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Il chiodo fisso

di Sergio Garufi

Coubert.jpgDiciamolo sùbito a scanso di equivoci: in arte non si stilano classifiche, e i superlativi vanno sempre adoperati con estrema parsimonia. E’ una questione di bon ton culturale, prima ancora che di logica. E poi, in genere, la passione smodata per le graduatorie, le formule consolatorie (il genio è 90% traspirazione e 10% ispirazione), le simmetrie dei chiasmi e i rigidi aut aut da tertium non datur è tipica degli incolti.

Da una parte questa fissazione tradisce – nell’ancipite senso di rivelare e fraintendere – il bisogno di sicurezze, di punti fermi cui aggrapparsi come naufraghi nel mare indistinto della soggettività; e dall’altra denuncia una scarsa dimestichezza col vocabolario, cui si preferisce l’algida e rassicurante oggettività dell’algebra, il fascino che esercita tutto un mondo dal quale è escluso l’io. Ma la matematica non è in grado di spiegare l’estetica, e l’essenza dell’arte non si può certo ridurre a una mera formuletta (tipo quella del professor Evans Prichard nel film L’Attimo fuggente, in cui si sosteneva che era possibile calcolare scientificamente il valore di una poesia mediante un grafico di ascisse e ordinate). Giusto come esercizio ludico e ironico, ed essendo consapevoli dell’arbitrarietà e dell’inconsistenza di tali graduatorie (sia che queste provengano da illustri sconosciuti o da Maestri Venerabili), è lecito e consentito parteciparvi, indicando le proprie predilezioni in fatto di arte.

Fra i grandi scrittori che ebbero l’ardire di esporsi in questo modo non si può non segnalare John Ruskin, che in St. Mark’s rest, del 1877, affermò che le catatoniche Cortigiane del Carpaccio al Correr, in seguito rivelatesi due mogliettine annoiate nell’attesa del ritorno a casa dei rispettivi coniugi, rappresentavano “the best picture in the world […] and I know no other picture in the world can be compared with it”. Poi Aldous Huxley, che in Along the road: Notes and Essays of a tourist, del 1925, scrisse che la Resurrezione di Piero della Francesca a San Sepolcro è “the greatest picture in the world”; e anche John Mortimer, scrittore e drammaturgo inglese, che nel romanzo Summer’s Lease dichiarò la medesima passione pierfrancescana, indirizzando però il suo superlativo ossimorico sulla più minuta Flagellazione (“undoubtedly the greatest small picture in the world”).

Marcel Proust, invece, pose al vertice del proprio canone la Veduta di Delft di Jan Vermeer, come scrisse in una lettera dell’1/5/1921 all’amico e critico d’arte Jean-Louis Vaudoyer (“le plus beau tableau du monde”); quadro che si recò a rivedere in occasione di una mostra di artisti olandesi al Jeu de Paume un anno prima di morire (più o meno come fece Bergotte ne La Recherche). John Ashbery – il poeta di New York tradotto da Aldo Busi -, pur amando molto Caravaggio (si veda la lirica Caravaggio and his followers), è invece sedotto dall’Autoritratto in uno specchio convesso del Parmigianino, tanto da ispirarsi a quel dipinto per la sua omonima raccolta di versi. Il narratore e poeta olandese Cees Nooteboom confessa, in Verso Santiago, il suo amore per l’enigmaticità e l’inesauribile polisemia de Las Meninas di Velasquez; opera che affascinò, fra gli altri, pure Michel Foucault. E ancora Thomas Bernhard, per bocca del protagonista di Antichi Maestri, dimostra di essere letteralmente ossessionato da L’Uomo con la barba bianca del Tintoretto (conservato nella Pinacoteca di Vienna); dipinto che considera, seppur per motivi molto personali, superiore a qualsiasi altro. Il superlativo più provocatorio, in questo senso, spetta a Karl Heinz Stockhausen, che in tempi di ready made e video arte ebbe l’idea di definire l’attacco alle torri gemelle come “la più grande opera d’arte mai realizzata”; e difatti oggi le immagini di quella terribile tragedia concludono il percorso espositivo della mostra Il Male. Esercizi di pittura crudele, allestita in questi giorni nella palazzina di caccia di Stupinigi.

Per quanto riguarda lo scrivente (e per quanto ciò possa interessare), il migliore è L’Origine du monde di Gustave Courbet. Questo capolavoro assoluto dell’arte del XIX secolo – acquistato nel 1955 dallo psicanalista Jacques Lacan come dono per la moglie Sylvia, e tenuto nascosto nella loro abitazione dietro un quadro astratto per essere mostrato solo agli amici più intimi – entrò a far parte delle collezioni nazionali francesi 40 anni più tardi, ed è oggi esposto al pubblico in una sala del lezioso e aulentissimo Museo d’Orsay di Parigi. L’Origine du monde è un dipinto geniale che raffigura la più affascinante e sensuale cosmogonia mai concepita; una cosmogonia laica e carnale che rispecchia fedelmente il nostro zeitgeist. Maurizio Calvesi lo considera addirittura una Vergine annunciata in chiave moderna, come la Maria del film di Godard. Non più la grotta, o l’angelo, o la pudicizia insomma, bensì la totale e serena accettazione del Fato, la resa incondizionata al proprio destino. Da sempre, da prima ancora di conoscere la tela di Courbet, ero ossessionato da quell’immagine. Una specie di chiodo fisso.

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Pubblicato su Stilos, estate 2004.

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12 Commenti

  1. questa opera arriva nella produzione di Courbet dopo altre che sviluppano scene lesbiche come Venere e Psiche e Pigrizia e Lussuria. ma qui, per l’origine del mondo, Courbet fissa un punto di carnalità mai vista prima:quasi una sorta di nuda veritas talmente nuda da apparire scandalosa al pari del marchese de Sade. Si può parlare a mio avviso di cosmogonia per “l’origine del mondo” solo se si dice prima una cosa, e cioè che il titolo, questo titolo, non le è stato dato da Coubet, ma forse da Lacan che ne aveva intuito lo spirito universalistico di cosa in sè tutta compiuta e potenziale. prima era un enorme sesso (geni-t-ale, crudo, antiretorico, vero) fatto per un ex diplomatico turco che lo nascondeva, lui e non Lacan, nel bagno privato nascosto dietro un altro quadro-schermo che raffigurava il portale di una roccaforte sotto la neve!(e qui le simbologie si sprecano) del resto Lacan lo utilizzò per sedurre la moglie di Georges Batailles che poi divenne sua moglie.
    origine di discordie più che origine del mondo… ma ad ogni modo origine e fine delle nostre anime!

  2. E’ vero Racca, il quadro Courbet lo fece per un diplomatico turco che lo nascondeva con un quadro schermo nel suo bagno privato…e non Lacan, figuriamoci se Lacan si metteva a nascondere il quadro, semmai lo ostentò per una vita nelle sue stanze. Ai ai Garufi, un pò uno svarione. Ma ciò che scrivi è bello uguale! Anche con lo svarione.

  3. Posso fare il Pierino ? Se a questo quadro togliamo il titolo cosa resta ? Voglio dire: se Courbet l’avesse intitolato “Senza titolo” oppure “Composizione 345” ?
    Con ciò non voglio dire che non sia un’opera d’arte. Voglio dire che, forse, non è un’opera di pittura. Il che, potrete dirmi, non è rilevante. Però, in qualche modo, mi sento vagamente preso in giro. Colpa mia, immagino. Certe cose le accetto da Magritte, che dichiaratamente usa la pittura per fare altro. Fatte da Courbet sono peggio di un bluff: sanno di trucco.

  4. il senso di un’opera cambia nel tempo, e infatti credo che si possa parlare di cosmogonia per quest’opera solo quando le viene attribuito il nome di origine del mondo, o anche forse a prescindere dal nome stesso in quanto nel suo passaggio attraverso i tempi e venuta cambiando l’attenzione degli esperti e ciascuno ci ha visto qualcosa di nuovo e anche legittimo. in effetti Courbet si può pensare fosse spinto più dalla cruda provocazione che dalla metafora ma questa non è comunque da escludersi se si pensa che L’atelier d’artesita ne è pregna. sostenere poi che non sia pittura quel quadro non vuol dire assolutamente nulla. quella è pittura, ed è un’opera d’arte capolavoro a prescindere dalla sua intuizione originaria. perchè? perchè per me non si differenzia dalla Gioconda (ma non voglio cadere nella trappola delle graduatorie!) e da quel suo sorriso strano sulle pieghe della bocca!

  5. sentite, qualcuno mi chiarica le idee per favore: qual’è la vera storia dell’origine del mondo in casa di Lacan? ricordo di aver letto che Lacan lo teneva in una scatola con con coperchio “astratto” dipinto dal genero (?) Andrè Masson …… e che il quadro-schermo del diplomatico turco era comunque paesaggio di Courbet…
    Interessante vedere come intorno a questo quadro non ha caso fioriscano i misteri…… le leggende metropolitane…..
    Temo che difficile sia reperire indizi certi: siamo su terreno mobile, Eros si manifesta…
    geko

  6. ognuno la pensa come vuole, caro Racca. se per te il sorriso della Gioconda è espressivo come il quadro di Courbet, hai ragione di sostenere la tua tesi. io continuo a pensarla come sopra.

  7. “Ceci n’est pas une moule.”

    Io, modestament, un quadro similaire l’avrei intitolato comsà:-)

  8. renè tu non hai mai capito un cazzo di pittura, perché parli? io la volevo intitolare proprio: “ceci est une moule”

  9. E io dovrei crederci, mon cher ami? Tu eri di un’altra epoque. Pure se tu avessi avuto quell’idea, e ne dubito fortemente, ti saresti cagato sotto, a mio modest avis.
    Diciamolo, mon cher Courbet: a titoli non mi fotteva personne!

  10. ebbravo il prestigiatore, il fumoso intellettuale, il buffone alla corte di Monsier Breton, papa di quella borgata borghese e comunista di surrealisti stolti. Noi eravamo rivluzionari seri, noi abbiamo fatto il ’48, voi eravate solo capaci di scappare in America all’occorrenza. Noi avevamo Proudhon, Marx e voi chi avevate? travisatori di bibbie! per noi non c’erano parole,renè, ma fatti!!!!

  11. Questo te lo devo concedere, mon ami. Le quarantahuit etceterà.
    Io ero un bravo borghese ossessionato dalla morte di mia madre. Un ex disegnatore di carta da parati. Trés bien.
    Ma chi se li ricorda i tuoi bellissimi quadri, a parte “Ceci est une moule”? Dì un peu… Eh? Invece io… Ma insomme, sei stato grande anche tu, rien à dire.
    A bientot alla cafeterie de l’enfer, mon ami…;-)

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