Sotto i colpi del generale Inverno

La drammatica campagna di Russia rievocata da Mario Rigoni Stern e da tanti altri testimoni diretti nel volume «Ritorno sul fronte» appena pubblicato da Transeuropa

di Angelo d’Orsi

A chi ci chiedesse quale sia stata la guerra peggiore della storia italiana, saremmo in tanti a non saper rispondere se non con difficoltà. Senza sicumera, ma con cognizione di causa Mario Rigoni Stern ha la sua risposta: la campagna d’Albania, nel secondo conflitto mondiale. Ma la «guerra più drammatica di tutta la nostra storia» fu quella di Russia. Sul tema, come è noto, egli ci ha dato, nel lontano 1953, quello che Giuliano Manacorda definì «forse il testo più alto» ispirato alla guerra mondiale, Il sergente nella neve. Ora, Rigoni Stern ritorna, per così dire, ancora una volta sul Don dopo molti altri scritti, in un’affascinante conversazione con Giulio Milani, che apre un libro di testimonianze, l’ultima delle quali con Hermann Heidegger, figlio del grande Martin. Il libro inaugura la collana «Margini a fuoco», diretta da Marco Revelli e Marco Rovelli (non è uno scherzo!), per le edizioni Transeuropa che, legate al nome del compianto Pier Vittorio Tondelli, si rilanciano ora con un bello sforzo innovativo in libreria.
Ritorno sul fronte, a cura di Giulio Milani (pp. 155, euro 10), è l’efficace, semplice titolo di questo libretto che lascia parlare chi in Russia, ma spesso anche altrove (in Albania, o in Grecia), andò, e vide morire centinaia o addirittura migliaia di commilitoni. La tragedia della guerra, emerge, nella sua vivida crudezza, in queste «confessioni», che, naturalmente, rivelano diversi punti di vista, ideologie, giustificazioni, o, piuttosto, tentativi di giustificazione. Ma le «guerre del duce» sono ingiustificabili per definizione, e specialmente Rigoni Stern, con la sua saggezza che è anche competenza militare – in fatto di strategia, di armi e munizionamento, di organizzazione tattica -, ne fornisce, nelle pagine d’esordio del volume, un quadro che ci mostra l’insipienza dei comandi militari, le debolezze degli uomini ma anche i loro «eroismi», l’arroganza stolta dei capi politici, a cominciare da quel Mussolini che si riteneva (e gli altri fingevano di ritenere) un grande condottiero.
Perché dunque fu la più drammatica di tutte le guerre, anche di quella albanese, per tanti aspetti peggiore? Intanto, per la lontananza e l’enorme estensione di quel territorio che solo a pronunciarlo faceva venire i brividi: erano le terre del freddo, le terre da cui era difficile sperare un ritorno: un paese sostanzialmente ignoto, mitico -e ancor più mitico dopo la Rivoluzione bolscevica. Un mito che si sarebbe poi tradotto in letteratura: sulla penosa guerra d’Albania (la peggio condotta della storia italiana, per Rigoni Stern) non ha scritto praticamente nessuno, mentre sulla Russia abbiamo una quantità di opere. E di questo fatto storico che si è tradotto in fatto letterario, in fondo anche questo libro che si muove tra storia e memoria, tra letteratura e analisi, è un estremo prodotto.
Ancora di recente ci è capitato di sentire che la guerra contro il nazifascismo fu vinta dagli «alleati» (ossia Usa e GB), o sbrigativamente, «dagli americani». Ai sostenitori di questa tesi, Rigoni Stern opportunamente ricorda che «sono stati i soldati russi che hanno sconfitto Hitler»: una verità acclarata in sede storica, dalla stessa storiografia liberale angloamericana. Interessante, passare allora alla testimonianza di Heidegger junior, che, pur dichiarandosi un semplice soldato (un ufficiale della Wehrmacht che, afferma, «voleva uscire dall’ombra del padre»), e un normale tedesco «patriota», mostra ripetutamente un’attitudine inquietantemente revisionistica, per dirla in modo spiccio. Per Hermann, in sostanza, senza l’intervento degli Usa, la guerra l’avrebbe vinta il Reich; e nelle sue parole sembra di avvertire un rimpianto. Egli non perde occasione per sottolineare che le vere crudeltà furono perpetrate dai bolscevichi (naturalmente lui dichiara di «non avere nulla di personale contro i russi»), mentre nell’esercito germanico, a sua cognizione non vi furono episodi di violenza contro i civili. Quasi uno scoop storiografico sensazionale, verrebbe da commentare. Fatta salva, in assenza di altri elementi di conoscenza, la buona fede del personaggio, il quale spiega: «Allora noi giovani soldati pensavamo davvero di sconfiggere il pericolo del bolscevismo per il bene dell’Europa e i fascisti italiani condividevano il nostro stesso pensiero». E ancora: «In Ucraina siamo stati accolti con giubilo dalla popolazione, ci portavano latte e miele, erano contenti che qualcuno venisse a liberarli». Controcanto di Rigoni Stern: «I tedeschi credevano di soffocare la guerra partigiana, ma più infierivano più inasprivano gli animi di chi lottava contro. Loro credevano di portare la liberazione dal comunismo, ma i russi si sono accorti che il nazismo era peggio. Si sono accorti che uccidevano e deportavano le loro donne, uccidevano i bambini, si sono accorti che, a parte lo sterminio degli ebrei, distruggevano le case e che non avevano niente di umano». Del resto, i russi, e lo sappiamo dalla stessa lunga vicenda storica di quel paese, hanno una «grande capacità di superare le disgrazie, come nessun altro popolo della terra». Sono «abituati a soffrire», dice Rigoni Stern; e la loro fierezza e determinazione li rendeva sicuri della vittoria.
Quanto agli italiani, si conferma la vergognosa impreparazione del nostro esercito, mandato allo sbaraglio per la gloria del duce. In Russia, come in Grecia e in Albania, mancava se non tutto, di tutto, dalle armi al cibo. Carenti e tardivi i rifornimenti, assenti gli ospedali da campo. Mancavano informazioni e direttive, e quando c’erano, erano imprecise. Senza contare che, convintosi il «Capo» che la campagna sarebbe stata breve e trionfante, i soldati partirono con divise estive e furono annientati dal generale Autunno, ancor prima che dal generale Inverno. Come per Napoleone oltre un secolo prima, il nemico fu soprattutto il freddo; e poi, la distanza da casa, l’impossibilità di dare e ricevere notizie, la solitudine e il senso di abbandono da parte delle stesse gerarchie militari.
Analogo il quadro che emerge dalle altre interviste radunate nel libro: colpisce tuttavia la scarsa capacità – a parte, appunto, Rigoni Stern – di superare l’ottica del testimone, di guardare le cose, a distanza di tanti decenni, con uno sguardo maggiormente en historien. Ciascuno generalizza la propria esperienza, e ne fa una regola, la trasforma nella «verità» dei fatti. Emergono in particolare squarci relativi al ruolo dei leader del Pci allora in Urss, che volevano «convertire» al comunismo i prigionieri. E, colpisce che questi tentativi vengano descritti – per esempio dal prete Enelio Franzoni – come «un vero tormento», «una crudeltà». Non che i dirigenti comunisti italiani fossero degli angioli benefattori, ma forse in quella situazione le crudeltà erano altre. E lo stesso Franzoni, in un passaggio che suscita i brividi, racconta come quella guerra, anche per gli scampati al combattimento, i prigionieri italiani, sia stata «una grande strage»: era il tifo, soprattutto a uccidere: «si moriva felici… Si moriva così, nel delirio, ma senza agonia… Uno non si muoveva più, ed era finito».
Il duce, intanto, da Palazzo Venezia declamava le sue lodi all’Italia in armi che si faceva «rispettare» nel mondo, e, dopo l’Etiopia, la Spagna, la Libia, la Grecia e l’Albania, combatteva sul fronte orientale, in quell’ultima guerra, la sua battaglia contro il bolscevismo e le «razze inferiori». Sì, come ebbe a scrivere Giuliano Ferrara, il «fascismo non è stato poi così male»; e Benito Mussolini, per dirla con Gianfranco Fini, fu «il più grande statista del secolo»…

(Pubblicato su “Il Manifesto”. Nota: questa data di pubblicazione, 21 giugno, ha un duplice significato: nella notte fra il 21 e il 22 giugno 1941, le truppe tedesche superarono il confine sovietico dando il via all’Operazione Barbarossa.  Inoltre, Rigoni scelse proprio un sabato 22 giugno 2002 come data per ospitare Giulio Milani nella sua casa di Asiago. L’intervista che ne è scaturita, e che è oggetto del libro e della recensione qui sopra riportata, è con ogni probabilità l’ultimo lavoro congedato in vita di questo scrittore.)

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2 Commenti

  1. Articolo molto interessante. Ho visto mercoledi alla casa della cutura un film magnifico la strada di Primo Levi che illustra il testo “la tregua” al cuore di un reportage sull’Europa dell’Est. E’ il percorso di Primo Levi revisitato nel mondo odierno. Il film si ferma a Torino da cui ho riconoscito il Po e le facciate bianche (credo che è il luogo che preferisco a Torino, la piazza tornata verso il Po). Parlo del film, perché nelle ultime immagini si vede Mario Rigoni Stern parlando del suo amico. Sto leggendo in francese “le vin de la vie” che propone brane superbe sulla natura, anche sulla guerra.
    Amo nella scrittura di Mario Rigoni Stern, l’amore della solitudine nel cuore della natura: è una scrittura di murmuro, di brusio, di raccoglimento. Una scrittura della vita, umanista, che fa cammino in un cuore che ha visto la guerra.

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