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Le labbra della Lecciso e la lingua della letteratura

di Giuseppe Caliceti

lecciso.jpgMercoledì il Corriere della Sera ha dedicato grande spazio al dibattito in corso sulla “letteratura popolare” su cui avevo scritto anche io qui su Liberazione qualche giorno prima. Con un articolo di Cristina Taglietti, che lo ripercorreva partendo dall’acceso confronto tra la critica Carla Benedetti e la giornalista di Repubblica Loredana Lipperini; l’articolo iniziava con una capziosa domanda: “E se dopo anni di orgogliosa elite la cultura di sinistra fosse diventata troppo popolare?”

Ma anche con un’intervista a Edoardo Sanguineti intitolata “Gramsci e la Lecciso”, che esordiva così: “La sinistra si occupa troppo del popolare? Secondo me non lo fa abbastanza. Invece di dedicare quaranta righe a un raffinato poeta sconosciuto, parliamo di un fenomeno come quello della Lecciso. Parliamone, ma per capire perché è diventata ciò che è diventata, perchè, su qualunque canale, tutti si preoccupano di dibattere se sa o non sa ballare, come va la sua storia con Al Bano, come si veste e che cosa sa fare”.

Sembrerebbe una provocazione, quella di Edoardo Sanguineti, in realtà – scrive la Taglietti – è la conseguenza di un’interpretazione in un certo senso gramsciana della cultura. E cita di nuovo Sanguineti: “Certo, perchè Gramsci che si interrogava su che cosa leggeva la gente, sul romanzo di appendice e sul linguaggio che usava, è stato molto più fecondo di tante analisi crociane. In Gramsci il nazional-popolare rifletteva un problema di comunicazione, riguardava le grandi masse che spesso vivevano isolate, che parlavano il dialetto, legate al folklore, a certe tradizioni, le cui forme di espressione erano i bollettini parrocchiali. Quello è il tipo di analisi che dovremmo continuare a fare. E solo la sinistra può farlo perchè ha una tradizione forte in materia”.

Sanguineti ha ragione. Il nazional-popolare non fa paura. Ed è bene che gli scrittori di oggi parlino nei loro libri del mondo di oggi, descrivendone tutte le virtù e le nefandezze. In fondo è quello che lui fa da sempre nella sua opera. Non dimentichiamoci che le stesse Avanguardie o Neoavanguardie, almeno nelle loro fasi nascenti, sono state attente alla “massima comunicazione” e al cosiddetto “popolare” più di quanto generalmente si è portati a pensare.

Ma se è bene che gli scrittori parlino del proprio mondo mondo – e della diffusa cultura nazional popolare che oggi lo contraddistingue, – nelle parole di Sanguineti mi pare ci sia un sottinteso fondamentale: Naturalmente, signori, dipende tutto da come se ne parla; e non tanto in termini di giudizio, ma proprio di lingua che si sceglie e mette in scena per parlarne.

Io sono convinto che la realtà prima di uno scrittore (almeno quando sta scrivendo) è innanzitutto la lingua in cui scrive. Sanguineti magari ha scritto una poesia sulla guerra in Iraq, ma non usa la stessa lingua di un corrispondente di guerra della Rai o della Fininvest.
Aldo Nove scrive un racconto su Magalli, ma non usa la stessa lingua di “Sorrisi & Canzoni“.
Balestrini scrive un romanzo sulla camorra, ma non con la lingua con cui ne parlano generalmente sui giornali.
Scarpa scrive un romanzo d’amore, ma non usa la lingua che userebbe in tv la De Filippi o Alberto Castagna per parlarci di una storia d’amore.

A prescindere dal quello che dicono su questi “temi” popolari, ne parlano nella loro opera con una lingua diversa: che spesso rappresenta il vero senso di quello che scrivono.
Invece, – tanto per fare un esempio a caso, ma potrei farne altri, – a me pare che quando Michele Serra scrive, mettiamo, una poesia per un libro di poesie edito da Feltrinelli, o un racconto, o un articolo prima su Cuore e oggi su Repubblica, oppure su L’Espresso, nonostante affronti sempre “temi” di grande popolarità, di grande attualità, come in effetti gli capita spesso, la lingua in cui scrive sia sempre esattamente la stessa.

A me, lo confesso, Sinistra o non Sinistra, nonostante abbia scritto diversi libri per Feltrinelli, – uno dei più importanti editori italiani e pure di Sinistra, – Serra non è uno scrittore che appassiona troppo. Magari è un ottimo divulgatore – come Baricco in tv e anche nei suoi libri omerici – ma come scrittore preferisco altri.

Per esempio chi, scrivendo un libro di racconti, fa sì che quel libro non assomigli troppo a un altro tipo di libro: una raccolta di articoli prima pubblicati su un giornale e poi raccolti in un libro.

Probabilmente mi aspetto troppo da uno scrittore.
A ogni modo, cosa c’entra questo col dibattito in corso sulla cosiddetta letteratura popolare? Per me è il punto fondamentale. Perché senza dubbio, la grande editoria italiana di oggi, non ha alcuna intenzione né convenienza a fare troppi distinguo tra scrittori e divulgatori culturali. Chi vende più libri è il migliore “prodotto culturale” in circolazione, fine del discorso. A prescindere da ciò che scrive, dalla lingua in cui scrive. Ogni altro tipo di ragionamento è preso per fazioso, ozioso, borioso, ideologico.

Sul sito Nazione Indiana, Scarpa ha recensito “Fiona“, l’ultimo romanzo di Mauro Covacich, che immerge completamente le sue mani di scrittore nel fango dei reality-show, i programmi tv più popolari del momento.

“Io non credo ci sia un circolo virtuoso autoreferenziale tra questo romanzo e ciò che l’epoca ha posto in prima fila”, risponde Covacich alle garbate osservazioni di Scarpa. E aggiunge: “Questo sovraccarico di finzione nell’aria fa sì che il mio romanzo appaia come mero specchio del reale. (?) Io credo che lo specchio, più è preciso e più risaltano le deformità, le anomalie, i caratteri paradossali e grotteschi di questa autorappresentazione. E’ un errore pensare che, rispecchiandola, io sia al servizio dell?epoca”.

Io, invece, lo ripeto, credo che la Realtà numero uno di uno scrittore, a prescindere dalle tematiche più o meno popolari, attuali e alla moda che affronta nei suoi libri o nei suoi articoli sul giornale, sia innanzitutto la lingua in cui scrive.

Perciò la mia domanda a Covacich, e non a Faletti o a Pansa, è questa:
Credi anche che la tua lingua, la lingua di Fiona, più è precisa e più possa far risaltare le deformità, le anomalie, i caratteri paradossali e grotteschi della tua autorappresentazione del mondo in cui viviamo?
Credi che sia un errore pensare che, rispecchiandone la lingua, cioè utilizzando in un romanzo la stessa lingua che magari uno mette in scena per scrivere un articolo sulla “letteratura popolare oggi in Italia” su L’Espresso, uno scrittore possa non essere al servizio della sua epoca?

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Questo intervento è stato pubblicato venerdì 4 febbraio 2005 sul quotidiano Liberazione.

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21 Commenti

  1. Ecco, ti pareva che non si arrivava alla “questione della lingua” ? Basta ! Non se ne può più ! Ogni cinque o sei anni, quando il dibattito letterario langue, qualcuno tira fuori la questione della lingua (partendo dall’uovo o dalla mela, ma sempre lì arrivando) e così per tre o quattro mesi i giornali hanno qualcosa da scrivere nella pagina letteraria. Basta, ripeto. Sono troppo vecchio. Questa manfrina l’ho già vista tante di quelle volte che ne ho la nausea.
    Ognuno scriva quello che vuole, nella lingua che vuole. (Come se i racconti di Tommaso Landolfi non fossero belli anche nella lingua che usava lui !). L’importante è fare cose valide, il resto, abbiate pazienza, sono solo chiacchiere.

  2. scusa giuseppe, forse non capisco. ma tu trovi che la lingua di “fiona” sia la stessa di un articolo sull’espresso?

  3. Scrive Scarpa, oggettivandosi (?): «Sul sito Nazione Indiana, Scarpa ha recensito “Fiona”».
    Sì, certo, Mauro Covacich avrà anche immerso completamente le sue mani di scrittore nel fango dei reality-show (e sai che coraggio!). Ma per dire che cosa, se non, lapalissianamente, che sono fango e che in questo paese non ci sono più campanelli?
    Sorge, peraltro, il sospetto che, più che rimestare tra i tanto deprecati “programmi più popolari del momento”, in realtà volesse solo apparire “al passo con i tempi”. Ma uno scrittore non dovrebbe proporre storie capaci di vivere “sub specie aeternitatis”, più che vincolarsi all’effimero?
    Quanto al fango in sè, non avevano già esaurito l’argomento i Matia Bazar con l’aurea quartina:

    “Ma piove il cielo sulla città
    tu con il cuore nel fango
    l’oro e l’argento, le sale da the,
    paese che non ha più campanelli.” ?

    [Ma no, non spaventatevi per l’abissalità dei miei interrogativi. Stavo solo scherzando.]

  4. Errata Corrige.

    Ritiro la frase d’apertura: “Scrive Scarpa, oggettivandosi(?)”.

    Non è Scarpa ad oggettivarsi, bensì Caliceti a menzionarlo.

    +

    fango in sè > fango in sé
    the > tè

  5. Eppure, Riccardo, sono d’accordo con Caliceti, come ho già scritto da un’altra parte: “Dobbiamo parlare, proprio come dice Caliceti, della lingua. Della perfetta aderenza, fra testo, narrazione, lingua. E’ questo che fa l’opera letteraria da quella pseudoletteraria. La questione della lingua “è” la questione per antonomasia in Italia. Ce lo dice Gramsci, ce lo dice Pasolini (ma ce lo diceva anche Dante).”

    Insomma ci sarà una ragione per la quale l’argomento torna, non può essere solo un trucco per riempire le pagine dei giornali.
    La lingua è LO strumento di chi scrive. E nessuno strumento è innocente, di per sé.

  6. Caro Gianni, non c’è dubbio che ogni scrittore deve forgiarsi la sua lingua, ma a che serve sollevare la questione di come si parla in Tv, come si parla allo stadio o nel talk show ? Se ci sono scrittori capaci di scrivere opere valide ispirandosi a quei linguaggi ben vengano. Se non ci sono, chi se ne frega. Tutte queste discussioni lasciano il tempo che trovano.

  7. in effetti c’è qualcosa di irritante o di stancante in questi dibattiti: il déjà-vu, ma nel senso della ciclicità coatta, del soprassalto della semisalma, che di colpo si tira in piedi e si prepara per una grande prolusione… salvo poi ricadere in sonni improvvisi. Ma dietro la coazione a ripetere, c’è di certo la serietà del trauma, ossia sempre una questione fondamentale, aperta e spinosa… Io credo che tutta la questione intorno alla cultura popolare si possa ridefinire secondo almeno due prospettive. Quella proposta dall’iniziale riflessione di Carla Benedetti, che a parer mio richiede un’analisi sociologica seria del libro-merce e delle sue attuali forme di produzione e promozione. L’altra prospettiva, è quella che analizza i rapporti tra ideologia e letteratura. Ed è forse l’analisi che più spetta al critico, la più difficile anche.

    Che cosa lascia a bocca asciutta, invece, in alcuni interventi? Prendiamo questo di Caliceti. In sé condivisibile. Quasi ovvio dopo Bachtin. Ma non lo sarebbe per nulla, se fosse appoggiato da almeno qualche seria analisi di “lingua”, qualche raffronto concreto, minuzioso, tra lingue diverse. Con relative illustrazioni di cio’ che fa “la differenza” tra una lingua e l’altra, tra il linguaggio di “TV sorrisi e canzoni” e Covacich. Oppure tra Covacich e Faletti. Oppure tra Covacich e Aldo Nove, ecc.
    D’accordo, tutto questo è un lavoraccio. Ma sarebbe il tipo di lavoro di cui più c’è bisogno. E invece troppo spesso si rimane sulla soglia. Ci si espone a vicenda i principi più generali, gli articoli di fede. Chi vota per il linguaggio, chi per l’attualità dei temi, chi per la distanza dal presente, chi per il surrealismo, ecc.
    In ambito poetico, su canali più clandestini e limitati, i dibattiti presentano la stessa struttura ciclica, coatta e generica. L’unico modo per sottrarsi a questo destino pavloviano, è farsi, di tanto in tanto, il mazzo. Prendersi dei testi e lavorare su di essi. E gli esiti di tali analisi sono alla fine cio’ che di più prezioso rimane di un dibattito su poetiche d’autore o categorie estetiche.

    Se condivido il fastidio di Ferrazzi, non ne condivido quindi la conclusione. Non si tratta di tacere, perché il dibattito è inutile. Si tratta di dire di più, di dire cio’ che ci manca. Ossia, banalmente, analisi critiche di testi.

  8. Ma infatti: o si tace – come fa Riccardo, e lo capisco in pieno – o si fa un lavoro veramente serio e rigoroso di analisi della lingua sui testi contemporanei con tanto di esempi concreti. E questo lavoraccio dovrebbe spettare soprattutto ai critici. Delle due l’una, insomma.

  9. Analisi critica dei testi per che cosa starebbe? Che strumenti si suppone debbano essere in dotazione al supposto critico analista? Quelli della filologia bastano? O serve anche un po’ di semiotica? E la teoria del discorso narrativo, dove la mettiamo?
    La domanda sottostante, come in covered warrant, è: ci sono in giro critici così dotati, diciamo dei Mengaldo o dei Segre d’oggidì (per non sparare più alto, s’intende)?

  10. Bene, uno si da da fare, ci mette una vita a costruirsi la propria lingua, un modo di far girare la frase, che sia originale, il suo stile, proprio suo carnale, sangue del suo sangue delle sue vene dei suoi dedali cerebrali e poi s’incoccia in uno scorranacchiato di editor che ha capito tutto, lui, e comincia a massacrare, dir e bofonchare di ipotassi, distorcere, tagliare, semplificare per ridure tutto alla solita sozza e lucida polpetta, perché:
    Altrimenti la gente non ti capisce caro…!

    Hai ben voglia e desiderio di metterci tutta la tua di lingua, mentre questi vogliono la lingua che si capisce benebene, caro,tantobenecarina, amano che si parli delle Lecciso, dei reality scioff che io manco sapeva chi, cazz’erano, che non guardo la tele, che l’ho letto qui, perdiana!

  11. I critici a mio sommesso parere ci sono. Perché, se ci sono gli scrittori di valore anche oggi, non dovrebbero esserci i critici di valore anche oggi?

    Mario, lo sai bene che anche Hemingway aveva un editor. Farsi capire non vuol dire farsi distorcere il pensiero e la lingua. Se l’editor è bravo nel suo mestiere tanto quanto lo è l’autore nel suo, non c’è frizione.

  12. Franz, la domanda era appena più circostanziata: che cosa fa di un critico un buon critico? O almeno un critico adeguato agli scrittori che ci sono in giro? Anche a me pare che ci siano scrittori buoni. Come in tutte le ere, ce ne sono perfino di ottimi. I critici, non lo so; ma è appunto una domanda, non una risposta.

  13. Sarò breve, caro Choukhardarian: l’onestà intellettuale innanzitutto. La curiosità. La passione. Il coraggio.
    Non dico che ce ne sono a frotte, di critici così, ma ci sono. E’ un’impegno notevole, prima di tutto con se stessi, essere tutte quelle belle cose insieme. Gli scrittori possono anche permettersi di essere degli emeriti figli di puttana e basta; e scrivere comunque libri di altissimo livello. I critici, a mio avviso, devono avere una marcia etica in più. Ma è solo una mia idea.

  14. Per uscire proprio dal vago, faccio un esempio concreto. Non solo di critico, ma anche di un suo specifico lavoro. Alludo a PAOLO GIOVANNETTI, “Retorica dei media. Elettrico, elettronico, digitale nella letteratura italiana”. Un libro molto bello, su di un corpus davvero ampio e una tematica ancora poco esplorata. (E lo dico malgrado lo scriteriato autore del saggio non abbia preso in considerazione neppure un testo del sottoscritto, che è assai ossessionato dalla rapporto scatola cranica-scatola catodica.)Comunque di questo libro di Giovannetti mi prometto di riparlare in futuro.

  15. Sono d’accordo con Andrea Inglese. Manca la profondità. Manca l’analisi testuale. Per capirci qualcosa bisogna conoscere molti testi di uno stesso autore, molti autori e sezionarli e fare un lavoro di comparazione osservando l’evoluzione storica-cronologica. Io per adesso mi rileggo Storia dell’Italiano Letterario di Vittorio Coletti e cerco di capire.
    Anche io penso che la lingua sia il cuore pulsante dello scrittore.

  16. Una domanda a Franz. Gli scrittori possono essere emeriti figli di puttana e scrivere benissimo, ok. Ti chiedo se possono permettersi di essere anche poco intelligenti (qualunque senso abbia questa parola)?

  17. Andrea, Giovannetti è uno molto bravo. Ho letto tempo fa un suo studio sulla metrica e la sintassi di Campana, per esempio. Non conosco il titolo che citi, l’argomento non è di quèi che mi avvincano, ma leggerò quel che ne scriverai, se e quando ne scriverai.
    Un ottimo critico legge moltissimo, non smette mai di studiare, scrive poco ma quando scrive è per dire cose che rimangono.

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