La stele

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di Tommaso Ottonieri

Prima che la pioggia riprendesse a battere. Prima che, e nel silenzio dei pianeti, fossimo dispersi. Prima che fossimo dispersi: e nel tempestare di costellazioni, sullo specchio che lascia pattinarci, lo stridere di lama sul vetroghiaccio mugolante, prima che il manto si sollevasse a onda, a raggio, per rivoltarsi qui su noi, a interrare. Prima del ruggito delle madri, o che i fiori di cavolo spuntassero tutti insieme, digrignando i dentoni in un immenso plop, e ciondolasse la corolla, come eiettata dalla scatola a molla, proiettata su noi: qui su noi: noi, a cerchio sullo specchio, lo specchio della piana, noi pattinando, lama dietro lama, prima che la pioggia riprendesse sul duro del piano il tintinnìo crudo, a punta, dei minuscoli cristalli.

Ciascuno, a giro, percosso dalla miriade delle trafitture, scorrendo interroga lo srotolarsi del destino. Il destino occhi-di-ghiaccio, accovacciato sui polpacci pingui sopra la conca dal centro zenitale, il gigante slavato che soffia torcendosi in senso orario, inesorabile, gonfie le gote, protese a U le carnosità delle labbra, incanalandone il grasso del fiato: il destino che spira sovrappeso, dal disintegrarsi della carne: il suo ologramma, a specchio, che a pioggia, che sfarina. E non c’è riparo, no, se non sotto la fronda del più alto gelso, che sbatte l’impaccio delle ali nell’urto, a scatti, dell’ululare di civetta, quando il soffio più gelido si accende, una striscia di alcool che prende fuoco sottilissima, serpeggia a mezz’aria come frusta di domatore, nella gabbia della cieca ricezione nella voliera delle interferenze di titanio, e quello che vedi, sulla coda, sulla punta, è lo spalancarsi dentato di placente pronte a digerirti, sull’uno e l’altro capo della fermata di capitan Destino.

Sì che, non puoi più voltarti indietro, per scrutare. Una tempesta di lame laser, a elica, ti taglia via, da quello che tu hai creduto il tuo passato, da quello che tu hai sentito il tuo futuro. Solo il presente, che trema, che solo implora di allargarsi, solo ricerca le fondamenta d’uno spazio. E se ti sposti di un millimetro da quello spazio che si assottiglia ogni secondo di più, se non ti appiattisci dentro la bolla d’aria, nel cuscino che ancora ti protegge dal ronzio delle lame, nulla più rimarrà della tua palpebra. Occhio di perenne sbarrato al prodursi del vuoto oltre le lame. Battito retroverso, già sottratto al suo specchiarsi. L’arteria singultante, mentre tremi al crudo espandersi dell’occhio, l’arteria, a spruzzo, netta si recide al tuo guardare.
Ma invece, prova a fermarti sotto il gelso almeno per un attimo. Prova a resistere all’ululo della civetta, che proverà a scoraggiarti nell’intimo delle fibre. Reggilo, poggiato l’orecchio allo scortecciarsi del tronco, a snudarti la linea delle fibre, da cui il tuo occhio dovrà suggere la goccia, l’essenza sconosciuta della linfa. Il cielo stesso sembra aprirsi, per un attimo, mentre la goccia si distacca, la pupilla si dilata, un vortice si trapana dalle viscere al vuoto, sul lembo interno dell’aria.

§

Dopo che ebbe sconfitto il dèmone delle nebbie e degli inganni, il dèmone dei canali e delle acque sepolte se ne stette appollaiato sulla cima del più largo dei gelsi, a controllare che nessuno dei bozzoli si schiudesse prima che la lama di goccia, la più impalpabile, non si fosse confitta a piombo, ritta sul manico, ai piedi del fogliame imbozzolato, aprendo il terreno col suo calore fulmineo verdelaser. Una solitudine gravida d’occhi avvolgeva il sostare del dèmone nel giro stretto dei velami, che si sarebbero dischiusi al contatto della seconda lama di goccia, d’una tempesta pesa di gocce rade, nette, a piantarsi a perpendicolo nel cuore delle sete come scagliate dai frombolieri del cielo: che pure, sospesa che restava la nebbia sulla conca senza uscita, ucciso colui che avrebbe potuto ingoiarla almeno per un attimo e sia pure per esalarla più fitta, più impenetrabile, non ricadevano adesso a purificare ma piuttosto a mescolare la materia in una polta imperscrutabile.
A mescolare la materia in una polta imperscrutabile: che tesseva su ogni contorno, e sui limiti del dattorno visibile, uno schermo sottilissimo, elastico, e forse tinnante, una trama composita impalpabilmente cucita di lenti e campanellini, che avrebbero frusciato a ogni soffio del dèmone, avrebbero suonato e soltanto per lui un’armonia scomposta di multiple visioni, luccichìi d’immagini sdoppiate, dorate ombre che approcciassero il loro innumerevole sbordare, lo sfarfallìo dei magneti sul fugare dei corpi, il coagularsi in dissolvenza: come se l’inganno, morto il suo dèmone, si librasse impazzito sopra l’aria densa, ricombinando i suoi cristalli dentro quel caleidoscopio che, senza filtri, era il nostro mondo.

Adesso, il chiuso del cielo, la nebbia avvolta nella membrana del cielo, sfrigolando di bagliori verdastri, gocce senz’acqua, aghi di luce intersecantisi nella tempesta dei circuiti, pareva covasse finalmente il segnale, che il dèmone, emerso dal profondo ciclopico della città d’acque, aveva atteso per secoli: che solo adesso si schiudeva, seppure indiretto, tra il lancinare tutto delle visioni, indotte dal digiuno ch’egli aveva dovuto imporsi sotto la cecità d’un cielo che non corrispondesse. Il raggio verde, a riattivare il suono: quello per cui sarebbe stato possibile trovare la porta ancora per l’attacco del cielo, per la conoscenza degli astri a cui tornare, prima che fossero già esplosi, e dei loro alti acquitrini.
Di colpo la pioggia si trasformava in grandine, e i grani subito si rallentavano quasi fossero un soffice di neve, e stampavano ai piedi del gelso replicatamente segni che parevano alludere a un alfabeto sconosciuto: così i fiocchi prendevano a solidificarsi, al contatto del terreno, in un cozzare di ciottoli che portassero inciso ciascuno un segno degli stampati sul terreno. Quasi che un laser invisibile, proiettato dalle viscere del suolo, avesse provveduto a incidervi minutamente gli schematici segni dal cui infinito combinarsi sarebbe dipesa la risalita alle viscere, il canale scavato nell’aria che conducesse ai pianeti d’acquitrino: di cui, sepolta, la città, non era che il calco, il rovescio: il friggere cavo del buio, nell’incertezza interferita della semiluce. E il ridisporsi dei destini per il popolo che avrebbe levitato sul catodico, come, verdastro del canale, la porta celeste degli abissi, che nella cortina, ancora tarda a schiudersi, avrebbe teso il suo dio inferiore.

Dal ventre aperto di là dal grande gelso, quando tace l’urlo di civetta, e il grillo trema sotto il filo d’erba senza strìdere, dal fosso schiuso nel molle della terra, lui ha tratto la làpide, la stele, su cui senza posa liquida la crudità delle sue rune s’incida come su un lcd lunare, uno schermo a cristalli diafani di rocca, un vorticare numerico di schegge e taglientissime: s’incidono e cancellano, saturando la superficie della pietra, in un intreccio di sottilissime accensioni, e procedendo da sinistra verso destra, dal basso verso l’alto, diffratto il dritto della linea, in figura di 4 rovesciato.
Una tempesta di segni emersi per dritto e per rovescio, asimmetrici gli uni agli altri, indicando, dal senso in cui s’incidono, significazioni inverse.
E di faccine emotiche, random, scindendosi all’accendersi lo spegnersi; e l’alternarsi, delle due sole cifre, ad affiorare in trasparenza se la stele, per una frazione di secondo, prende a tacere, e il suo cuore azzurrino di luce a pulsare più fioco, come regredendo al puntiforme, come nell’improvviso del blackout: ma, senza spegnersi. Così, per cadenze aperiodiche, rispondenti a una ritmica inconosciuta ma non meno pulsante, il saturarsi di rune disposte in scale a 4, a 5, cicliche, incise, bemolli ottici a ferire lo sbattere di pàlpebra, il chiuso-aperto della rètina che ne avesse approfondito il taglio: così, nell’intermittenza imponderabile e senza chiave del codice, è il disindividuarsi stesso della mappa che traspare: intersecatisi i segni, le tre rune del tempo, da sinistra a destra, dal passato al futuro, da sopra a sotto, degli ostacoli insormontati, della direzione da intraprendere, e che illuminano la conoscenza del destino: il senso della nostra stessa missione!
Tutto, che stralùccica, per ogni verso si spegne, quando, la mappa, il suo sciogliersi dalla stele alla volta, il raggio che il dèmone stende verticale, sbieco, verso la cappa, a squarciarla, è la scala stessa della vita: e, la sua intermittenza, la diffrazione del destino.

Sconfitto il dèmone degli inganni, appollaiato sulla cima del più largo dei gelsi, controllando il dischiudersi dei bozzoli, il dèmone del sottotraccia sfociato a indicare a noi il suo mandante metafisico, il segnale che sta esplodendo sui bulbi del riverberante telespazio, a uovo verso la cavità d’un cielo che su di noi spalanca la sua gola, soffiando. Un popolo si fermenta, bardato fino ai denti a lotta, dei suoi acquatici finimenti gladiatorii, e sotto la crosta lievita la carne, libera alla strada del cielo le sue scaglie. Nelle onde-rumore del lago morto, acqua virtuale a sciaguattarsi su un canale senza sintonia, nell’acqua sepolta invertitasi, crespa, per la cecità del cielo senza fine, un popolo senz’occhi sale la scala d’un destino che soffia, soffia forte e si sfalda a grado a grado.

[Il brano è tolto da: Tommaso Ottonieri, Le strade che portano al Fùcino, Le Lettere, collana «fuoriformato», Firenze, 2007.]

 

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7 Commenti

  1. Solo perché l’ascolto è sacro, ho condotto a termine questa lettura. Non c’è però un fraseggio, dico uno, che sia memorabile. Cosa dovrebbe rimanere di questi esperimenti e dove ci conducono se non alla fine della letteratura?
    C’è stanchezza, nascosta dal feroce possesso degli schemi letterari. Credo.

  2. Tutt’altro che stanco questo terreno, fertile di immagini e della profezia che spesso si annida fra le trame di inconsci e scritture automatiche.
    Ed anch’essa ha bisogno di attese e decantazioni per diventare -perché no?- memorabile.

  3. Ottonieri

    il destino di così squillare i tasti delle parole, di modularne con diversi fiati il tono è gia nel nome.

    ,\\’

  4. caro lettore di nazione indiana:
    leggi i testi di T.O.
    non leggere i testi di T.O.
    puoi scegliere.
    non sparare a zero se non hai letto. con attenzione.
    puoi scegliere.
    vedremo, tra qualche anno, se avrai fatto
    la scelta esatta.

  5. Caro mich, grazie dei consigli.
    Ho letto con attenzione.
    Tra qualche anno potrei essere morto.
    Preferirei dire adesso quello che penso.
    O no?

  6. consiglio di reperire “dalle memorie di un piccolo ipertrofico” del grande tommaso, appena ripubblicato – dopo quasi trent’ani di latitanza – da noreply, nella collana maledizioni.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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