Best Of (22 May 1946 – 25 November 2005)

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wikipedia:
http://en.wikipedia.org/wiki/George_Best
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14 Commenti

  1. Gran calciatore, vita da poeta maledetto. Ha giocato poco ma in quel poco ha fatto vedere una classe immensa, fatta di genio e sregolatezza. Avesse fatto il pugile avrebbe avuto lo stesso destino di un Jake La Motta.
    In Italia è esistito, poco dopo la sua ascesa e declino rapidissimi, un suo clone. Si chiama ( ora scrive libri ) Ezio Vendrame. Gli somigliava maledettamente in campo e gli somiglia fuori, oggi più di ieri, alcool a parte, per sua fortuna.

  2. he was the best.
    yes.
    he was the best in all the world.
    yes.
    he was the strongest of them all.
    yes.
    and I cry.
    I can get no
    satisfaction.
    thanks mr.furlen.

  3. Il maledettismo è una sindrome precisa, tipicamente novecentesca, che consiste nell’ammirare chi si auto-distrugge, possibilmente in età giovanile, possibilmente possedendo un talento artistico, una speciale abilità precoce, in un campo qualsiasi purchè non sia il balletto, la sartoria, la cucina e similari, cioè purché rientri nel sotto-insieme della visione piccolo-borghese dell’arte, dell’artiscità, della “creatività”, che ti brusciano dentro e te consumano e te trascinano via con sé, capisci?
    Il maledetto degno di ammirazione maledettistica può farsi fuori solo in quattro o cinque modi:
    1) alcol & droghe & gran scopate in hotels
    2) direttamente con suicidio
    3) indirettamente con grande corsa finale in macchina possibilmente su statali americane fuori mano e di notte.
    In alternativa c’è una bella sincope, ma mai a casa tua.
    In questo modo egli dimostra inconfutabilmente di essere caro agli dei.
    Temo che, come tutti i miti culturali d’occidente, il maledettismo sia stato inventato in Francia, come del resto gli intellettuali (vedi alla voce Rimbaud e similari).

  4. Come giustamente dice Bruno Esposito, oltre a quel ‘pazzo’ di Ezio Vendrame, ce n’era un altro, qui da noi, altrettanto ‘maledetto’ e con una forte vene artistica che gli pulsava in petto, si chiamava Luigi Meroni, detto Gigi (Como 1943 – Torino 1967) e, fisicamente, un po’ assomigliava a Best. Morì a ventiquattro anni investito da un’auto. Aveva fino ad allora disputato 145 partite in Serie A realizzando ventinove reti. Ala destra del Como, del Genoa e del Torino, Meroni è ricordato per il talento sportivo ma anche per il modo anticonformista di concepire la vita fuori dai campi da gioco; personaggio a tutto tondo, non semplice campione di calcio, diventò ben presto un mito nell’Italia che stava cambiando degli Anni Sessanta. Con la maglia della nazionale azzurra – quando già, nonostante il malcontento della tifoseria rossoblu del Genoa, era stato ceduto al Torino – partecipò all’infausta spedizione guidata dall’allenatore Edmondo Fabbri ai Mondiali di Inghilterra del 1966. Meroni è stato un’ala destra (giocava con il numero 7) di notevole valore tecnico: amante del dribbling stretto, calzettoni sempre abbassati alla Sivori, non si sottraeva all’agonismo, pronto ad affrontare con tenacia, nonostante la pur minuta struttura fisica, i più tosti difensori della Serie A dell’epoca. Generoso sul campo, abbigliamento molto stravagante nel tempo libero, fortemente condizionato dal clima culturale beat in auge al principio degli anni Sessanta – ma dotato anche di un talento pittorico che avrebbe potuto farne un artista di fama – Meroni fu tanto estroverso negli atteggiamenti pubblici (un’istantanea lo ritrae mentre passeggia per strada con una gallina al guinzaglio) quanto riservato nella sua vita privata. La pressione dell’opinione pubblica fu notevole – e probabilmente al limite del sopportabile per un giovane di poco più di vent’anni che come tanti suoi coetanei amava ascoltare la musica dei Beatles e il jazz – quando si seppe della sua relazione con Cristiana, una ragazza che lavorava in un luna park e che – per andare a vivere nella mansarda che il calciatore occupava nel centro di Torino – fuggì letteralmente da un matrimonio che le era stato imposto dalla famiglia. L’immagine di Meroni, sicuramente forte per l’epoca, la sua vita in concubinato, il rifiuto di assimilarsi agli stilemi proposti dal mondo del calcio di allora, le serate passate con gli amici a bere e a ‘fumare’ gli valsero però non poche rogne culminati in alcune mancate convocazioni in nazionale. Meroni fu molto amato dalle tifoserie delle squadre nelle quali militò. I supporter granata si opposero energicamente ad una sua cessione – in cambio di 500 milioni di lire, cifra enorme per l’epoca – alla società rivale della Juventus. Nell’arco – assai breve – della sua carriera, fece a tempo a diventare un simbolo per gli appassionati di calcio; una sorta di icona di quel talento in grado di trasformare una giocata in una pennellata artistica. La sera del 15 ottobre 1967, dopo una partita contro la Sampdoria, Meroni fu convinto dal suo grande amico Poletti, giocatore a sua volta del Torino, ad abbandonare il ritiro post-gara prima del suo termine e, mentre attraversava il corso Re Umberto per raggiungere il bar che di solito frequentava fino a tardi, venne investito da un’auto e gettato sulla corsia opposta, dove un’altra vettura – guidata, ironia del destino, dal futuro presidente del Torino, Attilio Romero, allora suo semplice tifoso – lo investì per una seconda volta. Migliaia di persone, per lo più giovanissimi, parteciparono ai suoi funerali. A Meroni sono stati dedicati vari libri – tra cui quello di Nando Dalla Chiesa, “La farfalla granata” – e una canzone: “Chi si ricorda di Gigi Meroni?” degli Yo Yo Mundi.

  5. ok: il tutto sarà sotto il segno dell’effimero e della nostalgia e dell’intellettualismo da salotto, eppure… come non ricordare (e anche apprezzare) questi giovani-contro (parliamo di un’altra era) -se paragonati a quelle pappette di oggi che divengono (ancor più) famosi perchè si tatuano, si fanno crescere i capelli, poi li tagliano, si fanno la cantante di grido o la velina di turno e appaiono continuamente in TV per reclamizzare scarpe, motorini e lecca-lecca e sopratutto sono diretti da agenzie che gli dicono ad ogni piè spinto quel che devono dire, fare, indossare e come guardare nell’obbiettivo? Anch’io sono un po’ contro (se ho ben capito tashtego) questa retorica del maudit (Rimbaud lo era, Baudelaire lo era e Céline -e se vogliamo, in ambito calcistico lo era Maradona che non si è mai vergognato, con malcelato sorriso, di aver attribuito il famoso gol alla mano de dios… ; mentre, che so?, già un Sid Vicious era una marionetta): ma questi personaggi, i Best, i Meroni… cfnfesso essermi tutt’ora simpatici; sono sì stati quelli che hanno aperto la via alla (per loro) futura eccentricità a comando, ma sono pur sempre stati dei primi ed hanno rischiato almeno un poco di più.

  6. Premetto che per noi tifosi granata Meroni era un grande a prescindere, ben più di un Best qualsiasi … Dopodiché, noi che siamo vissuti sotto la cappa asfissiante della FIAT (Juve in serie B!!!) sappiamo per bene cosa voglia dire essere “giovani-contro”, e lo sappiamo per le migliaia di picchetti fatti e per i licenziamenti e per le botte (“solidarietà agli operai in sciopero” recitava uno striscione in curva Maratona durante un derby nel periodo dei famosi 80 giorni) … Meroni (al pari di Best) non era “contro”: era integrato ad un livello diverso: era la trasgressione consentita. Era la trasgressione che mantiene il resto nella norma. In fondo, il mito del maledettismo vuole segnare una distanza da un rituale che in realtà lo sta dominando (Tashtego anche questa volta ha ragione). Potremmo dire, così, per divertirsi un po’ col linguaggio, che gli atteggiamenti dei vari Best erano una estetizzazione depoliticizzante … Non bisognerebbe dimenticare che il periodo è quello dei “moti” studenteschi e operai, dove ben altri erano i comportamenti importanti e di rottura … Ma erano “comportamenti”, appunto, e non atteggiamenti. Quand’anche onesto, un atteggiamento resta sempre prima del significato. L’apparenza è oscena, l’essenza è conciliante.

    PS: vi siete dimenticati Paolo Sollier, giocatore del Perugia simpatizzante di Lotta Continua …

  7. io c’ero. zigoni. un mito della curva del verona. mi facevo tutta la fascia sinistra. dribblavo soprattutto me stesso. avevo classe da vendere. come dice quel fesso di pizzul, avevo una grande tecnica individuale. la tecnica è sempre individuale. il calcio non è uno sport di squadra. lo è per finta. il calcio è/era sport individuale. il calcio è maradona, sivori, pelè, rivera, gigi meroni, best, io, pure vendrame, keegan, garrincha, meazza, corso, zico, di stefano, ronaldinho.

  8. @tashtego. si, anche totti, perchè no. è un grande. metto qua sotto una cosa uscita su di me, per quelli che non mi hanno mai sentito nominare.ciao.

    Gianfranco Zigoni

    di Fabrizio Calzia

    Biondo “quasi come Gesù”, o come Nacka Skoglund, capelluto e ribelle come “Che” Guevara. Ecco Gianfranco Zigoni, il calciatore-ribelle degli anni Settanta, manciate di estro dispensate a volontà in campo e fuori.
    “Non condivido in pieno l’etichetta di ribelle” esordisce con una schettezza sottolineata da un accento veneto forte così “Piuttosto: è sempre stato importante, per me, essere me stesso, senza cedere a norme o convenzioni che la società, o il mondo del calcio, ti imponevano. Ne hanno dette tante, su di me, che vestivo in maniera stravagante, che guidavo macchine stupende, che amavo la bella vita. Certo, la vita è bella, perchè soffocarla? Sono nato povero e mi sono ritrovato, grazie al calcio, a potermi togliere tante soddisfazioni. Tutti i giovani, negli anni Settanta ma credo anche oggi, amavano le fuoriserie, chi non avrebbe voluto provare l’ebbrezza di lanciare una Porsche oltre i 200 all’ora? Ero e sono tutto qui, non è vero che mi piaceva fare lo strano, che volevo apparire. Ero me stesso, e potevo permettermelo grazie a Dio”
    Grazie a Dio?
    “Questo è un discorso serio, specie per uno che, come me, è cresciuto dai preti. No, non credo ci sia una vita dopo la morte, credo purtroppo che tutto finisca su questa terra. Per questo la vita va assaporata fino in fondo, come sosteneva anche il grande Fabrizio.”
    Fabrizio De Andrè?
    “Posseggo tutti i suoi dischi, ho ancora i trentatrè giri che uscivano negli anni Sessanta e Settanta. A me piace ascoltare, capire le parole. Ora ho tempo per farlo, mi sono ritirato qui, al mio paese, Oderzo, faccio lunghe passeggiate, leggo, ascolto musica e soprattutto la poesia del grande Fabrizio.”
    Nostalgia del calcio?
    “Nostalgia è guardarsi indietro, non mi piacerebbe. Il calcio continua a piacermi, non il business che lo circonda. Qui vicino a Oderzo alleno dei ragazzini in una scuola-calcio, questo è il pallone puro, a loro posso trasmettere conoscenze e valori umani. Loro, in cambio, mi infondono un po’ di quella loro purezza d’animo che va perduta, con il passare degli anni.”
    A Verona sei ancora un idolo. I tifosi ricordano la tua generosità in campo, i tuoi assist…
    “E sono passati trent’anni… La più grande soddisfazione fu quando il capitano, Sirena, in trattativa col presidente per i premi partita, seppe che avrebbero potuto cedermi: “Se Zigoni va via ci deve raddoppiare il premio promozione” Una dimostrazione di affetto e di stima dei miei compagni.”
    Prima giocasti nella Roma…
    “Due anni stupendi, un ambiente ideale e una tifoseria appassionata. Non ricevetti mai un fischio. In più quella era una buona squadra, c’erano Bet e Santarini in difesa, Cordoba regista, più qualche vecchietto: Amarildo, Del Sol…”
    Certo che per uno che proveniva dalla Juventus…
    “Sai cosa ti dico? La Juventus non mi è rimasta nel cuore, troppa freddezza, sia come società che come tifoseria.”
    Nel 1967 conquistasti uno scudetto…
    “Ma rimpiangevo i miei bellissimi anni al Genoa, la squadra che più ho nel cuore. Finimmo in serie B e non seppi evitare la retrocessione, provai una tristezza infinita per quel pubblico appassionato. Inoltre, tornando a quel 1967, fu l’anno della morte di Che Guevara, che stimavo moltissimo…”
    Perchè?
    “Ideologie a parte: uno che gira il mondo a combattere per i poveri e per la libertà è un grande uomo. In questo lo associo a Fabrizio De Andrè.”
    E negli anni Settanta?
    “Gli anni Settanta furono la maturazione di quanto preparato anni prima. La libertà, certi valori prima sussurrati, poi predicati e professati, iniziavano ad essere praticati.”
    Cosa salveresti di quegli anni Settanta? Cosa diresti, oggi, a quei ragazzi che la domenica ti incitavano dalla curva?
    “Non farei una distinzione fra anni Settanta e altri periodi. Per me sono importanti i valori autentici della vita. Oggi ci siamo, domani chissà. I soldi non hanno importanza, o meglio non ne hanno troppa, o meglio ancora, i troppi soldi non ti aiutano a vivere meglio, intimamente, dico. Credo che sia giusto essere se stessi, apprezzare ogni momento di sè stessi e del mondo che ci circonda. Ecco, questo se vuoi è lo “spirito” che ricordo divulgarsi, negli anni Settanta. Valori da non perdere. Mai.”

    Fabrizio Calzia

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Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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