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Teoria critica della razza e libertà di espressione: alcuni punti problematici

(Si conclude qui una serie di interventi sul razzismo curati da S. Morgagni – 1, 2, 3, a. i.)

di Giorgio Pino

1. Un rapporto ambiguo

In questo contributo mi occuperò del trattamento che le teorie critiche della razza (Critical Race Theory, CRT) riservano alla libertà di espressione. Si tratta di un trattamento controverso e ambiguo, perché per un verso la libertà di espressione rappresenta una delle tradizionali libertà civili, vessillo del movimento dei civil rights negli Stati Uniti degli anni Sessanta del Novecento, e come tale rappresenta uno strumento prezioso per gli appartenenti alle minoranze per far sentire la propria voce e far conoscere la propria storia di oppressione e discriminazione. Per altro verso, tuttavia, la libertà di espressione sembra poter giocare a sfavore degli appartenenti a minoranze connotate in senso razziale, in tutte quelle occasioni in cui le parole, le opinioni, sono funzionali a veicolare e rimarcare la distanza, la differenza, tra la presunta maggioranza e la presunta minoranza, o anche sono direttamente veicolo di offesa e stigmatizzazione razziale (1).

Detto altrimenti, la CRT sostiene che nella costruzione dei rapporti di subordinazione sociale (quali quelli che di fatto, in certi contesti, intercorrono tra gruppi connotati in senso razziale) non giocano un ruolo solo elementi materiali come la distribuzione della ricchezza, o di certi posti di lavoro, o di certi incarichi pubblici: il mondo sociale è costruito anche attraverso rapporti di interazione simbolica, e da questo punto di vista il discorso razzista ha una valenza propriamente costitutiva e strutturante nei confronti dell’ordine sociale. In questi ultimi casi, la parola può essere strumento di offesa diretta verso individui per il solo fatto dell’appartenenza di questi ultimi ad un gruppo razzialmente connotato; oppure, la parola può essere – più indirettamente – strumento di diffamazione e discriminazione di un gruppo per mezzo della diffusione di giudizi relativi a quel gruppo stesso; oppure ancora – ed è una possibilità che occupa ambiguamente lo spazio che separa le due possibilità precedenti – la parola può essere lo strumento per armare le mani di altri, che commetteranno reati motivati dall’odio e dal disprezzo verso gli appartenenti ad un gruppo connotato in senso razziale.

Tanto premesso, la posizione standard della CRT nei confronti del discorso razzista può essere sintetizzata nel modo seguente: il discorso razzista, in tutte le sue manifestazioni, produce danni rilevanti; tali danni si dispiegano, contemporaneamente, nella dimensione individuale della vittima di quei discorsi, e nella più complessiva dimensione sociale, influendo sul modo in cui gli appartenenti alla minoranza presa di mira dal discorso razzista possono partecipare al discorso pubblico, e ancora più in generale influendo sui rapporti di potere tra i gruppi sociali. Di conseguenza, gli esponenti del movimento considerano opportuna, e costituzionalmente legittima, una soppressione giuridica del discorso razzista, ricorrendo ad esempio a sanzioni penali e amministrative, o quantomeno alla sanzione civile, nei confronti degli autori di questi discorsi (2).

Intendo esaminare criticamente gli assunti centrali della posizione standard, in particolare per quanto riguarda la rappresentazione di alcuni dei danni determinati dal discorso razzista (§§ 2.2 e 2.3), e la disciplina giuridica proposta per il discorso razzista (§§ 3.1 e 3.2).

2. How to do (bad) things with words

Il discorso razzista, sostiene la posizione standard, è dannoso da diversi punti di vista: esso produce danni su individui determinati, di solito le vittime o bersagli di offese razziali (li chiamerò «danni individuali»), ma anche danni su più vasta scala, sulla società nel suo complesso (li chiamerò «danni sociali»).
Questi danni non sono necessariamente legati ad atti di violenza fisica come aggressioni, o disordini sociali (anche se può accadere che il discorso razzista dia adito o si accompagni a varie forme di violenza): sono, piuttosto, danni prodotti da parole.

2.1. Danni individuali

Alcune forme di discorso razzista provocano effettivamente danni diretti: si tratta di quelle forme di discorso che sono in grado di determinare in via diretta atti di violenza (istigando direttamente la commissione di tali atti, o inducendone la commissione in forma di reazione da parte del soggetto aggredito verbalmente). Non mi occuperò qui di questi casi, perché è evidente che il diritto è legittimato ad intervenire in nome della protezione di diritti e interessi da danni concreti. In tali casi, il discorso è la (con)causa di un danno in senso tecnico, e nessuna delle giustificazioni filosofiche della libertà di espressione accorda protezione a questo tipo di conseguenze di un discorso (taluni addirittura sostengono che in questi casi non saremmo nemmeno in presenza di un discorso, ma piuttosto di un’azione (3)).

I problemi maggiori sono invece determinati da quelle altre forme di discorso razzista che producono non un danno fisico diretto (o ne producono uno che presenta una fenomenologia differente rispetto all’aggressione fisica), ma piuttosto conseguenze più sottili e indirette. Chiaramente, in assenza di atti di aggressione fisica si pone il problema di dimostrare che l’effetto prodotto dal discorso razzista sia qualificabile come danno, e non sia invece qualcosa di simile al semplice disappunto, al fastidio, o all’imbarazzo. Si pone in altre parole il problema di distinguere il danno da una offesa, il discorso dannoso dal discorso (soltanto) offensivo (4).

Ebbene, secondo la posizione standard, il discorso razzista specialmente in certi contesti produce danni sulle sue vittime, e non solo offese, ad esempio potendo indurre depressione, profonda disistima di sé, impossibilità di frequentare determinati luoghi (ad es., campus universitari) per paura di incorrere in esperienze umilianti ecc.; certo, questi non sono danni nello stesso senso in cui lo è la rottura di un braccio, o l’incendio di una casa, tuttavia non si vede perché non considerarli giuridicamente rilevanti, una volta che si sia accertato a) che l’interesse coinvolto ha dignità primaria (l’integrità psicofisica, la capacità di interagire con gli altri, ecc.) e b) che tale interesse subisce un pregiudizio non banale. D’altronde, secondo la posizione standard il fatto che il diritto(5) finora non avesse considerato queste situazioni come danni non vuol dire nulla: evidentemente nel tempo cambia la percezione sociale di certi fenomeni, e il diritto può e deve tenerne conto (ad esempio, fino a qualche anno fa la violenza sessuale era considerata un reato contro la morale, non contro la persona).

Fin qui tutto bene: si tratta di un semplice ritocco della nozione di danno giuridicamente rilevante, riformulazione non troppo dissimile a percorsi che sono stati seguiti in alcune esperienze giuridiche contemporanee, e i problemi che questa costruzione può incontrare sono, eventualmente, di tipo probatorio (si è davvero verificato un danno, come è definito alla luce della teoria?).

Infine, vi è anche un altro, diverso, senso in cui il discorso razzista produce danni su individui determinati, ed è quando il discorso razzista, trattando certe persone come bersaglio continuo di odio e di disprezzo, agevola e legittima la commissione di atti di violenza e di aggressione nei confronti di quelle persone. In questo caso, il discorso razzista è strumento di violenza (allo stesso modo in cui, per alcuni filoni del pensiero femminista, il discorso pornografico è strumento di violenza sulle donne, in quanto le rappresenta come oggetto – talvolta perfino accondiscendente – di attenzioni sessuali degradanti), e costituisce una sorta di istigazione oggettiva alla violenza razziale.
Qui però iniziano a profilarsi alcune difficoltà, che diventeranno più chiare passando a considerare i danni sociali del discorso razzista.

2.2. Danni sociali (I): il silencing

Un primo tipo di danno sociale che è stato imputato al discorso razzista è il c.d. silencing (6). L’idea è la seguente: l’esposizione di un gruppo (ad esempio una minoranza razziale), ad un clima di aggressione, di umiliazione, di denigrazione ecc., può sortire l’effetto di privare gli appartenenti a quel gruppo del proprio diritto ad essere ascoltati nel momento in cui decidono di parlare. Questo dovrebbe sollevare serie perplessità sull’idea, tipica della giurisprudenza costituzionale americana, che il miglior rimedio ai discorsi insultanti o razzisti può essere solo più discorsi.

A dire il vero, ciò che si intende per silencing nella letteratura CRT non è sempre chiaro: talvolta si usa questo termine per designare un effetto sociale del discorso razzista, talaltra per designare un effetto individuale, che si produce sulla vittima di insulti razziali .
Nel primo senso, l’effetto di silencing non significa che il discorso razzista letteralmente espropri la libertà di parola delle sue vittime (8); piuttosto, il discorso razzista agirebbe allo stesso modo di un rumore di fondo, o dell’inquinamento acustico: bersagliando ripetutamente gli appartenenti ad un certo gruppo, il discorso razzista creerebbe un ambiente ostile o quantomeno di diffidenza nei loro confronti, ponendoli in una situazione più faticosa affinché la loro voce possa essere ascoltata e presa sul serio nell’arena pubblica.Nel secondo senso, significa che la vittima di insulti razziali diretti è indotta al silenzio per paura che agli insulti razzisti seguano aggressioni fisiche: gli insulti razzisti creano nei confronti dei destinatari un clima costante di minaccia (9).

Il silencing come figura di danno che richiede una risposta da parte del diritto incontra, mi pare, alcune difficoltà. La prima difficoltà è che in entrambe le versioni (sia inteso come danno individuale sia come danno sociale), l’effetto del silencing si fonda su una affermazione di tipo causale: come tale essa dovrebbe essere dimostrata, e non semplicemente asserita (10).

Inoltre, in assenza di una descrizione più precisa del fenomeno del silencing, si rischia di presupporre che la libertà di espressione assegni a ciascuno un diritto (non solo di parlare ma anche) di essere ascoltato, o addirittura capito ; una tesi piuttosto difficile da difendere.

Il problema, forse, è che la plausibilità prima facie dell’argomento del silencing deriva da una duplice circostanza: 1) non ci piace l’idea che gli appartenenti ad una minoranza già oggetto di discriminazioni passate siano, in ipotesi, estromessi dal dibattito pubblico (mentre ad esempio non troviamo eccessivamente scandaloso che uno storico negazionista non sia invitato ad un congresso di storici sulla Seconda guerra mondiale, o che uno scienziato creazionista non sia invitato ad un congresso su Darwin); 2) questa situazione ci ricorda e ci sembra pericolosamente simile al caso in cui a qualcuno sia fisicamente impedito di esprimere il proprio pensiero da altri, caso quest’ultimo su cui non avremmo alcuna esitazione a sollecitare una risposta da parte del diritto.

Il punto è che il silencing è in realtà troppo diverso da una situazione di impedimento fisico, per giustificare lo stesso trattamento da parte del diritto(12) : per garantire a ciascuno il diritto ad essere ascoltato (ad un ambiente favorevole a che le sue idee vengano accolte con la migliore disposizione d’animo) dovremmo immaginare una serie di condizioni fattuali e giuridiche tali da rendere di fatto impossibile la libertà di manifestazione del pensiero – ma anche, probabilmente, la libertà di circolazione, di religione e di associazione.

2.3. Danni sociali (II): il discorso razzista perpetua la subordinazione sociale

Questa seconda dimensione della libertà di espressione è quella che ha maggiormente attirato l’attenzione degli studiosi della CRT, ed è anzi una ricaduta particolare di una più generale acquisizione del movimento: l’idea che la razza è non solo (e, anzi, non principalmente) un dato biologico, ma una costruzione sociale (13). Questo significa due cose: in primo luogo, che non esistono “razze” in natura, ma che esse vengono definite e delimitate da pratiche sociali talvolta inintenzionali e stratificate nel tempo, talvolta deliberate – e quest’ultimo è ad esempio il caso delle definizioni giuridiche di razza: si veda ad esempio la regola della “one drop”, efficacemente discussa da Neil Gotanda (14). In secondo luogo, che queste stesse pratiche sociali ed eventualmente giuridiche non solo costruiscono la razza, ma attribuiscono alla razza così creata un certo valore o disvalore sociale, in quanto associata a pratiche, a valori, a una “forma di vita”; così, in ultima analisi, la costruzione della razza è funzionale all’istituzione e riproduzione di gerarchie sociali.

Si noti: questo processo di costruzione sociale della razza (e di creazione di un rapporto gerarchico tra gruppi razziali) è determinato dal concorrere di vari tipi di pratiche e di discorsi. Ad esempio, in questo contesto il discorso del diritto può svolgere non solo una funzione diretta di regolazione di fenomeni specifici (ad esempio la disciplina dei fenomeni migratori), ma anche una rilevante funzione simbolica e di stigmatizzazione sociale di certi fenomeni legati all’appartenenza razziale(15) , e anche di legittimazione dell’ordine gerarchico esistente (16). In questo quadro, il discorso razzista rappresenta certamente la proverbiale punta dell’iceberg, è la manifestazione più virulenta di un fenomeno stratificato e pervasivo; ma d’altro canto di tale fenomeno è non solo effetto ma anche causa, perché secondo la CRT il discorso razzista contribuisce a sua volta a legittimare e riprodurre l’ordine gerarchico esistente strutturato su basi razziali (17).

In questo quadro, la protezione giuridica riconosciuta al discorso razzista in nome della libertà di espressione finisce per essere una sorta di «tolleranza repressiva» á la Marcuse(18) : in un contesto di forte disparità di potere tra gruppi sociali, la tolleranza nei confronti del discorso (violento, offensivo, o propagandistico) di un gruppo dominante ai danni di un gruppo socialmente svantaggiato è solo una falsa tolleranza, una tolleranza repressiva perché, lungi dall’essere veicolo di liberazione, la tolleranza finisce con l’essere uno strumento per rafforzare l’oppressione nei confronti delle minoranze.

Auspicare che lo squilibrio di potere sia compensato con more speech, in una prospettiva da libero mercato delle idee, è agli occhi di questi studiosi frutto di falsa coscienza, quando non di mala fede: il libero mercato delle idee servirà solo a fare il gioco di chi ha già più potere, e in tal modo a legittimare – ancora una volta – la riproduzione dei rapporti di subordinazione sociale. A questa situazione i teorici della CRT oppongono alcuni correttivi al libero mercato delle idee, così come le affirmative actions sono state usate in altri contesti sociali in cui si è capito che certe diseguaglianze non avrebbero potuto essere sanate (ma semmai aggravate) dal libero operare delle leggi del mercato.
Anche questa seconda accezione di danno sociale del discorso razzista incontra, a mio parere, alcune difficoltà.

In primo luogo, per affermare che il discorso razzista abbia effettivamente l’effetto di creare, ricreare o legittimare un rapporto di subordinazione sociale su basi razziali occorre che tale discorso provenga da una fonte riconosciuta come autoritativa nella società, e che sia condiviso dalla società nel suo complesso, o almeno in una sua maggioranza significativa . Ma questo non sembra essere il caso, almeno nella maggior parte delle società occidentali contemporanee. Inoltre si può agevolmente riscontrare che molte di queste società adottano misure sia positive sia repressive contro la discriminazione razziale e che esiste un notevole grado di consenso sociale sul rifiuto del razzismo, quindi anche a non voler credere che viviamo nel migliore dei mondi possibili si può sempre osservare che nelle società occidentali circolano quantomeno messaggi di segno diverso, anziché un univoco e soffocante messaggio di subordinazione razziale.

In secondo luogo, ammesso che il discorso razzista svolga davvero questo ruolo di legittimazione delle gerarchie sociali su base razziale, non si vede perché tale ruolo sia svolto unicamente o anche solo principalmente dal discorso razzista (quale si realizza in offese razziali, insulti, epiteti, ostentazione di simboli nazisti, ecc.) e non anche da altre forme di comunicazione sociale di gran lunga più pervasive, striscianti e subliminali come quelle spesso diffuse dai mass media (come ad esempio potrebbe essere una ripetuta raffigurazione nei mass media dei membri di una minoranza come delinquenti, o carcerati, o adibiti a mansioni lavorative considerate umili, ecc.).

3. Rimedi giuridici ai discorsi razzisti

Secondo la posizione standard, tutte le manifestazioni e tipologie di discorso razzista (essendo fonti di danni individuali e sociali rilevanti) dovrebbero essere assoggettate ad una regolamentazione giuridica, principalmente nella forma della sanzione penale.

Questo aspetto della posizione standard fonde, a ben vedere, due distinti ordini di considerazioni: il primo è che tutti i tipi di discorso razzista, indistintamente, dovrebbero essere assoggettati a regolamentazione giuridica; il secondo è che la regolamentazione giuridica preferibile è, indistintamente per tutti i tipi di discorso razzista, quella penale, oppure in subordine quella amministrativa o quella civile (20). Anche questa posizione può suscitare alcune perplessità, relativamente alla considerazione del discorso razzista come categoria unitaria, e al (conseguente) ricorso alla medesima sanzione (in ipotesi: quella penale) per tutte le forme di discorso razzista.

3.1. Fenomenologia del discorso razzista

Forse non tutte le offese a sfondo razziale sono uguali. Esiste (purtroppo) una fenomenologia diversificata di discorsi razzisti, che possono coprire uno spettro che comprende, in ordine decrescente per quanto riguarda le modalità aggressive del discorso:
a) l’insulto razzista rivolto direttamente ad una o più persone identificate come appartenenti al gruppo razziale preso di mira;
b) la propaganda di idee e di messaggi (inclusi l’ostentazione di simboli e altri comportamenti espressivi ) che rivendicano la superiorità di un gruppo razzialmente connotato rispetto ad altri gruppi, e disprezzo e odio nei confronti di questi ultimi;
c) la propaganda di idee e messaggi che rivendicano la superiorità di un gruppo razzialmente connotato rispetto ad altri gruppi, basata su argomenti pseudo- o para-scientifici;
d) la negazione o il drastico ridimensionamento di fatti o eventi storici che hanno tragicamente coinvolto gruppi connotati in senso razziale (la schiavitù, l’Olocausto), se la negazione o il ridimensionamento sono motivati non da fini di spassionata indagine storiografica, ma per gettare discredito sulle minoranze interessate.

Nell’ambito della posizione standard, la giustificazione della costruzione di una categoria unitaria di discorso razzista è che si tratta di pezzi di un medesimo ingranaggio, la subordinazione sociale e la legittimazione della discriminazione e finanche delle aggressioni razziali trovano tutte la propria radice nel variegato universo dei discorsi razzisti, senza soluzione di continuità (22).

Ora, a me pare che tra questi casi paradigmatici di discorso razzista qualche differenza vi sia, che le conseguenze dannose su singoli individui possano essere dirette in alcuni casi e indirette o addirittura remote in altri casi, e questo credo faccia una differenza; di conseguenza, un rimedio giuridico considerato opportuno per un tipo di offesa razziale non necessariamente va bene anche per altri tipi, o per tutti.

3.2. Quale sanzione per il discorso razzista?

Il quarto (e ultimo) nodo problematico riguarda la proposta, ascrivibile alla posizione standard, di assoggettare tutte le forme di discorso razzista ad un’unica sanzione giuridica (in particolare la sanzione penale). Se è vero che il discorso razzista si presenta sotto svariate forme (la cui dannosità individuale e sociale è dipendente dal contesto di riferimento), allora non vedo ragione per assoggettare tutti i discorsi razzisti alla stessa disciplina giuridica, meno che mai invariabilmente alla sanzione penale.

Conformemente all’idea illuminista e liberale del diritto penale minimo, sarebbe certamente opportuno limitare la sanzione penale al solo caso di discorso razzista che è fonte diretta di danni individuali (da non intendersi come danni necessariamente fisici, ovviamente), mentre per i discorsi razzisti che producano solo danni sociali il diritto potrebbe intervenire non con misure sanzionatorie e coercitive, ma con misure promozionali di vario tipo (ad esempio sul piano dell’istruzione, o dell’incentivazione dell’editoria a favore di gruppi razziali svantaggiati ecc.).

Se il discorso razzista è una sfida di cui il diritto deve farsi carico nelle nostre società sempre più multiculturali e multietniche, allora non si vede perché questa sfida debba essere gestita esclusivamente con la logica dicotomica della coercizione penale.

Note

* Una prima versione di questo testo, con il titolo Diritto e sfide della differenza (razziale): pluralismo e libertà di espressione, è stata presentata il 7 marzo 2007 nell’ambito dell’XI ciclo del «Seminario di Teoria del diritto e Filosofia pratica» organizzato presso il Dip. di Scienze Giuridiche dell’Università di Modena e Reggio Emilia.

1)«Now the defenders of the status quo have descovered, in the first amendment, a new weapon […] The first amendment arms conscious and unconscious racists – Nazis and liberals alike – with a constitutional right to be racists»: M. Matsuda, Ch. Lawrence III, R. Delgado, K.W. Crenshaw, Words That Wound. Critical Race Theory, Assaultive Speech, and the First Amendment, Westview, Boulder (CO) 1993, pp. 14-15 [d’ora in avanti: Words That Wound].
2) Ho ricostruito la «posizione standard» sulla base dei saggi raccolti in Words That Wound, cit. Sono consapevole che la CRT ha prodotto anche punti di vista differenti, o più articolati, su questo argomento. Non credo, tuttavia, di avere prodotto una versione caricaturale del movimento. Penso inoltre che, al di là di singoli punti problematici, diverse lezioni interessanti possono essere ricavate dai contributi della CRT sul modo in cui, in società attraversate da divisioni razziali, il diritto può essere – a seconda dei casi – parte del problema e parte della soluzione.
3) M. Troper, La legge Gayssot e la Costituzione, in «Ragion pratica», (1997), n. 8, pp. 189-207, p. 198.
4) La distinzione tra danno e offesa non è sempre chiara. Tendenzialmente, un “danno” è definito come la lesione di un interesse, mentre una “offesa” è definita in virtù della sua attitudine ad indurre alcuni stati mentali differenti tra loro, ma accomunati dall’essere solitamente percepiti come sgradevoli, fastidiosi, irritanti, imbarazzanti ecc. Cfr. J. Feinberg, Filosofia sociale (1973), il Saggiatore, Milano 1996, pp. 54 ss.
5) Mi riferisco al diritto americano vigente al momento in cui è stata elaborata la posizione standard (anni Ottanta del XX secolo). Il diritto italiano attuale conosce figure di danno assimilabili a quelle esposte nel testo, come ad esempio il danno biologico e il danno esistenziale.
6) Ch. Lawrence III, If He Hollers Let Him Go: Regulating Racist Speech on Campus, in Words That Wound, cit, pp. 53-88
7) Il passaggio da un senso all’altro del silencing è leggibile ad esempio in Ch. Lawrence III, If He Hollers Let Him Go: Regulating Racist Speech on Campus, cit., pp. 78-79.
8) Come viene invece sostenuto nell’ambito del femminismo radicale, secondo cui alcune forme di pornografia hanno l’effetto di privare le donne della loro libertà di parola.
9) Questa mi sembra l’accezione in cui il termine è usato anche da F. Baroncelli, Trent’anni dopo. Marcuse, la tolleranza repressiva e gli speech codes, in «Ragion pratica», (1999), n. 12, pp. 31-56.
10) Per un argomento analogo, cfr. D. Jacobson, The Academic Betrayal of Free Speech, in «Social Philosophy and Policy», XXIV (2004), pp. 48-80.
11) Questo, come giustamente nota Ronald Dworkin, sarebbe assurdo: cfr. R. Dworkin, Freedom’s Law. The Moral Reading of the American Constitution, Oxford U.P., Oxford 1996, capp. 8-10.
12) L. Green afferma che quella del silencing è una metafora, ma in realtà intende funzionare come una analogia (rispetto all’impedire fisicamente a qualcuno di parlare): L. Green, Pornographizing, Subordinating, and Silencing, in R. Post (ed.), Censorship and Silencing: Practices of Cultural Regulation, The Getty Research Institute for the Histoty of Arts and the Humanities, Los Angeles 1998, pp. 285-311.
13) Cfr. ad es., I. Haney Lòpez, Bianco per legge (1996), in K. Thomas, Gf. Zanetti, a cura di, Legge, razza, diritti. La Critical Race Theory negli Stati uniti, Diabasis, Reggio Emilia 2005, pp. 71-77.
14) N. Gotanda, «La nostra costituzione è cieca rispetto al colore»: una critica (1991), in K. Thomas, Gf. Zanetti, a cura di, Legge, razza, diritti, cit., pp. 27-69; in proposito si veda anche L. Friedman, La società orizzontale (1999), il Mulino, Bologna 2002, cap. 5.
15) Di alcuni di questi aspetti ho sinteticamente discusso in G. Pino, Corpi, parole, simboli. Appunti sulla via italiana alla teoria della differenza razziale, in «Jura Gentium», forum su Legge, “razza” e diritti. A partire dalla Critical Race Theory, a cura di Thomas Casadei e Lucia Re, 2006: .
16) Ad esempio, la letteratura della Critical Race Theory ha prodotto alcune interessanti (ancorché cervellotiche e in fin dei conti controproducenti) riletture del caso Brown come un First Amendment issue, una questione di libertà di espressione: in gioco ci sarebbe stata, infatti, innanzitutto la condotta espressiva dello Stato che nell’istituire scuole separate (but equals?) per bianchi e neri avrebbe inteso diffondere un messaggio di subordinazione sociale (cfr. Ch. Lawrence III, If He Hollers Let Him Go: Regulating Racist Speech on Campus, cit.; le decisioni della Corte Suprema sul caso Brown possono ora essere lette in traduzione italiana in K. Thomas, Gf. Zanetti, a cura di, Legge, razza, diritti, cit., pp. 1-10). L’aspetto controproducente di questo argomento è che in tal modo la libertà di espressione è riconosciuta in capo allo Stato, ossia esattamente il soggetto contro il quale essa è tradizionalmente reclamata.
17) Cfr. M. Matsuda, Public Response to Racist Speech: Considering the Victim’s Story, in Words That Wound, cit., pp. 17-51 (spec. p. 36). Alcune delle idee espresse da teorici della CRT su questo argomento sono abbastanza simili a (e talvolta sono mutuate da) posizioni del pensiero femminista relativamente al discorso sessista e in particolare alla pornografia.
18) H. Marcuse, La tolleranza repressiva, in R.P. Woff, B. Moore jr., H. Marcuse, Critica della tolleranza. I mascheramenti della repressione (1965), Einaudi, Torino 1968, pp. 77-105.
19) Un punto simile, ma riguardo alla pornografia, è svolto da L. Green, Pornographizing, Subordinating, and Silencing, cit.
20) Non è sempre chiaro quale specifica sanzione penale o amministrativa dovrebbe essere introdotta. Per una dettagliata analisi della possibilità e dell’opportunità di introdurre esclusivamente rimedi di diritto civile, cfr. invece R. Delgado, Words That Wound: A Tort Action for Racial Insults, Epithets, and Name Calling, in Words That Wound, cit., pp. 89-110.
21) Tra cui (noti esempi presi dalla giurisprudenza americana): una marcia neonazista in un sobborgo densamente abitato da ebrei, tra cui alcuni sopravvissuti all’Olocausto; l’affissione di una croce in fiamme nel giardino di una famiglia di colore, ecc.
22) Cfr. ad es. Ch. Lawrence III, If He Hollers Let Him Go: Regulating Racist Speech on Campus, cit., p. 85. Analogo trattamento unificato delle varie forme di discorso razzista è fatto da M. Rosenfeld, Hate Speech in Constitutional Jurisprudence: A Comparative Analysis, in «Cardozo Law Review», XXIV (2003), pp. 1523-1567.

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