Crossing California

Langer_Adam2.JPG  un ragionamento fatto attorno a Adam Langer, I giorni felici di California avenue, trad. Adelaide Cioni, Einaudi, 2006

di Gianni Biondillo

  
Faccio una certa fatica a parlare di questo libro. La stessa che ho fatto a leggerlo. Intendiamoci: è un romanzo ottimamente scritto, davvero un esordio straordinario, in perfetta continuità con la lunga e prolifica tradizione della letteratura ebraica-americana, che ha fatto accostare, alla critica statunitense, il nome di Langer a quello di veri e propri monumenti letterari quali Saul Bellow o Philip Roth.

Romanzo pieno di storie e personaggi, che nell’arco narrativo di poco più di un anno, in un’area geografica ristretta e ben identificata, superano la loro personale linea d’ombra e passano da un’adolescenza inquieta a un qualcos’altro, tutto a venire. L’occhio dello scrittore è attento a descriverci le nevrosi e le spesso assurde (e perciò vere) abitudini di questo popolo di ebrei middleclass di Chicago. Li insegue per episodi apparentemente scollegati fra loro ma tenuti insieme da una tecnica narrativa a metà fra le tre leggi aristoteliche del teatro e la fiction televisiva.
Tutti ingredienti, insomma, di prima qualità e tutti, in effetti, ottimamente cucinati. E dunque?

  
E dunque un eccesso di verbosità, l’uso insistito del discorso indiretto, un tono sempre troppo distaccato nella narrazione, una farraginosa prolissità descrittiva, una, in effetti, stasi drammatica che pervade l’intero romanzo (elementi, in sé, non necessariamente deprecabili, ben inteso) mi hanno posto di fronte all’enigma classico che ogni lettore che si rispetti si pone in questi casi: devo, per dovere, finire di leggerlo, oppure prendermi il diritto di mollarlo lì dove sono arrivato?

  
In fondo la letteratura non è una scienza. Posso, da critico, comprendere il valore di questo romanzo, ma da lettore ho il diritto di esercitare il mio giudizio di gusto. È un po’ quella che io chiamo la questione del “fegato alla veneziana”: è certo che, se ci piace il fegato, un ottimo cuoco, con ottimi ingredienti, potrebbe cucinare il miglior fegato alla veneziana, regalandoci una vera e propria prelibatezza. Ma se il fegato non ci piace, con tutta la buona volontà, con tutta l’applicazione e l’apertura mentale possibile, il piatto in questione resta, con vergogna e nausea, assolutamente immangiabile.

(pubblicato su Cooperazione, n. 25/2006)

 

1 commento

  1. Ho letto questo libro, e l’ho trovato piacevole; però sono d’accordo con i critici che hanno rinvenuto in esso una certa freddezza.
    Non c’è niente che non vada, qualcuno ha detto che la costruzione del romanzo potrebbe essere proposta in un corso di scrittura come esempio di costruzione narrativa .E però alla fine della lettura, seppur piacevole,un pò di delusione rimane, si ha la sensazione che manchi quel qulacosa in più:la passione?

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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