consumistica porti le masse a ciò che una volta Carlos Fuentes chiamò ‘un torpore spirituale mascherato da beatitudine’”.

Il processo cui fa riferimento Kato è attribuito a personaggi di libri usciti negli anni Ottanta, e al di là del leggero stupore provato nel leggere un esplicito attacco alla società consumistica su un libro di testo di storia della letteratura giapponese, lo sguardo è bloccato su anni in cui, malgrado tutto e malgrado Kato, la letteratura nipponica fermentava e dava segni di vitalità. Con il tempo e il lavorio incessante della disumanizzazione liberista l’intuizione di Kato sboccia, ciò che era in nuce si fa evidenza palese. Ben oltre, in realtà, le meno rosee aspettative.
Negli anni Sessanta lo scrittore Abe Kobo, comunista fino all’espulsione dal partito nel 1961 per divergenze di vedute, pubblicò un romanzo intitolato L’uomo scatola (da noi uscito per Einaudi). Un uomo fabbrica una scatola in cui vivere e “se l’appoggia” sopra a mo’ di cabinotto. Pratica dei fori per vedere, dota l’interno di accessori e nega se stesso al mondo, diventa come invisibile. Osserva, si muove, riduce le interazioni al minimo indispensabile. Si unisce a un mondo di uomini scatola che piano piano scopre, persone che non riescono più a vivere in comunità, per le quali esistere nella scatola è non preferibile ma uguale a viverne fuori. In Abe l’alienazione dell’individuo postmoderno è resa provocazione e paradosso; la negazione dell’integrazione è segnalata e sottolineata, diviene insomma una metafora politica, forte e chiara.
Con gli anni, come faceva notare Kato, l’impulso critico e partecipativo (= cosciente e libero) verso la cosa comune si è affievolito, si è smussato, si è trasfigurato e nebulizzato. E alla fine è scomparso. L’impegno politico ha ceduto il passo all’individualismo più caricaturale, all’assenza di volontà e desideri, alla miopia globale.

Il percorso di involuzione compiuto nell’immediata contemporaneità non tanto dalla letteratura quanto forse dallo spirito del paese intero, dal Giappone come realtà complessa, è tutto sbriciolato negli ultimi libri tradotti e proposti in Italia dai nostri solerti editori. Un paese che non è stato in grado di gestire (nel privato più colpevolmente che nel pubblico) l’immenso benessere che ha conosciuto; che ha assistito al suo inesorabile e pauroso – per la sua ineluttabilità – smottamento economico; che adesso è paralizzato di fronte all’incertezza per il futuro, un’instabilità “tettonica” (anche fuor di metafora) contrapposta all’irruenza passata della propria crescita. Tutto ciò si è riflesso ampiamente negli scrittori.
La distanza dalla vita dei nuovi autori nipponici che Kato ha evidenziato ha avuto negli anni seguenti un’inevoluzione, un incancrenimento. Se in Murakami Haruki e Yoshimoto Banana, due tra gli “altri autori” di cui hanno rappresentato il riscontro internazionale se non altro in visibilità, l’urgenza individualistica si è manifestata in uno straniamento dalle dinamiche “di sostentamento” delle persone comuni, ciò è poi degenerato nello scollamento definitivo dello scrittore (di successo, e ciò è maggiormente inquietante) dalla vita stessa, così come la intendono le persone che quantomeno lavorano e sono coscienti di stare vivendo.
Anche il sesso, in questa landa brulla ma colorata che sembra essere l’animo giapponese contemporaneo, è diventato l’opposto di ciò che, forse qualunquisticamente o per impervi gap culturali, è o è stato il sesso dei giapponesi agli occhi degli occidentali: un’ossessione morbosissima. Anche in questo si è invertita la tendenza.

C’è questo Platonic sex di Iijima Ai (Rizzoli), che come opera letteraria, peraltro, vale poco o nulla. La prosa è sciatta e qualunque, le descrizioni umano-ambientali che l’autrice fa (ex “accompagnatrice” nei locali di Roppongi, un quartiere dei divertimenti a Tokyo, ex regina dell’hardcore, ora popolarissimo personaggio televisivo) sono vaghe e stereotipate, le situazioni banali (forse proprio perché sciattamente vere, non filtrate da un’autorialità cosciente). Ciò che più colpisce, e per cui vale la pena citarla, oltre al clamoroso successo che ha avuto in patria e fuori, è che, a dispetto del packaging, dei contenuti generali e delle intenzioni sicuramente scandaloseggianti, Iijima Ai ha scritto un libro non morale ma moralista, in cui le azioni della protagonista sono soggette a una valutazione di ordine etico e personale, a posteriori, da parte della protagonista stessa. In più occasioni, ripercorrendo le varie fasi della sua vita, Iijima le scansiona con gli occhi di una ragazza che è cosciente di stare percorrendo una sorta di (dis)educazione sessual-sentimentale, una corsa cieca e involuta di autodistruzione morale che, proprio in quanto non fondata né supportata da uno straccio di motivazione ideologica (non è una punk, non è anti-borghese, non è certo un’oltranzista filo-borghese, non è nemmeno niente, è solo un’iperconsumista gratuitamente ribelle, il cui tenore di ribellione è non proporzionale ma esponenziale rispetto alle vaghe “colpe” dei genitori cui fa riferimento, a loro volta in qualche modo vittime [ma colpevoli di pochezza come la figlia] di un esterno aggressivo e alienante), e si rivela essere nient’altro che soggiogamento a logiche di tipo esteriore (estetico in senso deteriore) e monetario. Iijima difatti non riesce, proprio perché non può farlo, non ne ha gli strumenti né i presupposti, a dipingere delle circostanze esterne a sé sufficienti a giustificare le sue “scelte”. Oscilla tra un desiderio (meglio: impulso) consumistico primordiale (per lei comprare e possedere equivale a mangiare o respirare), e un impulso moralistico retroattivo quasi inconsulto che la fa essere cosciente di essere vuota. Solo che, ed è il vero dramma del libro, anche il suo accorgersi di se stessa come oggetto tra gli oggetti non è né codificato né articolato, per cui il moralismo di cui sopra ha l’effetto di un riflesso condizionato, come se Iijima dicesse di sé ciò che una morale generica dovrebbe dire di chi si comporta come lei. Il sesso poi nel libro è una componente marginalissima. Non è altro che un modo di fare soldi (e narrativamente tutt’altro che sovraesposto o esibito, nemmeno come riscatto esistenziale del povero di spirito), e ha una connotazione sempre sublimata, davvero mai morbosa, forse proprio per questo ancora più agghiacciante.
Stesso discorso per Father fucker di Shungiku Uchida (Marsilio). Il libro, come quello di Iijima Ai, vuole essere un racconto scandaloso delle vicende di vita dell’autrice/protagonista, qui però rielaborate e narrativizzate in misura più consistente, con apporti non necessariamente autobiografici. Il romanzo dipinge un vissuto infantile e adolescenziale di una ragazza che è del tutto priva (come il libro del resto) di partecipazione emotiva. Ogni abuso e violenza subiti dal padre prima e dal patrigno poi sono cubetti di ghiaccio sulla neve. La ragazza subisce reiterati attacchi gratuiti alla sua persona dalla sua stessa famiglia e dall’incuranza del suo milieu (basso), stupri paterni (poco o mai descritti, continuamente citati, diabolicamente rievocati a ogni passo); non è accettata non in quanto persona sgradevole o sgradita, ma in quanto essere umano che esiste lì, in quel momento. Ciò, invece di suscitare in lei qualsiasi cosa, un desiderio di riscatto profondo o affermazione di sé anche blanda, suscita solo niente, accettazione totalmente passiva di tutto e, anche qui, una ripetizione pappagallesca di morali estemporanee e comunitarie, da chiacchiera al mercato. Ciò che le capita, in definitiva, è senza un motivo, senza uno scopo ed è privo di conseguenze profonde. Le sue azioni sono irrilevanti e irrilevate. Ciò che la distingue dalla ragazza del libro di Iijima Ai è l’ambizione da velina estrema di quest’ultima e la totale assenza di desideri dell’altra, che non può desiderare nulla perché non sa di esistere, o meglio non è cosciente che esistere comporti un riconoscimento da parte dei propri referenti umani.
(Nel fumetto poi, ma proprio per inciso ché anche qui il discorso sarebbe lungo, arte indiscussa in Giappone, pure c’è stato un movimento analogo. Che abisso di intenti e spirito esiste tra l’incanto proletario e gioioso di Maison Ikkoku di Takahashi Rumiko e Paradise kiss o il Gokinjo monogatari di Yazawa Ai? Che scarto di incoscienza? Com’è che anche la più semplice storia sentimentale serializzata, tipica di certo manga, diventa una gara di consumismo e apparenza nevrotizzata? Perché e come fantasia e incanto si trasformano in moda e superficie?)
Quindi in conclusione, dov’è (andato) il Giappone? Dove sono le ossessioni carnali ma soprattutto esistenziali di Mishima, Tanizaki o Kawabata? Ma anche solo l’estatico isolazionismo di Yoshimoto Banana e il realismo magico ante litteram di Murakami Haruki (tanto sminuiti da Kato Shuichi)? E pure, nella letteratura di qualche anno fa, l’annullamento cosciente del sé di Hiruma Hisao (il bellissimo e toccante Yes, yes, yes, Marsilio)? O l’esotismo post-femminista di Yamada Eimi (Bad mama jama o Occhi nella notte, Marsilio, meno belli ma almeno antropici, coscienti, sensoriali), in cui il desiderio sessuale, l’esuberanza della donna letteralmente si impalavano sull’altare dell’altro-da-sé (in questo caso l’uomo afroamericano: il corpo primordiale). Perché il Giappone oggi non riesce a creare una coscienza di sé, individuale prima che nazionale, che giustifichi l’assurda distanza delle persone dalla vita (vita oggi e solo oggi, a dispetto dei detrattori del paese, veramente alienata)? Perché tutto ciò che resta è il vuoto gadgettizzato di chi o non cerca nulla o si bombarda di oggettuncoli, sms, griffes, macchine e sesso a un livello tale e così compulsivo da non accorgersi neanche di stare chiedendo aiuto? O di averne un disperato bisogno?

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2 Commenti

  1. Ho letto il libro di Iijima Ai ma devo averlo fatto senza alcuna coscienza. Figurati che l’avevo trovato addirittura interessante, ma non per la speculazione che ci fai tu. Mi sembrava una testimonianza tutto sommato viva. Vivace insomma. Mi costringi a rileggerlo. Il libro di Hiruma è piaciuto molto anche a me. Vedersi scomparire in uno specchio…

  2. Della Takahashi c’è moltissimo pubblicato in Italia grazie a Star Comics. Probabilmente Maison Ikkoku è la serie migliore. L’incanto proletario è vero, c’è, e se penso alla Yazawa mi vengono i brividi. E’ come fare un confronto tra Torino (la mia città) e Milano. Le persone così come ero abituato a definirle io sono solo nella prima. A Milano c’è l’aperitivo e le boutique.

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