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Chigurh

di Giordano Tedoldi

1.
Da giorni, quasi un mese, sono fuori di me. Sono nel personaggio di un libro. Lo so che sono lui, che ho i suoi stessi atteggiamenti, do le sue stesse risposte e, molto importante, riesco addirittura a guardarti proprio come fa lui. Il che, per te che mi vedi, che mi trovi davanti alla tua strada, è una mezza disgrazia.

Che io e te prima o poi dobbiamo morire, è ovvio, perciò il mio sguardo non può piacerti. Ci si guarda sempre come in un duello, anche se il colpo ti finirà, o mi finirà, domani, o tra molti anni a venire. Con i sensi di colpa ho chiuso. Un fratello di sangue mi dice: “Non sai quello che ho fatto per te”, e io rispondo: “Sì, mi hai guardato morire”. Dev’essere tra le pieghe di queste battute che si nasconde il perché di questo cambiamento: che da giorni, quasi un mese, io sono Anton Chigurh.

2.
Gli scrittori italiani sono buoni. Questa frase mi è sempre rimasta in testa come l’articolo Uno della Costituzione, l’unico che conosca, l’unico che si senta citare in televisione nei dibattiti politici. È come se con la violenza avessero sempre avuto un rapporto attutito, indiretto, sociologico. Nella letteratura italiana si tiene un grande festival della sofferenza psichica, e in alcune propaggini più recenti, una carrellata porno della dipendenza da sostanze (tra esse includo anche l’amore), le quali, nella scala delle sofferenze, hanno di gran lunga surclassato il dolore nudo e crudo del corpo. Eppure a me sembra che la fatica di vivere sia una faccenda di muscoli, testa, nervi, sangue. Difficile trovare di queste cose nella letteratura italiana. Difficile trovare un mal di testa. Non voglio dire un’emicrania, un oscuro male, un principio di tumore maligno al quale seguirà un lutto e un ulteriore sviluppo narrativo, quando il figlio rimasto orfano andrà a fare il surf in Liguria e partirà la canzone di Tom Waits o una Gymnopedie di Satie. E tantomeno, sia chiaro, parlo di una decapitazione mediante katana. No, un mal di testa. Una notte insonne. Semplice. E il mio fratello di sangue: “Tu, che ti consideri uno scrittore, hai scritto quasi solo di sofferenza psichica”, e io gli rispondo: “Ma era chiaro in ogni punto del mio libro che quella sofferenza psichica non era reale, e che il mondo – Parioli, destra, sinistra, Roma nord, tutte le sciocchezze che hanno scritto – non era che uno stentato paradosso. Devi considerare che la depressione non è una vera malattia, noi ce la siamo inventata. Devi considerare che c’è qualcosa di vero nell’aprire gli occhi dopo otto ore di sonno, come c’è qualcosa di vero nel non chiuderli per ventiquattro ore filate. La stessa verità contenuta in un bacio. Il falso sta nel tenersi la testa tutto il giorno lamentando una sofferenza psichica o vomitando paranoie da sostanze. Il falso sta nel chiedere ancora qualcosa”. Dev’essere tra le pieghe di queste battute che si nasconde il perché di questo cambiamento: che da giorni, quasi un mese, io sono Anton Chigurh.

3.
Aborto, sì o no. Droghe, sì o no. Promiscuità sessuale, sì o no. Dio, sì o no. Chigurh ha una risposta a tutti questi dilemmi. La sua risposta è una domanda. Testa o croce? Provate anche voi, per dire, con vostra figlia o vostra nipote o vostra sorella minore. Papà, zio, Giordano, sono incinta, potrei abortire, ma sono perplessa, ho un attimino un problema in materia di etica, mi dai un aiutino? Ma certo amore, allora dimmi, testa o croce? Come? Testa o croce? Facciamo che aborto è testa e non aborto croce? Scegli tu. Hai la scelta. Siamo un paese libero, perdio. O ancora. Sono il lui di un altro lui, sono insomma un omosessuale e voglio avere un bambino. Prendo una donna che non conosco le stacco un ovulo poi prendo un’altra donna che non conosco faccio impiantare l’ovulo in questa seconda donna poi la faccio inseminare col mio seme poi vado dal mio compagno, che in fondo è l’unico ad avere diritto a sentirsi rivolgere questa domanda e gli chiedo: “Sei d’accordo?”, e lui: “Decidiamo col gioco del testa o croce”. Certo la sensibilità non è il mio forte. Ma non capisco. Non capisco. Sono stupido. So pagare una bolletta, so comprare un telefonino con scheda ricaricabile. Saprei anche sparare in faccia a qualcuno, come Chigurh. Il resto, no, mi arrendo.

4.
Anton Chigurh è lo spietato assassino inventato da Cormac McCarthy nel suo ultimo romanzo “Non è un paese per vecchi”, pubblicato da Einaudi nella spettacolare traduzione di Martina Testa. Il libro conta 251 pagine e costa 17 euro. Chigurh uccide con una pistola a aria compressa, adoperata, rivela McCarthy, per abbattere il bestiame nei mattatoi. Nasconde la pistola nella manica. Porta la bombola dell’aria a spalla. A volte, non solo per capriccio, concede una possibilità di scamparla ai malcapitati che incrociano la sua strada. Tira fuori una monetina e dice: testa o croce? Non è il male assoluto. Credo.

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21 Commenti

  1. Mr. Raimo hates mr. Colombati.
    Mr. Kim Rossi Stuart hates me.
    Have a good dinner with the “gricia”…

  2. Anton Chigurh deve aver subito un importante processo di triangolazione da piccolo.
    mi piacerebbe sapere se, sempre da piccolo, fu più capro espiatorio o più bullo
    se ebbe un’attività sessuale precoce e bizzarra o l’ossessione per il fuoco e se fu necromane.
    indagherò.
    interessante.
    saluti

  3. bella invenzione.
    penso che uno scrittore metta in conto un fatto: che il lettore o la lettrice sceglierà (se la narrazione funziona bene) un personaggio da divorare, e da Emulare, nel senso di riprodurre la stessa figura del soggetto in chi legge.

    complimenti a Tedoldi, e a Raimo che ha scelto e inserito.

    b!

    Nunzio Festa

  4. «Mi stropiccio gli occhi e le orecchie.»
    (Silvio Berlusconi, durante il confronto televisivo con Prodi prima delle ultime elezioni)

    Sostiene Chigurh/Tedoldi:

    «Aborto, sì o no. Droghe, sì o no. Promiscuità sessuale, sì o no. Dio, sì o no. Chigurh ha una risposta a tutti questi dilemmi. La sua risposta è una domanda. Testa o croce?

    Ma non capisco. Non capisco. Sono stupido. So pagare una bolletta, so comprare un telefonino con scheda ricaricabile. Saprei anche sparare in faccia a qualcuno, come Chigurh. Il resto, no, mi arrendo.»

    Forse sono io che non capisco, ma leggo in queste righe una vena polemica contro le posizioni di chi sostiene la legalizzazione di aborto, droghe e “promiscuità sessuale”. Sono vecchi temi, sui quali si è dibattuto a lungo in questo paese.

    Vorrei solo ricordare che, tanti anni fa, l’ampio movimento democratico che sostenne la battaglia di civiltà in difesa della legge sull’aborto non si pose il problema del “testa o croce” su quel tema. L’aborto esisteva prima della 194. Esisteva. Ed era largamente praticato nella clandestinità. Con tutte le conseguenze che sappiamo in termini di tutela della salute fisica e psichica delle donne, e in termini di illecito arricchimento dei medici che praticavano l’aborto clandestino. La legge ha semplicemente legalizzato – e dunque regolamentato e tutelato – un fenomeno che era radicato nella nostra società.

    Lo stesso dicasi per le droghe. C’è un diffuso uso di droghe in tutti gli strati sociali, ma si vuole mantenere il fenomeno nella clandesitinità e nell’illegalità per favorire gli illeciti arricchimenti della mafia.

    E lo stesso dicasi per la cosiddetta “promiscuità sessuale” e tutte le faccende connesse. Ma sì, Tedoldi, chiamiamoli pure “frociacci” e “lesbicacce” – come si dice a Roma – che suona meglio e rende di più l’idea. Le coppie omosessuali ci sono sempre state, ma sono sempre state tollerate nella clandestinità. Tipico è il caso di una coppia omosessuale in cui il più anziano si “affiglia” l’altro per trasmettergli i diritti di una normale coppia.

    Io desidero una società più conflittuale, nella quale le contraddizioni siano alla luce del sole, dove i problemi non vengano occultati ma affrontati e eliminati. In una tale società il problema non sarebbe dunque più se scegliere fra “testa o croce”, ma fra “testa” e “testa sotto la sabbia”.

    «Il falso sta nel chiedere ancora qualcosa». No, il falso sta nell’ideologia. Anche di chi narra.

    P.S.:
    A scanso di equivoci il sottoscritto sottolinea che non si è mai dovuto confrontare con problemi di aborto, non ha mai fatto uso di droghe di alcun tipo ed è stato sempre eterosessuale. Lo stesso si dichiara, altresì, ateo e antifascista.

  5. tedoldi, è evidentemente troppo impegnato a far lo scrittore scorbutico, per leggerli, gli altri scrittori italiani. perchè ce ne sono, dio quanti ce ne sono, di talmente trucidi e truculenti e “non-buoni” che altro che decapitazioni con katana. ma è chiaro che la macelleria del vicino è sempre più piena di sangue.

  6. Non nego di avere sovente le idee confuse, e di essere inutilmente, demenzialmente scorbutico. Ma è chiaro che la macelleria e il sangue non sono argomento del mio pezzo. E’ chiaro che non ce l’ho con gli scrittori italiani, ai quali, evidentemente, non chiedo niente. Ho scritto di Chigurh, un personaggio (un modello) che nella sua apparente unidimensionalità parla di una violenza e di una malvagità che non è quella – appunto – dei cancri e delle decapitazioni. E’ qualcosa di infinitamente più etico, se mi si passa l’orrore espressivo (non passatemelo).

  7. caro Cristoforo Prodan,
    tu scrivi “Forse sono io che non capisco, ma leggo in queste righe una vena polemica contro le posizioni di chi sostiene la legalizzazione di aborto, droghe e “promiscuità sessuale”.

    Credo in effetti che – come hai giustamente scritto – tu non abbia compreso.

    Dal testo di Giordano emerge la desolazione dell’uomo solo davanti ad un destino, non importa che sia il suo o quello altrui, che riguardi un nascituro o l’oggetto desiderato. E’ solo, l’uomo, e deve decidere. Ma non ha un credo per cui morire, un desiderio per cui sperare, una regola da infrangere, un’alba da attendere.

    Non credo che Giordano si sia espresso contro o favore di un’idea, di una decisione, di una posizione. Le idee, le decisioni, le posizioni rendono forti, sicuri, determinati; non soli, sconfitti, depressi, e quindi – per dirla con le sue parole – infinitamente più etici.

    Chi ha idee, assume decisioni, si trincera dietro le proprie posizioni, come fai tu con perentoria e solenne forza, non dispera: confida nella solidarietà di un corpo normativo, nella forza di una morale condivisa, nell’amicizia di chi la pensa come lui, nell’immane ricompensa della tranquillità con se stessi, che premia chi si schiera in forza delle proprie convinzioni.

    Il dramma, che emerge di tutta evidenza dalla testo di Giordano, è proprio opposto, ed è letterario ed esistenziale ad un tempo.

    Dramma letterario, perchè astratto dalla singola e specifica tenzone, dal personale o partitico discorso di setta, dall’ideologico contesto storico e geografico: un dramma che vive nelle pagine e le pagine divora, forte di un senso e di un’espressività che destano orrore. Orrore della mente, non certo quell’insano ed inespressivo colorito di pomodoro che le pagine dei nostri scrittori italiani tinteggiano sulle bianche copertine einaudi.

    Dramma personale, perchè l’uomo che non ha il conforto di idee (o ideologie), non ha la forza delle decisioni e la protezione delle posizioni dietro cui trincerarsi: è un uomo solo, solo con la sua monetina.

    Di fronte ad un grande dolore, che senso ha decidere, assumere una posizione, credere in un’idea o schierarsi a Nord di Roma o a Sinistra di un Parlamento?

    Di fronte al dolore l’uomo agnosticamente rifugge qualunque dolore, decisione, idea. E rimanda al caso tutto: la vita, i suoi turbamenti, e persino il suo senso ultimo.

    Il breve pezzo di Tedoldi è straordinariamente potente per questo: perchè, senza ansie da decapitazione e tentazioni da colorificio, ci fa respirare un suono acre, componendo nella pagina un preludio solenne da morte dell’anima, un preludio che ha il senso potente ed evocativo della morte fisica.

    Il senso di una pausa solenne prima dell’ultima battuta. Il senso della lentezza sacrificale che ricorda il battito lento delle variazioni Goldberg nell’ultima versione di Gould.

    Un battito di genio.

    Nella speranza che proprio il Caso, che la vita scompagina e regna, che è il nuovo partito, Dio ed amico, giunga inatteso a ridare verità e felicità al protagonista. Perchè verità è felicità. Perchè chi ha una verità per cui morire ha una verità per cui vivere.

    E qual è la verità di Giordano? “La stessa verità contenuta in un bacio”: un’apertura d’amore dello scontroso Tedoldi. “Credo”.

    henry chinasky

  8. Anche in nome della stima (innanzitutto letteraria) che nutro per la scrittura di Giordano Tedoldi, vorrei aggiungere a questa discussione un mio commento all’apparenza scherzoso (o idiota, ma io amo molto il lo-fi, si sa), in realtà serissimo.
    Come cantano gli Hard-fi, “there’s a hole in my pocket”. Ogni scrittore, se ha un “portafogli” di verità, ce l’ha bucato. Nel senso che non può rispecchiare la verità, e spesso non rispecchia, in quanto scrive, nemmeno la sua personale ideologia o visione del mondo. Io ritengo.

    p.s.: Bravo Giordano. Questo pezzo è incisivo, potente, il tuo stile, nel tuo stile.

  9. sono d’accordo con Gemma. che c’entra la verità con l’arte? posso sbudellare persone sulla carta, ed essere un cagasotto mella vita. Io, personalmente, preferirei essere il contrario.

    ma il tema non è così banale, e non c’entra con quanto ho scritto sopra su Tedoldi ed il suo pezzo (geniale e desolante, triste eppur vivo di speranza e dolore).

    ricordati, gemma, che un artista (o un’artista) ha anche una responsabilità, quando scrive. perchè, ad esempio, se esalta lo sbudellamento, trova purtroppo sempre un deficiente senza palle che ne legge il racconto, e che potrebbe imitarlo… e potrebbe diventare sbudellatore vero, non potendo emularne lo stile o la potenza letteraria.

    ripeto: questo post non c’entra con il testo di Giordano, ma è solo una risposta a Gemma, che mi sembra semplificare molto il discorso sulla verità, che non è proprio cosa da canzonette.

    Per dirla con Bernanos e parlando di Tedoldi, forse si potrebbe dire che “chi cerca la verità dell’uomo si deve impadronire del suo dolore”.

    Infine, ancora per Gemma: come puoi definire “serissimo” il tuo intervento? Seria è la vita, non certo la letteratura, che con la vita spesso non ha nulla a che fare, visto che quella ha un “portafogli di verità” bucato (bella immagine, complimenti).

    henry chinasky

  10. @ Henry

    Riguardo alla “verità”, credo che soltanto nella forma del tentativo si possa entrare in contatto con essa. Questo da un punto di vista concettuale: come sapeva Schopenauer il mondo è una nostra rappresentazione. Dal punto di vista più propriamente formale il tentativo di verità può assumere le forme più disparate, e quella artistica è una. La più complessa.

    Sulla “responsabilità” non mi trovo d’accordo con te. La responsabilità della fruizione è affare del fruitore e non di certo del creatore. Per fortuna e purtroppo. La condivisione da parte dell’artista di un contenuto ideologico o comportamentale citato o sviscerato nelle proprie creazioni è pura supposizione. L’arte è una (rap)presentazione, non sempre di sé, anche quando parla di sé. L’arte non è giornalismo o predicazione. E’ arte, cioè creazione, cioè innanzitutto forma che deve poter godere della massima libertà.
    Con una creazione artistica che fotografi una realtà (parola e concetto che preferisco a quelli di “verità”) io porgo un contenuto ad un pubblico. Al di là dell’eventuale connotazione che posso aggiungere (assenso, dissenso), io comunque porgo un contenuto e basta, e non ho alcun modo di intervenire sulla ricezione. Purtroppo e per fortuna. Dico purtroppo perché anche l’arte cosiddetta di denuncia non può contare su una fruizione influenzabile a monte. E’ un discorso molto complesso. “Lolita”, dopo che suprema opera d’arte è un’istigazione alla pedofilia o una denuncia della stessa? Se sono un fotografo, e fotografo vittime di torture nude e malmenate asservendo la mia arte al servizio della denuncia, ma quelle foto vengono viste da un sadico che prova un piacere estetico ed erotico la responsabilità è mia? No. E se non sollevano alcuna reazione morale, per quanto io ci abbia provato, la responsabilità è mia? Ancora no.
    Io sono contro ogni censura, per quanto ritenga che, dovendo decidere di usarne una, andrebbe adoperata contro l’informazione spesso (rifletti su come le telecamere zoomano e indugiano sui dettagli di reali omicidi stupri lutti attentati eccetera) e non contro l’arte. Contro la quale viene invece utilizzata o evocata spesso.

  11. @ Henry

    Dimenticavo. Avevo precisato che il mio intervento era serissimo perché, premettendo la citazione del verso di una canzone, poteva non sembrarlo. Fa parte della mia poetica di scrittrice, e spesso di semplice osservatrice, rintracciare in cose come le canzonette o altre che Barthes definì “il sistema della moda” (ac)cenni di “verità”. Sono le meno lontane dalla gente comune, è con quelle che la gente comune ha a che fare, è da quelle che si fa influenzare. Una modella magrissima è un invito all’anoressia ben più di un romanzo che parli di essa, in bene o in male. Il successo di marchi come “Love sex and money” sintetizza lo stato di una società e i valori in cui essa crede molto più di Baudrillard.

  12. @ Gemma
    riguardo alla verità, sono d’accordo con te.

    sono d’accordo sul fatto che altro è la verità per l’artista, ed altro ne è la sua rappresentazione in un’opera. l’ho già scritto, e lo confermo.

    concordo anche sul fatto che la verità per noi può essere solo tensione ad essa, e nella sua ricerca, a mio avviso, l’uomo viene nobilitato ed ottiene senso e sentimento, passione ed emozione.

    In merito, a mio avviso è molto bello il pezzo di Giordano, nel rappresentare la desolazione dell’uomo che non ha nessuna verità in cui credere, a cui obbedire, per cui combattere e morire (quei verbi diedero un senso a fascisti e comunisti, che tristemente e gloriosamente morirono per delle loro terribili verità, smentite dalla storia).

    sulla responsabilità, apprezzo la tua analisi, che tuttavia non condivido: se sono bravo a scrivere, se sono veramente bravo, mi autolimito nel descrivere atti che considero moralmente riprovevoli, per non trovare un giorno emulatori deficienti che scannino bambini sulla suggestione della mia arte.

    concordo però con te nell’odio contro le censure. le migliori censure dovrebbe esercitarle l’artista, non altri, giacchè quello deve essere libero.

    Sul fatto che “Una modella magrissima è un invito all’anoressia” concordo in pieno, e ci ho scritto anche parte della mia tesi di laurea. ho anche sostenuto che gli stilisti, in quanto omosessuali, propongano un’idea di donna che piace solo a loro ed a pochi altri (vedi Kate Moss adorata da Giordano e molto ben descritta nel suo “Io odio John Updike”, che forse avrebbe potuto titolare “Io amo Kate Moss”).

    sull’importanza delle canzonette: condivido in pieno. Ma tu, anche se dici il contrario, forse non la pensi così!. perchè hai avuto bisogno di puntualizzare la serietà del tuo intervento, “giustificando” il ricorso alla canzonetta, se questa pensi sia veramente “seria”?

    Ho litigato a suo tempo con Raboni, perchè ritengo che Vasco Rossi sia molto meglio della gran parte dei poeti del 900 italiano, che si fanno i pompini a vicenda e nessuno li capisce, tranne loro stessi nei circoli letterari. La Merini mi diede ragione in pieno. Ed infatti con i suoi testi si sono realizzate delle belle canzoni.

    Ma, ripeto: l’arte non è “seria”, per me. Semmai, è molto puttana. Seria è una violenza su una donna, un bambino, una persona fragile. seria è la vita, e non certo la sua “rappresentazione”.

    Infine: parafrasando Nanni Moretti in “Caro Diario”, ricorda che “Baudrillard, in fondo, non è poi così male”.

    saluti
    henry

  13. @ Henry

    Non volevo buttarla in politica. Avevo ben compreso il senso dello scrivere, estremo, passionale, di Tedoldi. Evidenziavo semplicemente una contraddizione. L’affrontare cioè un discorso assoluto, sull’indecidibilità che si affida al caso, e sul senso di dolore e di sofferenza che ciò crea, cercando esempi in situazioni reali che invece sono, in una certa misura, decidibili. Possiamo prendere decisioni anche senza essere esperti di una determinata materia, cercando di convincerci sulla base di argomentazioni, storia o simpatia di un gruppo di persone “tecniche” di cui ci fidiamo. L’incapacità di decidere del protagonista del racconto deriva dalla sua rinuncia a conoscere. Rinunciando alla conoscenza l’uomo è incapace di scegliere in base all’istinto. Perché l’uomo non è un animale istintuale. Quindi non gli resta che affidarsi al caso. Ma la rinuncia stessa alla conoscenza è già una scelta. L’essenza dell’umanità sta nella conoscenza. Il discorso artistico, ammesso e non concesso che abbia a che fare con lo scrivere, col narrare, è interrogazione del mondo attraverso un linguaggio. Né più né meno di quanto non faccia la scienza. Solo che la scienza è riproducibile, mentre l’arte quando viene riprodotta perde la sua “aura”.
    Sono le contraddizioni della vita che provocano il senso di sofferenza, sempre soggettivo. Risolvere o non risolvere le contraddizioni implica già una scelta, e ogni scelta è un’assunzione di responsabilità.

    @ Gemma

    Non esiste un reale separato dal modo in cui noi umani ci esprimiamo. Il mondo è (de)scritto dalle parole, dai vari modi di circoscrivere asintoticamente delle unità culturali. Tutti i modi espressivi di parlare di noi, o del mondo, o del nulla, o di non parlare, non sono altro che una cartografia dei concetti, delle ipotesi che la nostra mente si crea per interrogare il mondo e rilevarne le risposte. Non ha senso quindi parlare di reale, irreale, vero, falso, verosimile, in relazione all’esprimersi in un linguaggio più o meno naturale.

  14. Chinawsky, hai ragione: Vasco Rossi valentino molto, in poesia. In prosa un po’ meno.
    Complimenti a Tedoldi, il suo è il miglior esordio dell’anno, non c’è proprio storia.

  15. @ Henry

    Le mie sono provocazioni, quasi sempre, ragiono per eccessi, per giustapposizioni che sembrino meno assurde di quanto appaiano, per prima a me (Baudrillard e molti altri analizzano i fenomeni che successi di marchi come quello citato semplicemente rappresentano e inducono… Anche se credo fortemente che la moda, più di tutto, venda illusioni, sogni, inganni e ci riesca in pieno, se vedo in giro ragazzi ben contenti di avere sul posteriore la scritta “RICH”, ragazze ancora più contente di avere sulla t-shirt la scritta “BITCH”…).

    Interessante il tuo discorso sul canone estetico femminile anoressico come risultato di un immaginario nemmeno maschile ma omosessuale. Credo che molti non sarebbero d’accordo, ma in parte forse è vero, un corpo femminile piatto non è così dissimile da un corpo maschile. E’ una donna-manichino, una donna defemminilizzata. Uno dei primi sintomi dell’anoressia infatti è l’amennorea, spesso, cioè la rinuncia del corpo e dell’inconscio alla fertilità e alla procreazione.

    Su Vasco Rossi (e in generale sulla poeticità di alcune canzoni e di alcuni cantanti pop, magari in modo inconsapevole) concordo pienamente. La poesia è innanzitutto rivelazione, squarcio, è la stessa forma breve che impone un procedimento (intellettivo) siffatto. E certi versi di Vasco Rossi sono vere rivelazioni. Per quanto ieri sera abbia visto Aldo Busi in tv, alle Invasioni Barbariche, spiegare con un certo sdegno a Povia (altro “poeta” pop) cos’è esattamente la poesia vera, perché non va confusa con quell’afflatino da canzonetta pop, e pur avendo apprezzato “I bambini fanno oh” un anno fa – la sua canzone sui piccioni di quest’anno molto meno, ero molto più in accordo con le posizioni di Busi che con quelle di Povia che ribadiva di essere un poeta popolare, di cantare la poesia delle cose semplici, e che cos’era la prosodia?, non contava, ma va’… Quindi sì, Vasco Rossi ha scritto decine di versi che sono innanzitutto poetici. Allo stesso tempo è male, per me, tirando le somme, che per la moltitudine la poesia contemporanea e spesso la poesia tout court sia soltanto quella che passa per Radio Dj.

  16. (Per appuntare un’altra riflessione di Busi decisamente condivisibile: a Selvaggia Lucarelli, inorridito dal fatto che la chiamassero “scrittrice”, Busi spiegava, incazzandosi a ragione, che se lei era una scrittrice, allora lui cos’era? E Shakespeare, ancora di più, cos’era? Ribadiva che bisognerebbe imparare a differenziare tra “autore” e “scrittore”: l’autore alla Baricco che scrive per un mercato contemporaneo e lo scrittore tradizionalmente inteso, che scrive per sopravvivere, circolando nei mercati rionali più che in quello letterario. Ero d’accordissimo anche in quel caso. Più che “scrivere di più, scrivere tutti”, in Italia bisognerebbe “pubblicare meno, non pubblicare tutti”, costringere il talento e il desiderio a confrontarsi col tempo.)

  17. Gemma dice: “pubblicare meno, non pubblicare tutti, costringere il talento e il desiderio a confrontarsi col tempo”. sono più o meno le stesse parole che ho sentito dire a Vanni Scheiweiller, per anni, e le condivido in pieno.

    Ma comprendo il desiderio di essere riconosciuti, accettati, apprezzati, amati come scrittori o autori, artisti o letterati. E tale desiderio, nel mondo di “marche” in cui viviamo, e’ ancor più lecito. Oggi il “chi sei” equivale al “che fai” nella vita, e la prima marca sono il nostro nome e cognome, perennemente giudicati, valutati e scelti da amanti, fratelli, amici, banche e poliziotti che ti chiedono il documento, creando un’immediata classifica di valore. E tu sei Bulgari o Montebovi, in funzione di cosa fai; e non fai lo scrittore se non pubblichi, non fai il pittore se non mostri quadri, non fai l’artista se non sei pagato per questo.

    Quindi: se un artista non propone la sua arte, come fa oggi ad “essere” qualcuno nel mercato della vita?

    D’altra parte, la scrittura è un lavoro lento, direi quasi secolare. Bisogna quindi aver più pazienza e minore ansia di visibilità… ed inoltre, spesso il preconizzare con grande anticipo uno stile, una forma, una modalità espressiva, è la caratteristica del genio. Il quale, proprio per questa sua peculiarità, spesso viene maltrattato dai suoi contemporanei. E, quindi, non sa mai se è un fallito artista o una persona destinata a scriverne la storia, dell’arte.

    Alla categoria degli autori (per il mercato contemporaneo) e degli scrittori (per il mercato rionale) occorrerebbe aggiungere quella degli amanti della scrittura, che scrivono per il solo gusto di leggerla dopo averla creata, per sentirne il carezzio sottile nell’anima, senza alcuna ansia di pubblicazione, di esternazione, di riconoscimento. Questi godono delle proprie creature, e di esse stesse si compiacciono a sufficienza da non desiderare altro che la propria libertà espressiva, altro che la libertà di godere della propria arte.

    Ed accade che (raramente) proprio da questa categoria ne derivi un’altra, quella dei geni. E solo di questi i posteri leggeranno qualcosa.

    Ma torniamo nella discussione al pezzo di Giordano, che mi sembra più degno di considerazione rispetto a questi percorsi paralleli!

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