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I morti dimenticati [3]

di Marco Aliprandini

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Una volta Franz li aveva anche visti in faccia i partigiani. Tre uomini e due donne che erano stati arrestati e condotti nella caserma di Feltre. Tre uomini e due donne che a lui erano sembrati normali. Gli erano sembrati uguali agli uomini e alle donne di Algund, del suo paese. Nei pochi istanti in cui Franz gli era stato di fronte non aveva visto nei loro gesti, nei loro sguardi la crudeltà, la ferocia che si sarebbe aspettato. A dire il vero in quel momento qualcosa di molto simile al dubbio gli aveva attraversato i pensieri, ma lui a quel dubbio non aveva voluto dare peso. Forse i suoi occhi erano ancora troppo ingenui per la guerra, aveva pensato, o forse la vera ferocia di quei cinque era proprio quella di essere celata sotto un aria semplice, dignitosa, un’aria così simile a quella di molti contadini che Franz aveva visto fin da bambino.

Il mese di ottobre era trascorso quasi tutto di un fiato. Nella caserma di Feltre c’erano stati momenti di tensione solo all’arrivo dei cinque partigiani e il giorno in cui era rientrata una pattuglia con tre camerati gravemente feriti in un imboscata. Uno di loro, Thomas Gerstgrasser, originario di Burgeis-Burgusio, era morto alcune ore dopo, sputando sangue da tutte le parti. Franz non aveva mai visto morire nessuno in quel modo. Un odore di carne bruciata gli aveva inondato le narici quando era entrato nell’infermeria e in quel momento non c’era stato spazio, dentro di lui, per nessun altro sentimento se non un misto di paura e di odio. Anche nei mesi successivi, quando iniziarono ad arrivare molti altri feriti, Franz si accorse che il suo odio lentamente era diventato una pianta rampicante, un’edera enorme che alle volte lo lasciava quasi senza respiro. Si accorse con sorpresa quanto odio lui riuscisse a contenere senza venirne sommerso.

Il 20 dicembre 1944 Lisl guardava la stradina, leggermente innevata, dalla grande finestra che dava sul cortile del maso. Sapeva che proprio su quella stradina presto avrebbe rivisto Franz, a cui era stata concessa una breve licenza per il Natale. Erano passati mesi dalla sua partenza e una volta che Franz fu di fronte alla madre, lei li vide tutti, i mesi trascorsi, sul viso più adulto del figlio. I suoi occhi, gli occhi di Franz, avevano assunto una luce incolore di determinazione e concretezza. Erano diventati distanti da ciò che guardavano. Forse più attenti di prima, più fissi quasi più rigidi. Lisl, registrando queste sensazioni, non aveva avuto il coraggio di abbracciare suo figlio e nel loro dialetto ruvido si erano scambiati solo alcune parole. Poi, improvvisamente, si era aperto uno squarcio ed era stato proprio Franz a stringere a sé la madre. Per una attimo tutto era tornato alla vita lineare di prima e Lisl, per assaporare meglio quella sensazione, aveva chiuso gli occhi. Poi era arrivata Helga e anche lei, forse intimorita dalla divisa, aveva avuto un momento di esitazione nel saltare al collo del fratello.

Quel giorno Alois prima del pranzo aveva come al solito pregato con le mani giunte sul tavolo. Aveva sempre fatto così e negli ultimi tempi aveva pregato il suo Dio anche per i Kriegsopfer, per le vittime di quella guerra infinita. Franz, anche lui con le mani giunte, non aveva cambiato espressione, come se la preghiera di suo padre non lo riguardasse minimamente e non riguardasse nemmeno i suoi camerati. Non riguardasse Thomas Gerstgrasser, o Peter Windegger o Joseph Unterhlzner. Era un Dio più giovane, più forte quello che li aveva chiamati. Dopo pranzo Alois si era sdraiato sulla panca di legno della stube. Come sempre avrebbe riposato mezz’ora, ma quel giorno non riusciva a smettere di pensare a tutti i cambiamenti a cui si era dovuto adattare.

In Südtirol-Alto Adige si andava acutizzando una ferita profonda. I molti simpatizzanti del nazionalsocialismo guardavano con diffidenza chi in qualche modo cercava di tenersene fuori. Intere famiglie, nello stesso paese, erano quasi messe al bando. Alois, dal canto suo, sapeva di poter stare tranquillo. Aveva optato per la Germania nel 1939 e ora, suo malgrado, aveva anche una giovane divisa della Wehrmacht in casa. La sensazione che però non gli dava pace era che ormai da diversi mesi non riusciva più a sentire la voce dei suoi alberi. Una voce senza parole che lo aveva accompagnato da sempre.

Il Natale del 1944 fu un Natale diverso, un Natale ancora più silenzioso del solito. Lisl con l’aiuto di Helga si era sforzata a dare alla casa un’aria di festa. I loro sforzi però erano passati inosservati sia a Franz che a Alois. Per molti ad Algund quel Natale scivolò via senza lasciare la minima traccia. Il parroco durante la celebrazione della messa natalizia era sembrato impacciato. Aveva farfugliato qualcosa sulla nascita e la rinascita, sulla salvezza e la fede, der Glaube, ma era difficile anche per lui riconoscere la tessitura, il disegno delle continue, ripetute miserie che in molti erano costretti a subire.

Franz il 26 dicembre era tornato nella caserma di Feltre. Come l’altra volta aveva trovato la madre in cucina e l’aveva poi abbracciata proprio sulla porta del maso. Come l’altra volta lei gli aveva messo nello zaino un bel pezzo di Speck e dello Schüttelbrot, pane lasciato seccare che non teme il tempo e la muffa. Anche il padre e la sorella erano lì sulla porta e Franz, guardandoli, aveva avuto la sensazione sgradevole di non appartenere più a quella casa, a quelle persone. Lui ormai era diventato diverso. Quei mesi di guerra lo avevano allontanato da tutto ciò che era prima. E quella mattina Franz aveva avuto quasi la certezza di essersi spinto troppo in là per riuscire un giorno a tornare.

Il 26 dicembre 1944 fu l’ultima volta che Lisl vide suo figlio. Lei non lo poteva sapere, o forse lo aveva sentito già molto tempo prima nella gracilità infantile di quel bambino che ora era diventato un soldato. Di certo però era stato più che un presagio il sogno che Helga aveva fatto alcuni giorni prima della partenza del fratello. Helga aveva sognato di vedere Franz nel cortile del maso sotto una pioggia battente. Nel sogno il fratello aveva il viso immobile come quello di una statua e, nonostante le gocce di pioggia, non sbatteva le palpebre tenendo lo sguardo fisso sulla porta di casa. Lei aveva cercato di chiamarlo, ma non era riuscita a emettere suono. Le sue labbra erano rimaste incollate da un angoscia crescente che alla fine l’aveva fatta svegliare di soprassalto.

Due mesi dopo a Franz, insieme a un gruppo di suoi camerati, era stato dato l’ordine di recarsi a Vicenza. Non era stato un ordine diverso dagli altri. Spesso, infatti, il Polizeiregiment Schlanders era stato utilizzato in diverse missioni lungo le principali arterie stradali del Veneto. Quel 28 febbraio era quindi iniziato come tutti gli altri giorni. Franz seduto a fianco dell’autista del camion aveva anche scherzato. Insieme avevano riso di Georg Tappeiner che nei momenti di tensione sembrava confondere dialetto sudtirolese e Hochsprache, lingua standard tedesca, e in questo pasticcio linguistico dimenticava intere parti di ciò che voleva dire. I suoi discorsi diventavano quindi come dei rebus da interpretare, fatti di nomi, date, bestemmie e imprecazioni anche in italiano.

Verso le 14 e 30 il camion di Franz, il terzo dell’intero convoglio, era svoltato in una strada secondaria a una trentina di chilometri da Vicenza e d’improvviso era stato raggiunto da alcune raffiche di mitragliatrice provenienti dal lato destro della carreggiata. Tutti i soldati erano scesi a terra e dopo un breve conflitto a fuoco era tornata la calma. Non c’erano vittime sull’asfalto e nonostante la zona fosse stata perlustrata, subito dopo la sparatoria, non era stato avvistato nessun partigiano. Sembrava fosse stata un imboscata del tutto fallita. E in parte lo era stata veramente. Ma quando l’autista del terzo camion era rimontato in cabina aveva trovato Franz accasciato sul sedile, aggrappato a un rantolo di respiro. Un proiettile aveva trapassato la portiera e con un traiettoria assurda gli aveva perforato un polmone.

Solo alcuni giorni dopo, cioè agli inizi del marzo 1945, la famiglia di Franz era stata messa al corrente di quanto era accaduto. Alois, in principio, non ci aveva creduto. Tanto più che era stato un ragazzo in divisa del paese a raccontargli cosa era successo. Poi quella strana traiettoria del proiettile. Dal basso verso l’alto, o qualcosa di simile, come se il proiettile stesso fosse stato deviato per conficcarsi proprio nel torace di Franz. Così gli aveva riferito il ragazzo aggiungendo però che anche a lui era stato raccontato. Comunque, qualsiasi cosa fosse realmente successa, suo figlio era morto. Con il passare dei giorni questo dato di fatto, dapprima negato, si era cristallizzato in una consapevolezza scura e dolorosa. Alois che era riuscito ad accettare la grandine anche nel periodo del raccolto, che aveva, in qualche modo, imparato, lavorando la terra, ad aggirare e non ad affrontare di petto certe situazioni, adesso, pensando a quel proiettile, sentiva crescere dentro di sé solo rabbia.
Rabbia anche contro i suoi alberi che ora gli parevano del tutto indifferenti al suo dolore. Rabbia contro le pallottole, le loro traiettorie, contro chi aveva imbracciato quel fucile o quel mitragliatore o comunque contro chi aveva premuto il grilletto. Rabbia contro Dio, il Dio che lui aveva pregato ogni giorno, come aveva fatto suo padre e il padre di suo padre. Ad Alois non interessavano terre da liberare, imperi da difendere e nemmeno del suo Südtirol, della sua storia, gli importava più niente. Anzi pensando a queste cose avvertiva come un brivido vuoto percorrergli tutto il corpo. Un brivido che poi gli si conficcava negli occhi facendogli vedere tutto come una mostruosa inutilità. Suo figlio, infatti, nei suoi diciotto anni, aveva sempre camminato su un terreno traballante. Era nato in una terra occupata e incredibilmente era andato a morire in un esercito di occupazione.

I pensieri di Lisl non erano diversi da quelli di suo marito. Anche lei provava una rabbia quasi più intensa dello stesso dolore. Rabbia che non era diminuita nemmeno nei mesi seguenti. La guerra era finita, a Franz sarebbe bastato resistere solo ancora per poco. Avrebbe potuto sposarsi, avere dei figli, toccare gli alberi di mele che per più di cinquant’anni suo padre aveva toccato. E per questo sarebbero bastati solo un paio di mesi. Mesi in cui di nuovo tutto era cambiato per l’Alto Adige-Südtirol. Finito il Fascismo, finito il Nazismo si apriva per i sudtirolesi una nuova stagione che culminava il 5 settembre 1945 con l’Accordo De Gasperi-Gruber, per poi procedere con la grande manifestazione di Castel Firmiano-Sigmundskron, il 17 novembre 1957, con la sempre maggiore influenza della Südtiroler Volkspartei e con il Nuovo Statuto di Autonomia, entrato in vigore il 20 gennaio 1972.

La Storia andava comunque avanti, ma Alois, seppellito il figlio e alcuni anni dopo anche la moglie, di tanto in tanto usciva claudicando tra gli alberi intorno al suo maso, ora affidato al marito di Helga. Lì in mezzo alla terra che avrebbe dovuto lavorare suo figlio, sentiva dentro di sé le radici profonde dei ricordi, sentiva le ferite causate dal movimento improvviso dei loro rami.

Della morte di molti ragazzi sudtirolesi arruolati nell’esercito nazista non si parlava. Era il passato. Un passato arido da cui non era germogliato nessun presente. Erano morti inutili, scomodi che bisognava dimenticare. Ma Alois, che solo molto tempo dopo si era riconciliato con i suoi alberi, non poteva dimenticare nessuno di quei morti. Anzi in dei giorni si sforzava di ricordarne i nomi. I nomi dei giovani del paese che lui aveva conosciuto. Il nome di suo figlio Franz. E ripetendo tutti quei nomi gli sembrava di richiamarli al presente, uno a uno, di rispondere alle loro domande, di liberarli. Alois sapeva che sarebbe stato giusto parlarne. Sarebbe stato giusto risolvere, chiarire in modo che anche quelle morti, la morte di suo figlio, venissero in parte giustificate da un barlume di senso.

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3 fine

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9 Commenti

  1. Franz, occhio però, ‘sto discorso sui morti dimenticati ( o il sangue dei vinti) è sempre pericoloso. Sulla morte e la visione politica se ne era discusso recentemente sul topic per Baldoni, quindi non riprendo il tema. Qua ogni tanto ci sono fruscii di revisionismo che fanno venire la pelle d’oca. Täter e Opfer… sono due cose diverse, poi la sim-patia e la com-passione per il singolo è un altro discorso.

  2. Infatti, Vins. Lo sai benissimo come la penso. E siccome ho la coscienza strapulita non devo nemmeno spiegare la mia posizione. E’ la pietas quella che m’interessa, se così posso dire.
    Tschuss.

  3. Questo racconto è lo specchio di alcune realtà simili in conflitti attuali e recenti. Le vittime sono molte di più di quele dei “buoni”!
    Bello!

  4. Dass es Literatur viel besser vermag, Geschichte wiederzugeben und Vergangenes vor Augen zu führen, beweist Marco Aliprandinis Erzählung. Es gibt schon zu denken, dass es ein Schriftsteller italienischer Muttersprache ist, der sich hier einem in Südtirol immer noch allzugern verdrängten Thema nähert. Die Zeit ist reif, dass die ganze Wahrheit gesagt wird, auch über die Jahre 1943 bis 1945.

  5. Forse é meglio dimenticare o forse lasciare decantare la storia, soprattutto qui in Südtirol- Alto Adige, dove si vive sempre e solo del passato!

    C´é bisogno di PRESENTE tra queste montagne

  6. Morti dimenticati… E come facciamo a dimenticare tutti i morti, che sono la base del nostro presente? Parlo da Bolzanina che ha lasciato la sua Heimat per le difficoltà di una convivenza, che si basa, oggi, sui morti di ieri. E ogni volta che ci scordiamo di loro, facciamo fatica a capire il presente. Grazie di averceli ricordati.

  7. Hai proprio ragione Lorenza, si tratta solo di capire il presente e non vedo alcun pericolo (in questo caso) di revisionismi, tema trattato da Vins poco più sopra.
    Anche Daniel: Si tratta di un racconto, di una storia vera, di un dramma umano, come tanti altri è vero, ma la realtà Sudtirolese esiste, non puoi negarla. Bisogna solo capire.

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