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corpo esposto

Quattro anni fa ho pubblicato un libretto di poesie. Un libretto clandestino, edito da una microscopica casa editrice massese. Erano poesie che per la maggior parte risalivano agli anni immediatamente precedenti, quando vivevo in una casa nel bosco. Non le ho mai pubblicate qui, per una sorta di pudore. Qualche tempo fa le ho date a Francesco Marotta, che ha voluto pubblicare il libretto – per intero – sul suo “sito poetico” (nel senso pieno dell’espressione). Qui. A questo punto non posso far altro che imitarlo, ed esporre il corpo del testo anche qui.

Marco Rovelli, Corpo esposto, postfazione di Mariella Bettarini, Memoranda Edizioni, 2004.

In margine
(davanti alla Flagellazione
del Caravaggio
)

Il corpo ripiegato, abbandonato alla piega, esposto alla morte, ma prima ancora all’infamia dell’assedio dell’altro. Corpo che in questa esposizione espone la sua bellezza. La bellezza di chi non ha nulla da perdere, perché ha già perduto tutto, ed è solo un corpo, un corpo senz’altro, nudo nella sua esposizione, nel gesto dell’esporsi, nell’aperto della passione, del patimento. Corpo che patisce l’altro, ne patisce il legame. In questa esposizione del finito alla sua finitezza traluce il divino dell’uomo.
I suoi occhi chiusi, il pensiero muto: non ha più nulla da dire, né da dare, è solo corpo, puro e semplice, impuro e molteplice corpo che resta, tutto intero, nel gesto del sottrarsi. E’ svanimento, quel corpo in torsione, in abbandono. Preso in un gesto innaturale, perché interamente consegnato al fuori.
Sono io, quel corpo esposto. (E nel riconoscermi, non c’è più io che possa dire: ‘sono io, quel corpo esposto’…).

**********

del tempo presente
ad Acéphale

Questo tempo non si articola in parole
si scioglie come carne nella bara.
Ne rimarrà lo scheletro
se ne conteranno le ossa.

*

Reclamo la mia inappartenenza
il barbaro richiamo senza terra
l’accoglienza al vento che devasta
e libera presenza
l’occhio rivoltato al poi
il furore placato
il corpo abbandonato al suo deserto.
Reclamo l’odio senza oggetto
l’amore che ne stilla senza colpa
il tormento che abita il silenzio.
Reclamo la parola
la sua notte.
La mia riconoscenza.

*

Nel margine della guerra I

Dal cuore non si alzano croci.

Infiammano ancora
gli occhi i tuoni,
e la lingua inerte.

Non importa quanto ignoto
il limite del mondo
che sostiene un odio nuovo.

Raphel maì amech zabi almi
cominciò a gridar la fiera bocca
cui non si convenian più dolci salmi.

*

Nel margine della guerra II

In una deriva del crepuscolo
un corteo, bandiere rosse
a sventolare, io e lei
fino alla piazza.
Cinquanta persone, voci vane
nel deserto. Lacrime agli occhi.
Tutto irrimediabile.
Irredimibile.

Volto
alla chiesa lieve e visionaria.
Lacrime (le stesse)
a questa lontananza.
Bellezza violata, non colta, incolta.

La seguo.
Un canto dal fondo
sotto l’altare.
Mi siedo
nell’ombra crocifissa.
La vista si annebbia.
L’irreparabile. La redenzione.

*

Nel margine della guerra III

Ciò che è di là da venire
sta addensato e franto
in questo tempo senza tregua.
Trema una figura
al colmo della notte:
è l’ora.
Qui è solo urlo, taglio.

*

Trittico del tempo I

Ti offro la gola, e tu
non afferrarla.
Spalancati all’aperto.

*

Trittico del tempo II

Non ricordare più adesso.
Sollevati e credi
che tutto è perduto.

*

Trittico del tempo III

Non recedo (è necessario) dall’attesa
che scava le ossa e le sostiene
e mi tiene: sospeso come il sole
nel solstizio, in un supplizio
che precipita il mio sguardo
nell’abbaglio del mancarci
nel contagio

**********

la violenza dello stupore
a Varuna

Osserva il mondo dal margine.
Senza cardini né giunture.
Dall’estremità del dissenso.
Strappa le cose al sole che nasconde
alla luce che riverbera
e non rischiara.

*

Vivere al colmo delle forze
sul crimine della vita.
Non rinnegare il riso
che sta col suo segreto a mezzo.

Non avrò altre preghiere adesso.

Non ho che un tempo urlante
limpido.

*

Trittico del Sacrificio I

Mi inchioda al nome di straniero.
Mi vomita dalla bocca.
Mi riveste della sua vergogna.
Impossibile
è il nome dello svanire.
Offro il mio corpo trafitto
a nessuno.

*

Trittico del Sacrificio II

Il colpevole.
L’indesiderabile mi afferra. Mi fa suo
desiderio.
Il crocifisso.
La bava alla bocca
la demenza negli occhi.
Il boia.
Pronto il collo a sfuggire al taglio.
L’impiccato.
La lingua oscena
eretta
bianca.
Il silenzio.
Brama di morte, gioia
di un gioco sterminato.
Vomito.
Lame nel ventre,
luce abbagliante che ne sgorga.
Inferno.
Cava immensa ed eterna attesa.
Il sacrificio.
Vuoto incolmabile.
Parto.

*

Trittico del Sacrificio III

Al vostro gridare
offro silenzio.
Al vostro ringhiare verità
oppongo il mio corpo.
Al vostro sorriso
sputo e maledico.

*

L’addio prima dei tempi

Notte desolata, e noi con lei.
Nessuna comunanza, nessuna luce.
Neppure il bosco si fa sentire.
Solo smorto pulsare di luna.

*

Oggi oscura i fuochi
un cielo giallo di gesso,
parete che non offre appigli.
Non una bava di vento
(le bandiere appese:
una schiera di impiccati)
immobile il corso del tempo.
Nemmeno gli uccelli sento cantare.

Solo un gemito
nel tuo gesto,
respiro trattenuto
come da un ghiacciaio
la morena.

*

Trittico del sacrificio I

Con cocci di bottiglia, coltelli
e un punteruolo
mi sono inscritto nella carne
la carne di chi ho amato.
E’ schizzato un grido d’animale
che mi veste
quando vado a raccattare pene
infradiciato
dal mio demone, dal vino e dalla vita.

*

Trittico del sacrificio II

Potessi disseccare i miei pensieri
al fuoco d’una trasparenza
estirpare i veleni
e dar luce alle ossa
ma ho solo tagli sulla pelle
e non sono fiamme
né parole.

*

Trittico del sacrificio III

Fissa gli occhi sul mio riso,
amico che non vedi, forza
i cardini dello sguardo
(il mio, il tuo):
se qualcosa distingui ancora
in questa confusione, tra bottiglie
risate e spreco di vanità,
sappi che nel cavo della bocca
è la deriva che mi porta.
Fa’ che questa notte mi sia lieve.

*

Giorno verrà
che la tua brama ti sarà nome
e lo spasmo ti afferrerà alla gola
per farti cielo, e terra
e piuma d’incenso, e breccia.

*

Qui è il punto di implosione.
La natural burella.

Di qui in avanti
non ci si può che distendere.

La via è lunga,
il cammino malvagio.

*

Non resta che la vita,
il bordo affilato delle cose.

**********

l’occhio solare
a Mithra

Il cielo è sgretolato
(tremante dall’eco dei passi
lungo un sentiero nascosto).

Non oltre si fa l’eco parola
(non oltre risuona).
Un sussurro spalanca quest’eco.

Un soffio di voce incendiata
sgretolato da piccoli passi.
Più avanti! Non oltre! Che nulla più
accada!

(Nel roveto è l’antico fuoco
e la rosa abbagliata
dai nostri passi di fango)

*

Trittico della terra I

Si è affilato il suono che dissipa
il sovrappiù che non conosce pena:
quello sei tu, ripete la parola
come fuoco avvampa
e non consuma.

*

Trittico della terra II

Nel profondo radicarsi – e intorno
corona d’alberi puntati a un cielo
informe.
Abbarbicato a terra,
l’occhio disciolto in luce.

*

Trittico della terra III

Su questa terra
attendi il tempo dello stare.
Da questo fico
lo stillare di nettare,
d’aurora.

*

Canti per lo spegnimento I

Canto bosniaco

Giorno assolato di ultima cena
non fare che il cielo si oscuri
(trafitto da chiodi, da spine)
rimani nel gesto
di prodiga luce

Rispondi in un solo silenzio
che tutto contiene
e nulla vuol dire
lasciarsi
morire

*

Canti per lo spegnimento II

Canto a Krsna il divoratore

Sradica le mie speranze
dissolvi i miei legami
distruggi, fanne brani
sprofondali nell’occhio di uragano
trapassa il mio cranio
con la tua tremenda mano
fanne fodero ignoto
della lama infuocata
del tuo vuoto.

*

Canti per lo spegnimento III

Canto per la partoriente

Se è tuo anche il dolore
come potrò gridare
senza essere travolto dal tuo gridare
e abbandonarmi
come un cadavere al fiume?

*

Avere il senso
nelle cose che sono
percorrere il limite
del pieno e del vuoto:

nel Due che è solo Uno
(nello Zero che è regno
di Nessuno)

*

Al monte Tambura

La tua roccia è lieve
come le cose eterne:
spreme dolore
ne fa vapore entro lo sguardo
battito di ciglia
che fa compiuti i tempi.

*

Non scavare l’assenza
che sfugge alla breccia.
Sta nel cavo del corpo e non chiama
altra luce.

*

Tutto crepita.
Il cipresso in fondo alla piana
si carica dei voleri della terra
li solleva in alto
cantilene puntate verso il trasparente
abbaglio del cielo.

Eppure tutto si offre
immobile alla vista.

*

Non più tremore, o notte
nel teatro troppo pieno dello sguardo.
Sfonda il senso che esplode
nella bocca, apri la gola
con taglio di rasoio, libera il grido
che non conosce luce.
Accecati nel bagliore dello sguardo
muto, nel suo tremore,
o notte.

*

Mehr licht

Nell’attesa
(l’orecchio alla porta chiusa)
ascolta lo sguardo che invoca
‘più luce!’
che chiede l’arsura
la sete.

*

Eppure sto legato a questa vita.
Alla sua Meravigliosa vanità.
Alle sue faticose Verità.

**********

delle parole
a Theuth

La tensione dello scrivere.
In punta di sedia
poca luce al centro del buio.

Divina lingua dei guaranì
che ha una parola sola
per dire “parola”
una parola sola
per dire “anima”.

*

(lo sfondo, assente):

la parola a fuoco sull’interiore
occhio della dismisura
e dell’aderenza:

la parola che sfugge all’esteriore
occhio giudicante
che misura la distanza:

Se avanzano le cose le parole,
doglia, superbia e l’ignoranza vostra
stemprate al fuoco ch’io rubbai dal sole.

*

Condensa il pensiero
e fallo implodere,
dici con un gesto.
Dissolvilo nell’acido
con dolcezza…

Ma il pensiero sta nei bordi:
che non sia troppo sfrangiato
non si ficchi nella carne
come ruota dentata.

*

Scrivere lo zero per simboli.
Confessare l’inconfessabile per figure.

Di fronte all’inadeguatezza delle parole
si scelga una costellazione
e la si costruisca logicamente…

Rendere le figure chiare e distinte.

*

Per abolire tutte le immagini
disponile in nitida forma.
Fanne una scala
montaci sopra
buttala.
Ora.

**********

al dio di agar

Era la schiava di Sara, moglie di Abramo. Fu costretta ad accoppiarsi col vecchio Abramo perché questi avesse una discendenza. Rimase incinta. E Agar l’egiziana seguì l’umano istinto di rivalsa sulla padrona. Cominciò a guardarla con disprezzo. Allora, con il permesso di Abramo, Sara trattò Agar con durezza di padrona. E Agar fuggì nel deserto, e nel deserto si perse.
Un angelo la trovò presso una sorgente d’acqua. Agar udì la sua voce. L’angelo conosceva il suo nome, e le domandò il senso del suo tragitto. Torna dalla tua padrona, le disse. Poi le mostrò la sua discendenza, che sarebbe stata smisurata moltitudine.
Ismaele, ‘Dio ascolta’, sarebbe stato il nome della creatura che aveva in grembo. Egli era il segno che Dio aveva ascoltato la sua afflizione. L’angelo soggiunse: “Egli sarà tra gli uomini come un asino selvatico; la sua mano sarà contro tutti, e la mano di tutti contro di lui; e abiterà di fronte a tutti i suoi fratelli”.
‘Atta-El-Roi’, Tu sei il Dio della Visione. Così disse Agar alla sua visione. La seguì, e fece ritorno. Ma poi, ancora, riprese la via del deserto, e ancora fece ritorno. E così per sempre: in questa erranza Agar sarebbe rimasta, a questa erranza Agar si sarebbe abbandonata.

**********

memorie a venire

Salamandra

Sono gli occhi a paralizzare la lingua, a incenerire sul nascere le parole. Una linea di fuoco, ponte gettato tra gli occhi e il mondo, solca lo spazio davanti, lo incendia – e in questo calore il silenzio.

Vir desiderium

Poi fu il desiderio.
Riprodurre la trama del velo infuocato steso davanti agli occhi. Squarciarlo, fino al punto silenzioso dove s’irraggia lo sguardo. Dove lo sguardo è puro, senza oggetto.
Allora la scrittura fu abitata.

Theoria

Occorre fare come l’arciere, che punta verso il sole per centrare il bersaglio.
Che quel fuoco impenetrabile si apra un istante – come tra le acque del Mar Rosso la Terra Promessa.
Che gli occhi sempre più sottili si arrovescino, ed escano dalle orbite. Che sia punto di fuga uno sguardo immenso, il più profondo e superficiale. Che tutto veda, e nulla ricordi, né speri.

Anima mundi

Pesci ciechi in un mare di luce, mossi da onde senza forma… Su un fondo assente anneghiamo, in un soffocamento senza fine, invocazione senza dio…
Ma (qui, adesso) possiamo danzare… essere la forza delle onde… E se le onde sono luce, è solo per la nostra caparbietà d’assoluto… per la volontà di danzare… di farci flutto in ogni mare…

Traccia

E’ un grande buco nello stomaco, come non mangiare da giorni e avere una fame da metter sotto i denti cibo per cani e carne di topo, e celebreresti e ringrazieresti. Ti abita una fame sterminata. Nessun cibo ti sazierà.
Non per questo sei dannato. Tutt’altro. E’ lì che dimora la salvezza. Occorre porsi al centro di questo buco, e non pensare a mangiare. Solo stare in questa mancanza spropositata. Farsi succo gastrico – e un succo gastrico non ha fame. Divenire il proprio stesso stomaco affamato, e stupirsi e celebrare quando calano giù dall’esofago bocconi di cielo, nutrienti pani senza lievito da gustare nella perfetta solitudine per riconsegnarli all’assoluto caos dell’universo.
Allora, nutrito da un miracolo, vedi l’eternità dell’istante, la tua morte, e il cuore esplode di gioia, ché tutto intorno è pane, e lievito.

Sunya

Scomparve nel bianco delle pagine, per farsi pietra, obelisco, frammento di cometa perso nello spazio, e diede vita alla sua danza più bella.

Excessus mentis

Fatti granello di polvere, per essere luce.
Che la tua vista annebbiata possa confondere una rosa bagnata e un rasoio tagliente, il cielo vuoto e un ansimare di cane stremato, il volto immacolato della vergine e le frustate inflitte al corpo di suo figlio.
Allora non esisterà testa, ma solo membra luminose di quelli che un tempo erano corpi, i corpi dei cadaveri che nutrono la terra, linfa vitale, prima energia d’oblio, e quelle membra verranno a comporre miriadi di meravigliose figure, costellazioni sempre diverse in perenne divenire, e quelle immagini si confonderanno, trapasseranno l’una nell’altra fino a sparire, e così sarà per sempre, sistole e diastole nell’eterna eternità.

Cenere

In questo interminato mutamento, cieco è il punto di fuga.
Là siamo occhi, fiori di fuoco in una massa di lava e diluvio, immenso vortice di energia verticale che ci scaglia nella cavità ricolma di luce degli angeli, dove la purità assoluta è assoluta sozzura.
Nel cavo della luce gli insetti più schifosi vedono colori che gli umani non sanno.
Gli angeli ci sputano fuori, della nostra polvere ricoprono il mondo, un bellissimo nulla per il nostro sacrificio.

Luce

Là è squadernato il mistero, sulla superficie del mare, ora che l’ultimo sole crea un serpente di luce, fiammelle che balzano da un’increspatura all’altra, senza farsi afferrare, e man mano che si allontanano dalla riva si fanno sempre più fitte, e vanno a confondersi in un solo, grande fascio di luce, fino a formare un immobile punto luminoso, splendente, invisibile, e gli occhi si chiudono per il troppo bagliore…

Zero

Dimentica tutto, tranne le tue visioni.

**********

Credibili ‘verità’
di
Mariella Bettarini

Raccolta di testi (poetici, ma non solo) irta, ardua, talora persino spietata con se stessa, questa “opera prima” di Marco Rovelli. Testi di forte pensiero: non solo (e nient’affatto), dunque, testi poetici, se per “poetici” s’intenda lirici, effusivi. Niente lirica, qua. Di lirica non c’è bisogno, mai, in una “erranza” così, in una congiuntura tanto acuminata e feroce, mai consolatoria. Profetica, anche, per via delle molteplici strade di (buia) luce, per via della molta luce (oscura) che permea queste pagine, il cui epilogo “a venire” è – non a caso – (e in prosa) di taglio frammentario, aforistico, “visionario”, sapienziale: “Scomparve nel bianco delle pagine”; “Allora non esisterà testa, ma solo membra luminose di quelli che un tempo erano corpi”; “(…) e vanno a confondersi in un solo grande fascio di luce, fino a formare un immobile punto luminoso”; “Dimentica tutto, tranne le tue visioni”, e si potrebbe continuare a lungo.
I testi in versi si muovono seguendo spesso un andamento “ternario”: “trittici”, tre canti (“trittico della terra”, “trittico del sacrificio”; “tre canti per lo spegnimento”, ecc.) ove – ancora – sono i temi duri, forti, “sacrificali” della terra, della luce, del fuoco, della carne, della morte ad empirsi (e ad adempiersi) di senso e significato, mediante significanti spesso di non immediata “leggibilità”, di non sempre semplice e diretta “presa”: “Sradica le mie speranze,/ dissolvi i miei legami,/ distruggi, fanne brani” (da “Tre canti per lo spegnimento – II”); “(…) mi sono inscritto nella carne/ la carne di chi ho amato./ E’ schizzato un grido d’animale/ che mi veste” (da “Trittico del sacrificio – I”), e così via. Presente, nella raccolta, sempre, il segno, il sigillo della contraddizione: quella di chi “osserva il mondo dal margine” e insieme vive “al colmo delle forze/ sul crimine della vita”. Contraddizione indispensabile, feconda, se non si vuol fare di sé, della vita, della parola fantasime insussistenti, paurose insignificanze. E’ che – insieme e poi – non si può “rinnegare il riso/ che sta col suo segreto a mezzo”.
Ecco: contraddizione, riso mi paiono essere le credibili “verità” (ma senza esclamanti euforie) dell’esprimersi di Marco Rovelli, della sua coraggiosa, lucente/notturna “erranza”, offerte ad un altrettanto indomito lettore.

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5 Commenti

  1. Sai già come la penso sui toi scritti poetici,
    densi di visioni,
    carnali come può essere il dolore
    quando viene SENTITO
    e luce,
    quando viene accolta.

    ciao Marco
    C.

  2. Mi associo a Bettarini ” coraggiosa, lucente/notturna erranza” la tua, che ci impegna, al meglio.

  3. quanto mi piace questo ragazzo. Gli consiglierei però, nei suoi articoli appassionati, di non usare avverbi trissottini quali “dopodichè” o “laddove” che mi urtano parecchio

  4. Grazie Chapucer, grazie Nadia. Grazie anche a te massey (però, posto che quanto a congiunzioni sono uomo all’antica, mi chiedo, non sarà più trissottino usare la parola “trissottino”?;-)

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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