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I morti dimenticati [1]

di Marco Aliprandini

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a J.P. che con pazienza mi ha raccontato la storia di un suo zio mai conosciuto

Alois, riguardando la sua vita con gli occhi lenti della vecchiaia, spesso pensava che tutto ciò che gli era successo, tutti gli avvenimenti piccoli o grandi che lo avevano attraversato, potevano essere visti come alberi, come gli alberi di mele a cui aveva lavorato fin da bambino. Ogni storia ha radici, diceva, tante radici, un tronco e rami sparpagliati qua e là come le radici. Radici aggrappate alla terra e rami allungati nell’aria alla ricerca di un appiglio. Anche i ricordi erano per lui come alberi e anche loro, i ricordi, avevano radici immobili e tanti rami che, nei giorni di vento, potevano perfino ferire.

Alois, fin da giovane, era stato un uomo di poche parole e nemmeno l’occupazione fascista, uno di quei rami che per lungo tempo lo avevano ferito, sembrava dapprima essere riuscita a scalfire il ritmo sempre uguale della sua vita. Un ritmo legato al maso della famiglia, l`Oberhebsacker-Hof, un po’ fuori da Algund, a pochi chilometri da Meran. Un ritmo legato ai meli che in inverno bisognava potare e che in primavera bisognava proteggere dalle ghiacciate improvvise. Alois sapeva che comunque d’estate avrebbe raccolto il suo lavoro. Come sempre. Come ogni anno, prima le Grafensteiner con la loro polpa gustosa, poi le Kanada e infine le Morgenduft mele dalla buccia forte e dal sapore dolciastro.

A 32 anni aveva sposato Lisl, una giovane di Antholz che però aveva passato gran parte della sua vita in città a Bozen, dove aveva lavorato presso una famiglia come domestica. Lisl aveva uno sguardo melanconico appesantito dalle privazioni patite da bambina. Uno sguardo che pareva perdersi nei piccoli dettagli: i dadini di pane di Speck appena tagliati per i Knödel, lo sciogliersi del burro fuso sul piatto fumante degli Schlutzkrapfen o il susseguirsi di bianchi e di rossi sulle piccole tende della stube. Lisl amava questo suo perdersi negli oggetti. Inconsciamente amava il loro linguaggio silenzioso e forse per questo, appena poteva, si sedeva sul legno della panca a leggere qualsiasi cosa gli capitasse tra le mani.

Negli anni `30 ad Algund quasi tutti erano occupati nell’agricoltura. Le donne curavano le faccende domestiche, preparavano, durante il periodo del raccolto, un mangiare sostanzioso per i mariti e i loro aiutanti e di solito si incontravano la domenica mattina prima della messa. Lì, nella Hauptplatz, la piazza centrale del paese, si veniva a sapere quasi tutto delle persone ed era proprio lì che si consolidavano amicizie e inimicizie, indifferenze ed esclusioni.

Lisl non era nata contadina, non era di Algund e, anche se aveva dato due figli ad Alois, non era mai stata del tutto accettata dalle altre donne. Le maternità comunque avevano riempito di nuova energia le giornate di Lisl, e soprattutto il primo figlio Franz, nato nel giugno del 1926, era riuscito in parte a liberarla dalla solitudine in cui sembrava dovesse consumarsi la sua vita.

Franz era nato con fatica. Due giorni di doglie e dolori che la levatrice aveva imputato al bacino stretto di Lisl. Un bacino che aveva poco a che vedere con quello largo e robusto di una contadina. Anche l’allattamento era stato difficile. I seni acerbi di una donna nata in città parevano non riuscire a nutrire a sufficienza il neonato che, anche da ragazzo era rimasto più gracile rispetto ai suoi coetanei. Forse era stata questa fragilità, che Lisl dapprima aveva vissuto come una colpa, a legarla ancora di più al primo figlio. Alle volte lo guardava di nascosto. Guardava Franz giocare nell’Hof, il cortile, e si scopriva a leggere un futuro di dolore in quel corpo secco che pareva allungarsi senza la forza di radici profonde.

Nell’ottobre del 1923 era intanto entrata in vigore la riforma Gentile, che con il suo articolo 17 intendeva cancellare progressivamente le scuole in lingua tedesca in tutto il territorio sudtirolese. La politica fascista aveva già iniziato a italianizzare i nomi di paesi e città, e il nome Südtirol era stato trasformato in Alto Adige. Nello stesso modo Meran era diventato Merano, Antholz Anterselva e Algund Lagundo e proprio a Lagundo, nel Plantascher-Hof, il maso poco distante da quello di Alois e di Lisl, si era stabilito il nuovo podestà. Un uomo di Reggio Emilia che per far carriera aveva accettato di trasferirsi con l’intera famiglia in quella “terra di barbari da italianizzare”.

Alois incontrava il podestà quasi ogni mattina mentre tornava dal campo al di là della strada. All’inizio ne aveva avuto paura. Tutti avevano avuto paura dei Walschen, gli italiani. Dei loro modi diversi, della loro lingua musicale, quasi cantata. Ma lui, Alois, guardando di sfuggita i baffetti fini di quel suo nuovo vicino, sapeva che per vivere a lungo tra i masi, in mezzo ai campi ci voleva un’ andatura diversa, meno saltellante e frettolosa.

La moglie del podestà si chiamava Valeria, una donna gentile che fin da principio era riuscita a superare la diffidenza di Lisl, una delle poche in paese ad averle risposto al saluto. Valeria aveva due figli maschi che certamente non sarebbero diventati contadini. Franz, che aveva circa la stessa età di Saverio, il figlio minore del podestà, invece avrebbe lavorato nei campi come suo padre e i suoi nonni. Avrebbe cercato anche lui di capire il tempo giusto della potatura, dell’irrorazione e del raccolto. Questa certezza però non gli impediva di correre a testa bassa tra gli alberi e le case con il suo giovane amico. Tra loro non c’erano parole, Franz, infatti, non conosceva l’italiano se non quel poco che era stato costretto a imparare a scuola, dove ormai da alcuni anni il tedesco era stato completamente bandito. I due ragazzi, nonostante l’odio che una occupazione porta con sé, correvano dietro agli animali, correvano e si nascondevano tra le cataste di legno per l’inverno, nella stalla e nei cortili dei masi vicini. Le prime parole italiane che Franz aveva veramente sentite come sue erano state “tutti matti”. Una specie di grido di battaglia che con Saverio avevano urlato per un intera estate arrivando ansimanti al piccolo stagno. “Tutti matti” era un’esclamazione, una serie di suoni che non avevano niente a che fare con l’italiano o il tedesco, con la scuola o con il Fascismo. “Tutti matti” era un grimaldello che apriva un mondo di giochi e di amicizia. Certe sere d’estate, quando l´aria rimaneva chiara più a lungo, Lisl e Valeria si ritrovavano insieme a cercare i loro bambini per le strade di Lagundo-Algund. E questo ritrovarsi nella stessa leggera preoccupazione le aveva in qualche modo unite. I primi saluti un po’ stentati si erano così lentamente aperti in timidi sorrisi, in alcune veloci parole, nonostante l’italiano traballante di Lisl.

In quegli anni nei vari paesi del Alto Adige-Südtirol si era organizzata una vera e propria resistenza alla politica fascista. Erano nate le Katakombenschulen, una fitta rete di scuole in lingua tedesca che, richiamando nel nome le persecuzioni dei primi cristiani, cercavano di opporsi almeno alla perdita dell’identità linguistica. C’erano state anche molte tensioni tra le squadre fasciste e alcuni sudtirolesi. Tensioni che avevano portato all’ omicidio del maestro Joseph Innerhofer di Marlengo-Marling, avvenuto a Bolzano-Bozen. L’idea alla base dell’ideologia fascista era quella di snaturalizzare un intero territorio con le intimidazioni, il confino, la prigionia e con una massiccia immigrazione italiana che si radicò soprattutto nei centri più grossi: Bolzano, Merano, Bressanone e nei valichi di frontiera.

Il Fascismo era per Alois il vento cattivo, era la grandine e le gelate improvvise. Era il Male, das Böse, che però, in qualche modo avrebbe lasciato di nuovo spazio al raccolto, alle giornate tiepide di fine agosto dove si inizia a vedere il colore vivo delle mele sugli alberi. Al Fascismo bisognava resistere come a una malattia. Bisognava riuscire ad assecondarlo nello stesso modo in cui gli alberi perdono in inverno le foglie per poi farle rispuntare più vive di prima in primavera. Alois aveva imparato a osservare i cambiamenti, anche quelli più dolorosi, attraverso uno sguardo stagionale e sapeva che nel mezzo di una grandinata era inutile correre nei campi in preda alla disperazione. Sapeva che l’unica risposta possibile era quella di riprendere la mattina seguente il lavoro e proprio questo lui cercava di fare. A tavola nella preghiera prima del pranzo, quando tutta la famiglia era riunita, lui, ogni giorno, affidava la sua Heimat, la sua patria, al cuore di Gesù, Herz Jesu, nello stesso modo in cui i sudtirolesi lo avevano affidato contro l’esercito invasore di Napoleone. Nella stube, vicino alla stufa di maiolica, aveva lasciato appeso il ritratto di Andreas Hofer, con tutto ciò che per ogni sudtirolese quel ritratto significava. Ma allo stesso tempo quando incontrava il podestà lo vedeva come un semplice uomo, neanche tanto diverso, se non per quell’andatura arrogante e boriosa. Non gli era nemmeno mai venuto in mente di proibire al suo Franz di frequentare Saverio, anche se un po’ lo disturbavano quelle improvvise esclamazioni in italiano che, di tanto in tanto, sentiva nella bocca del figlio.

Con lo scoppio della guerra nel 1939 a Lagundo-Algund le tensioni erano diventate più forti. Il terzo Reich, a cui molti sudtirolesi avevano guardato con speranza, si era stretto in un patto d’acciaio con Mussolini e l’idea della riunificazione delle terre tedesche, quindi anche del Tirolo, si era dissolta come neve primaverile. Ai sudtirolesi anzi veniva proposta l’eventualità di espatriare, di optare per il Reich, abbandonando la propria terra o, nel caso in cui fossero rimasti, di accettare l’inaccettabile. Di sottostare a una lenta e progressiva scarnificazione della propria identità. Più dell’80% dei sudtirolesi optarono per l’espatrio, ma pochi espatriarono realmente. Anche Alois, come quasi tutti i contadini, optò per il Reich, pur avendo poche intenzioni di abbandonare il suo maso e i suoi campi. Il canonico Michael Gamper, figura centrale dell’opposizione sudtirolese, aveva più volte esortato la popolazione locale a non abbandonare le proprie terre, a resistere all’occupazione fascista o nazista che fosse. Dall’altra parte però la propaganda nazionalsocialista era riuscita a far breccia in vari strati della popolazione e quindi in molti avevano cominciato a considerare i Dableiber, i non optanti per il Reich, come dei traditori. In un clima di delazioni e minacce l’inverno, il vento freddo dell’inverno sembrava questa volta aver vinto le altre stagioni. Il podestà ora girava per i paesi limitrofi con una macchina e l’autista. Alcuni paesani erano stati chiamati alle armi nella Wehrmacht e la guerra, che doveva essere una Blitzkrieg, si era allargata come una macchia d’olio in tutta l`Europa.

In questo aggrovigliato succedersi di avvenimenti Alois, quando a mezzogiorno davanti a un piatto di Gulasch o alla Gerstsuppe, zuppa d`orzo, congiungeva le mani in preghiera, aveva cominciato a vacillare. Aveva pensato che la guerra è orribile, che l’uomo fa cose orribili e che forse nemmeno i suoi alberi questa volta sarebbero riusciti a far ritornare la stagione del raccolto. Anche gli alberi sarebbero rimasti sterili e muti dopo la guerra, che già aveva segnato le prime croci in paese. Hans Kerschbaumer, Andreas Winterholer e due dei fratelli Höllrigl del Pflanzer-Hof erano caduti o erano stati fatti prigionieri e improvvisamente ogni semplice certezza di prima pareva franare, lasciandosi alle spalle solo un enorme sentimento di paura e di vuoto.

Lisl, nonostante le difficoltà di esprimersi in una lingua non sua, scambiava quasi giornalmente alcune parole con Valeria. Le due donne alle volte parlavano dei loro figli, Franz e Saverio, che erano diventati ragazzi. Ormai non li si poteva più incontrare a correre nelle strade del paese, o non li si sentiva più urlare “tutti matti” nei campi. Franz, che si era irrobustito, aiutava gran parte del giorno suo padre. Saverio, invece, rincorreva già il sogno di una brillante carriera militare come ufficiale. Der Krieg ist schrecklich. La guerra è orribile, borbottava di tanto in tanto Alois, pensando a quanti padri ormai rimpiangevano la partenza dei figli. La guerra è orribile, ripeteva, guardando gli alberi non più curati come prima di alcuni contadini del paese.

Alois non era partito soldato per la sua gamba destra, più corta di alcuni centimetri di quella sinistra. Un difetto che si era portato dietro dalla nascita e che lo costringeva, per riuscire a mantenere l’equilibrio, a una camminata ondulatoria, a un leggero continuo sobbalzo che aveva rallentato il suo incedere senza, tuttavia, togliergli forza. Alois saliva e scendeva dalle scale a pioli, spostava grandi ceppi e cassette, e con le sue mani forti riusciva a tranciare di netto anche i rami più resistenti. Ogni tanto al tramonto si guardava le mani la cui pelle invecchiando assomigliava sempre di più a una corteccia rugosa. Con quelle mani lui aveva affrontato e lavorato la sua vita. Con quelle mani aveva accarezzato al buio il corpo di Lisl. Con quelle mani aveva toccato i sui alberi quasi giornalmente, ne aveva colto i segreti. E con quelle stesse mani aveva aiutato Franz una mattina del luglio 1944 ad issarsi sulle spalle un piccolo zaino con indumenti e alcune provviste per il viaggio. In giugno Franz aveva compiuto 18 anni e solo un mese dopo aveva ricevuto l’avviso di presentarsi alla caserma della Wehrmacht di Schlanders-Silandro.

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1 continua

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