Cesare Cuscianna / Con dedica

a Gianni Biondillo
effeffe

L’UOMO DAI BAFFI BIANCHI
di

Cesare Cuscianna

Il ferro del cavallo è il più bello, tondo, largo, un vero scacciamalocchio. Più piccolo e stretto quello per l’asino. Quello del bue è curioso, una lamina di ferro da chiodare su un lato solo. Crearli è un’arte perduta.
L’uomo dai baffi bianchi era mio dirimpettaio. Per andare in bottega bastava attraversare la strada, e così mia madre non aveva paura a mandarmi. La guerra era finita da qualche anno, di lì a poco i maniscalchi sarebbero divenuta merce rara ma nei paesi il lavoro non mancava. Sembrava che quel mestiere antico il tempo non potesse prenderselo, restava fatto di ingegno, muscoli e sudore.
L’incudine nera troneggiava all’ingresso, inquadrata dalla luce del giorno come da un riflettore di scena era la prima donna in palcoscenico. Una base tripode, un tronco di quercia amputato alla biforcazione dei rami, ne sopportava il peso e il connubio era di una stabilità a tutta prova, come certi matrimoni combinati per interesse ma destinati a durare, a dispetto delle malelingue.
Secoli addietro su più maligno ceppo si era posata la testa di Corradino di Svevia perché il boia gliela spiccasse dal collo. Nel mio libro di storia l’immagine del bambino guerriero mi intristiva. Nulla aveva potuto risparmiargli l’età, appena di qualche anno maggiore della mia, neanche la morte. Per qualche motivo quel fallimento lo sentivo vicino, affidava al lancio del guanto l’orgoglio che impedisce di piangere. E mi chiedevo che destino avrebbe poi incontrato quel guanto, sospeso sulla pagina in un volo senza fine.

Ma l’ombra della tragedia non guastava il fascino dell’incudine, ne accresceva anzi la suggestione. In ogni caso su quell’arnese fiero e scuro avevano preso forma le armi degli eroi, lì era stata foggiata la lancia di Achille, la spada di Ulisse, la corazza di Cesare.
L’uomo dai baffi bianchi era però vecchio e placido, portava sempre la giacca e il panciotto grigi, come i nonni nelle fotografie, e sul ventre rotondo una catena d’orologio d’acciaio. Se ne stava a chiacchierare coi clienti o esaminava gli zoccoli degli animali, con le mani e con un punteruolo li liberava dalle zolle indurite, per meglio vedere prendeva le lenti cerchiate di nichel, guardava con occhio tondo, critico, e sempre increspava i baffi e sospirava.

Il grosso della fatica lo tenevano i due figli scapoli, Lorenzo innanzitutto, e Francesco, poco sopra i quarant’anni a me sembravano vecchi quanto il padre. In quell’aria annerita da ferro e carbone, dolciastra per afrori ed escrementi i tre si muovevano di concerto con un’intesa familiare e segreta. Una nobiltà senza insegne li rendeva superiori.

Addossata alla parete più scura di fuliggine la forgia. Il fuoco si comandava con la manovella. Una ruota dai raggi sottili ed ondulati, secondo la moda antica che ingentiliva finanche gli utensili, mediante pulegge, catena e ventola convogliava poi l’aria al di sotto del braciere alimentato a carbon coke. Sulla ruota una scritta, Patent, e subito dopo un numero, 263. La prima parola inglese incontrata in vita mia. Patent 263. Non si cancellerà che con me.
Il meccanismo era sempre ben oliato, appena vinta l’inerzia pareva correre da solo, guadagnava velocità, trovava un ritmo suo. Non c’erano rischi in quel lavoro, così di tanto in tanto mi veniva affidato. Certo di potermelo permettere perché il ferro andava scaldato alla svelta facevo vorticare la manovella, la fornace palpitava e la fiamma inebriata di ossigeno si levava ubbidiente, come il genio dalla lampada di Aladino. Avrei voluto avere forza a sufficienza da farla inerpicare sin sul tetto.
L’uomo dai baffi bianchi vigilava sornione e non mancava di vantarmi ai miei genitori, quando uno di loro capitava lì.
– È a buon punto col mestiere – diceva, ma io e lui sapevamo che quel mestiere mi sarebbe stato sempre precluso.

Il vecchio non era abituato a risparmiarsi, nemmeno per l’età. Se uno dei due figli mancava, e Francesco era malaticcio, pallido e con l’ulcera, o il momento lo chiedeva, perché contadini e bestie si affollavano tutti assieme, andava verso l’angolo della bottega dove pendevano i grembiali di cuoio e se ne aggiustava uno. Qualcuno sempre correva ad annodarglielo, lui denudava gli avambracci pelosi e bianchi, senza fretta arrotolava le maniche della camicia e della spessa maglia di lana che portava in ogni stagione. Per un attimo soppesava i pugni ed i palmi, quasi fossero mazze.

Poi i colpi echeggiavano ritmici, i movimenti erano lenti, ampi e precisi come i passi in montagna di chi non vuole ritrovarsi senza fiato. Il martello ne batteva una serie sul ferro infuocato, poi, ogni tanto, due o tre sull’incudine, a vuoto, generando un suono anomalo, leggero. Era quel tintinnio a fermare le ore nel tempo illusorio dei bambini, i rintocchi del mio orologio sereno. Privo di ogni necessità pratica, all’apparenza superfluo, aveva la sua ragion d’essere, altrimenti nella bottega ci sarebbe stato rumore, non musica. Così è l’arte, e quell’armonia mi proteggeva, allo stesso modo del silenzio.

pubblicato su Sud n°3

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2 Commenti

  1. il suo è un racconto vivissimo, che si stira lentamente sotto gli occhi del lettore, per farsi accarezzare.
    racconto che non si perde a causa di dimenticanze mnemoniche: sembra scritto al momento da quel bambino nel brevissimo percorso tra casa sue e bottega ed è un piacere cogliere la malìa dei vecchi mestieri, oggi sopita, anzi soffocata.

    p.s: l’etimologia della parola maniscalco è strettamente legata a quella di maresciallo (come dimostra anche la vecchia variante sininimica mariscalco), dalla radice mare (in inglese, giumenta) e dalla radice shall (dovere, responsabilità); indica quindi inizialmente colui che si occupa/che è responsanbile/che si prende cura dei cavalli.

    fonte:
    http://www.etimo.it/?term=manescalco

    mare/shall—> e prima della parola patent dunque, senza saperlo, lei incontrò non uno ma ben due termini in quella lingua, ma ben nascosti, sicuramente.
    spero che questo mio post non la offenda però mi ha incuriosita la scoperta etimologica.

    un saluto
    paola

  2. Salve, spero di non arrecarti troppo disturbo.. Ho pensato che si debba porre fine al silenzio dei media italiani sul genocidio in atto nel Darfur, così sto lanciando questa iniziativa: Italian Blogs For Darfur. Mi sembra che possa essere efficace l’idea delle email alle emittenti televisive, basta compilare un modulo sul blog. Se trovi l’iniziativa interessante, ti sarei veramente grato se potessi iniziare un tam-tam, in modo tale da creare un piccolo gruppo…
    Grazie.
    Fabrizio

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    People die in Darfur!
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francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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